Copertina
Autore Khalid Boudou
Titolo Il paradiso della cotoletta
EdizioneGarzanti, Milano, 2004, , pag. 336, cop.fle., dim. 137x205x27 mm , Isbn 978-88-11-66498-7
OriginaleHet schnitzelparadijs [2001]
TraduttoreFranco Paris
LettoreElisabetta Cavalli, 2004
Classe narrativa marocchina , narrativa olandese , narrativa nederlandese
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Pagina 7 [ inizio libro ]

HOTEL RISTORANTE NELLA MORSA DEVASTANTE
DI UN MARE DI FIAMME
dalla nostra corrispondente



OPDEINEN - Ieri notte un incendio ha arrecato ingenti danni all'hotel ristorante De Blauwe Gier a Opdeinen. L'incendio ha distrutto gran parte delle due cucine, il magazzino e il ristorante. I vigili del fuoco non escludono che possa trattarsi di un incendio doloso.

Mentre il fuoco si espandeva i vigili evacuavano le camere dell'albergo e la hall per impedire che le fiamme si propagassero. Durante questa operazione uno dei vigili è rimasto gravemente ferito alla testa ed è stato trasportato in ambulanza all'ospedale più vicino.

L'hotel ristorante, che fa parte della catena De Blauwe Gier, un mese fa ha suscitato scalpore a causa di una presunta frode fiscale. È ancora in corso un'approfondita indagine giudiziaria.

Max Meerman, direttore del discusso hotel ristorante, è stato molto colpito dalla vicenda. «È come se non avessimo il diritto di esistere», ha dichiarato ieri notte costernato alla calca dei giornalisti.

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Pagina 11

SONNO, VEGLIA, RISVEGLIO



Pedalo a buon ritmo e supero il giardino dell'appartamento, costeggio il canale con l'acqua torbida e verdastra, verso ovest, oltre il ponte di Sint Jan, attraverso il centro della città, supero la chiesa di Sint Simeon e, all'ultima rotonda, giro a destra. Una BMW compatta passa sopra i triangoli bianchi della precedenza e cerca di tagliarmi la strada, ma si vede costretta a frenare perché io continuo a pedalare deciso e sicuro. Il rasta occhialuto picchia sul volante, afferra torvo la corta leva del cambio e sbuffa minaccioso. Con un ampio movimento del braccio, spiattellando un miscuglio di lingue pedalo accanto a quel cofano enorme e opaco e gli grido: «Iwa, iwa, calmati, amico! Take it easy, boy!»

Lui non si spreca più di tanto e alza il dito medio.

Mi getto di nuovo a capofitto sui pedali duri e cigolanti, avanti, avanti, oltre la palestra, lungo il bagno pubblico dei cani, schiaccio il bottone dei ciclisti al semaforo, fisso la luce, vengo svegliato dal ticchettio per i ciechi, attraverso e mi ritrovo a faccia a faccia con l'hotel ristorante De Blauwe Gier.

De Blauwe Gier, l'avvoltoio blu. L'uccello che becca le carcasse è un edificio colossale con una facciata asimmetrica e tettoie verdi sopra ampie finestre con tende avvolgibili. So di avere un pessimo umore e di vedere a torto solo il lato negativo delle cose... ma questa deve essere l'opera di un architetto completamente fuso (una persona piena di risentimento che odia i ristoranti, che si vendica, perché in uno degli ottanta Blauwe Gieren, una delle tante altre osterie per ingozzarsi di cotolette che arricchiscono il paese, si è visto propinare un piatto tiglioso con un nome francese). Dio onnipotente, che schifo di edificio!

Sulla veranda ci sono dei turisti che fanno i turisti camminando su e giù con vestaglie trasparenti, leccando gli slanciati pilastri con lingue indagatrici. Non fatevi illusioni, è semplice acciaio, anche se siete in vacanza, non vi inventate liberazioni di alcun tipo. (Pensieri che mi balenano. Sono strati di grasso color latte con macchie di pigmento nere, bocca aperta... ah, non ti rovinare gli occhi, boy.) Frequentatori di prostitute si godono rilassati la vita, sbadigliando verso un sole che c'è e non c'è...

Un velo mi appanna gli occhi. La mia condizione non è più quella di una volta. Sono stato fiacco per mesi, mezzo in coma, oh boy. Ma adesso ricomincio. Con rinnovato coraggio, e molto piccolo, più piccolo di quanto sia in realtà, più semplice, osservo: leggo i visi, calco le orme, faccio tirocinio e ascolto, ascolto molto. Guardo al di là del muretto dell'«angolo delle pentole», come stanno le cose riguardo all'amore, alla libertà, alla speranza, ai sogni.

«È un microcosmo di vita», aveva detto Meerman facendomi firmare il contratto per il lavoro volontario.


Io avevo telefonato e, dopo «un momento di pazienza per favore sta arrivando e ancora un momentino per favore ha ancora un attimo?» mi aveva detto una voce calda che suscitava pensieri impertinenti, ero in linea con Meerman, che mi parlava con grande cortesia: «In che cosa posso esserti utile? Vuoi lavorare? Il lavoro non manca, vieni pure, chiedi pure di Meerman. E preparati a giocare».

«Giocare?»

«Sì, perché siamo impazienti di sapere come giochi.»

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Pagina 51

Come potrei descrivere l'angolino in cui mi trovo, a che cosa potrei paragonarlo? A una piccola pattumiera? A uno studio sadomaso per anziani stravaganti? A una pozza di fango che fa venire il capogiro? A una vasca per batteri giocolieri? Veramente, i batteri in questo polder di zuppa tra le cacchette di topo hanno fondato un proprio stato di bacilli, qui vanno a scuola, nel laboratorio della fettina, si fanno una birretta in compagnia, pianificano le carriere, organizzano gare a chi arriva primo nella minestra, e sostengono esami di maturità per la Scuola Superiore di Decomposizione. Qui devo dare libero corso alla fantasia, sennò non ce la faccio, oh boy, sennò non ce la faccio. Questo lavoro ammazza tutto quello che vive nella testa. Si insinua di cellula in cellula. Se ogni tanto non ti rifugiassi nelle fantasticherie diventeresti tu stesso una spazzola. I resti di cibo che scorrono dalle pentole sono blu e bianchi a causa dei funghi della muffa, all'inizio la puzza è terribile, ma dopo un po' che ci stai non la senti più, e si trasforma in un misto sottile di puzza di bagno e cassonetto. Vuoi sapere come? Piega il collo, usa la testa come Anitra wc e lo vivrai di persona. Io ci sto proprio in mezzo, sul mio sgabello da pentola. C'è così tanto grasso qui che i brufoli con le loro teste bianche si sono annidati tra i solchi del mio viso. Vedo due occhietti torbidi che mi fissano dai cerchi che si allargano nell'acqua quando insapono le pentole. Le mie Nike, con tutti i sacchi di plastica, si sono impregnate del colore della salsa sul pavimento a piastrelle con la ghiaia. Un colore mimetico. Ancora un paio di mesi e avrò lo stesso aspetto delle pentole intorno a me, ehi, ehi, ehi, che futuro florido, Nordip! Signor Doenia...

L'ora del caffè.

«Ciao, cara Agnes, ciao, signore, ciao, a tutte e due.»

Agnes mi accarezza la testa riccia verso una beatitudine dura, cerca di attirarmi fuori dal mio guscio bagnato, per ottenere risposte a domande che non gradisco.

È Sofie quella che fa sempre le domande di Agnes: «Ce l'hai già una nuova amichetta, Nordipino, il nostro piccolo Casanova?»

«Dov'è il mio caffè, cara Agnes?»

«Attenzione...!» Krimo e Ivan tagliano la strada ad Agnes e a Sofie con vassoi di metallo con sopra delle teste di maiale senza occhi, le due si spostano in direzioni diverse.

«Dov'è il mio caffè?»

«Oh, scusa, me n'ero completamente dimenticata. Fra poco tolgo il mio tavolo e poi ritorno con due cuccume per te», risponde Agnes ridacchiando.

Sofie si sporge in avanti col collo e si aspetta una risposta alla sua domanda.

«Smettila. Smettila con l'amore», dico io e mi guardo in giro per vedere dove ho lasciato, con i miei nervi ingarbugliati, la spazzola. Odio l'amore.

«Hai solo diciannove anni, ragazzo, ti sei già stufato?» chiede Sofie con finto sdegno.

«Diciannove? Mettici pure venti anni di mal di testa. Guarda. Divento già calvo.» Con le dita separo i miei capelli sottili sul cocuzzolo. Mi rimetto seduto diritto, batto le mani e me le pulisco sul grembiule sporco, sul quale ho scritto con dei fregi fatti con un pennarello BOB MARLEY.

Amimoen colpisce la cappa con la forchetta da scalco. Deng! Deng!Deng!

«Sì, Sofie, cara Agnes... Tsjoepita era così diversa, con quei tagli da coltello per le patate nelle sue dita unte di olio da insalata. Qualche volta era doppia e trasparente come le finestre di casa nostra, ma era fatta di morbida polpa di zucca, odorava di saponette Lux e di crema Zwitsal per i culetti dei bambini. Tsjoepita era una ragazza bella, sveglia e innocente, una di quelle dell'hula hoop di paese. Puah, che cosa non mi ha combinato!»

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Pagina 123

NEGLI ARTIGLI DELLA TIGRE MODERNA



«Guarda un po', ratto. Eccoti la robaccia.» Bokma, ancora ansimante dopo le scale, passa la borsa del fruttivendolo ad Amimoen, che la riceve avidamente.

«Quanto hai pagato quella salamandra, grassone?» chiede Amimoen. Guarda nella borsa.

«Venticinque. Veramente costa trentacinque, per te ha fatto un'eccezione», risponde Bokma. «Il resto è per la benzina.»

Amimoen alza gli occhi con un'espressione professionale e scettica. «Per caso la tua macchina va a whisky come te, ciccione? Ti sei comprato un altro spinello? E dì a quella salamandra quando la incontri che la smetta di farmi questa specie di favori commerciali, con quelle chiacchiere a vanvera, sai.» Agitato strappa la borsa e tira fuori una bottiglietta.


LOVE RAIN SPANISH FLY
PER UN PIACERE SESSUALE ESTREMO


«Ne vuoi un goccio?» mi chiede malizioso tenendo la bottiglietta aperta davanti al mio naso.

Io faccio un passo indietro e sbatto la testa contro il bordo del forno.

«Che ore sono?» chiede lui nervoso «Dobbiamo metterci a friggere.»

«Le dieci meno un quarto.»

«Ivan, sei già pronto? Tira fuori dal forno quelle scorpene, alza il gas e intanto prepara i piatti. Ci mettiamo a friggere quelle novantanove fettine, sai! Novantanove fettine, sono dei mostri!»

Ivan sbadiglia e si gratta sotto la maglietta, sopra l'ombelico.

Amimoen legge concentrato le istruzioni per l'uso della bottiglietta, aggrotta di nuovo le sopracciglia, spalanca le pupille e va verso la dispensa con un dito sul mento. Prende un rotolo di nastro adesivo, si dirige verso le lenti della telecamera e le copre una a una. Ci gode un mondo.

«Che cosa hai intenzione di fare?» gli chiedo quando torna indietro ciabattando e facendo una smorfia crudele.

«Riscaldo un po' quei ricconi laggiù», dice divertito.

«Vorresti dire che schiaffi quella bottiglietta nella salsa? »

Annuisce. «Precisamente. E ho preso pure un ratto, ce lo macino dentro.»

«Tu guardi troppi film. Non puoi mica farlo.»

«Ah no... inzuppare per niente in una frittella quello sì che lo puoi fare, eh...»

Sento di rimpicciolire a poco a poco, e scompaio come un neo nel mio rossore.

«Vengono qui tutti gli anni. Vedrai, lavapiatti, proprio strano, sai. Si mettono tutti insieme a grugnire. Adesso li faccio grugnire io. Un po' di calore, sai. Gli serve del pepe a quei tipi, così possono vedere che razza di vita del cazzo faccio.» Gira la salsa, toglie il cucchiaio dalla pentola e picchietta sul bordo. Deng! Deng! Deng! «O non ti pare una vita del cazzo, Nordip? Guarda qua, amico, coliamo tutti e due grasso di maiale!» Con l'indice si raccoglie una goccia di sudore dalla fronte. «Puah! Amico, amico, amico, questa è veramente una vita da cani...!» La salsa alla panna bolle. Amimoen abbassa il gas.

«Mm», è tutto quello che so dire.

«È proprio vero che hai ancora parecchio da imparare, sguattero, e smettila di fare mmmm-mmmmmm, mi dai ai nervi, sai... quinnnndi...» Amimoen tiene la bottiglietta sopra la pentola, pondera, sospira, la afferra con forza, la scaglia in aria, la riacciuffa e se la mette in tasca. «Ah, lascia perdere, prima che Dio mi punisca ancora più severamente. Questa bottiglietta però una volta la voglio usare per quell'arrogante di Meerman. Vieni, sguattero, oggi è il tuo giorno. Ti insegnerò a cucinare.»

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Pagina 163

Mio padre era il primo, era lui l'uomo del villaggio, il campione assoluto. L'uomo che andò via senza calzature, con i piedi fasciati di stracci, e che anni dopo, nel bel mezzo della siccità, rientrò in paese sobbalzando su una Peugeot 405 rosso vivo, con la terra rossa che schizzava dal tubo di scappamento. L'uomo che parcheggiò la sua automobile accanto al nostro bardotto Erra: il primo passo in direzione del benessere. Krimo si osservò allo specchietto retrovisore e vide che doveva andare a lavarsi. La gente affluì dall'intera zona intorno al villaggio per concentrare gli sguardi su quell'esemplare unico.

Il bestiame cominciò ad agitarsi. Erra fu l'unico a non esserne impressionato. Osservò la cosa in maniera positiva, mise in mostra la sua arma più forte e coprì ragliando il motore dell'automobile.

Con il colletto a punta e i pantaloni a zampa d'elefante, stile Beatles, mio padre aprì la portiera come se scendesse per una prima. Portava stivali alla Clint Eastwood, un giaccone come quello di Hutch, l'altra metà di Starsky, e basette alla James Brown (un vero idolo tra i lavoratori immigranti, la selvaggia sexmachine).

Io ero piccolo, ma grande abbastanza per poter chiedere al nonno, che aveva la mano posata sulla mia testolina riccioluta, che cosa venisse a fare quello strano clown.

«Abbi rispetto per tuo padre, ragazzo, si dà da fare per te», disse il nonno.

Con aria interrogativa, alzai gli ochi al cielo.


Quanti anni avrebbe viaggiato su e giù, ricomparendo a intervalli irregolari, annunciando destinazioni nuove: Corsica, Belgio, e infine i Paesi Bassi, dove si aggregò all'associazione di lavoratori immigranti Un Giorno Noi Torniamo (UGNT). Ogni estate era una nuova sorpresa. Sarebbe ritornato stavolta? pensavano i suoi parenti stretti. Che cosa avrebbe portato? pensava l'intero villaggio. Bluse di viscosa, pantaloni di velluto a coste a zampa d'elefante dei magazzini Wibra, cose che una volta erano di moda e l'altra semplicemente ridicole... Magliette stampate con la pubblicità per ditte come Hendriks Bouwmaterialen e Smits Houtlijmen... Il grammofono a batterie, televisori senza batterie, radio di Pech Tech Electronics con e senza batterie, cento pacchetti di barrette di cioccolata al latte col disegno della mucca per i bambini con il moccio al naso che pisciavano dappertutto... Consegnato il tutto e scaricate le inezie, cominciava a essere vittima dei brutti scherzi della solitudine. La sfida, il donare oggetti materiali, che poi non era altro che un modo per scaricare i sensi di colpa nei confronti della povertà, erano scomparsi.

Le cassette con su un lato canzoni di Cat Stevens, Neil Diamond e gli Abba e sull'altro la sua voce bagnata arrivavano sempre più spesso con la posta. Anche lui tornava sempre più spesso, per dire che sarebbe tornato più spesso, ancora più spesso. E poi...

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