Copertina
Autore José Bové
Titolo Un contadino del mondo
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2003, Serie Bianca , pag. 228, cop.fle., dim. 140x220x18 mm , Isbn 978-88-07-17081-2
OriginalePaysan du monde
EdizioneFayard, Paris, 2002
TraduttoreMatteo Schianchi
LettoreLuca Vita, 2004
Classe politica , economia politica , storia contemporanea , globalizzazione
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Indice

 11 Prefazione

 17 1.  Una strana tribù
 33 2.  Nuova Caledonia
 46 3.  Isole del Pacifico
 51 4.  Terre sul mare
 69 5.  Messico
 84 6.  Stati Uniti
105 7.  Canada
117 8.  Cuba
130 9.  Colombia
142 10. Brasile
159 11. Uno sguardo sull'Africa
167 12. India
180 13. Palestina
196 14. Francia ed Europa
213 15. Governance mondiale e contropotere

225 Ringraziamenti

 

 

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Pagina 17

1.
Una strana tribù



    "Posso dirmi realmente libero quando la mia libertà, o
    ciò che significa la stessa cosa, quando la mia dignità
    di uomo, il mio diritto umano riflesso dalla coscienza
    ugualmente libera di tutti, mi vengono confermate dal
    consenso di tutti. La mia libertà così confermata dalla
    libertà di tutti si estende all'infinito."
                                            Mikhail Bakunin



Un coniglio danza davanti ai fari, ipnotizzato dal loro fascio luminoso. Nella fuga esita tra la banchina destra e quella sinistra della carreggiata, poi sceglie per la destra e ritorna improvvisamente in mezzo alla strada. Me l'aspettavo. Con tre balzi il bianco ciuffo della sua coda scompare nel sottobosco. Sono le sei del mattino, e un profumo di terra lievemente bagnata dalla rugiada penetra dallo spiraglio del finestrino. Sono l'unico a percorrere la strada che porta a Saint-Sauveur, la nostra cascina. Eppure mi sembra di percepire il risveglio di tutto l'altopiano.

Vedo una luce nell'ovile di Léon e Richard, poi lascio sulla sinistra il Mas Nau, nascosto in un avvallamento dell'altopiano calcareo, dove Christine gestisce un allevamento di cavalli; intravedo i miei colleghi della Blaquière entrare nell'ovile costruito durante la lotta, e poi i Truels, dove ha sede la comunità dell'Arca; infine, ecco la base militare, invisibile, come un "vuoto" mentale dopo la vittoria del 1981.

Immagino Alain a La Salvetat mentre attizza il fuoco per i suoi pensionanti, e Frédéric a L'Hospitalet, circondato da pecore della stessa razza delle nostre. Marizette attende con impazienza il passaggio di Nathalie, che conduce le greggi di Devez Nouvel, mentre Jean-Emile, alle Baumes, sorseggia una tazza di caffè. So che anche loro, come me, in questo paio d'ore che precede il risveglio di tutti gli altri, si stanno gustando i primi gesti quotidiani del lavoro domestico e agricolo, e la singolare dimensione di ogni giornata. In questo albeggiare mi appaiono anche i volti delle persone che mi rimprovereranno di non averle menzionate, o meglio che si chiederanno con quali criteri ho scelto di citare gli altri! Nel raccontare l'inizio delle mie giornate, però, non posso assolutamente dimenticare lo sconosciuto personaggio alla guida dell'auto di cui vedo i fari danzare in lontananza, sulla collina di Revend, di fronte all'altopiano. Abbiamo appuntamento fisso: ogni mattina nello stesso luogo; nel momento in cui io supero il solito dosso, lui (o lei) si appresta a scendere verso la vallata del fiume Dourbie, e deve vedermi, da là, mentre attraverso l'altopiano. Guardando la sua posizione, poi, posso sapere se sono in anticipo o in ritardo rispetto al solito. Immagino che per questo sconosciuto sia la stessa cosa. Non ci conosceremo mai, ed è meglio così. Ci tengo al fuoco fatuo del mio paesaggio.

Ecco Montredon, la vecchia grossa botte d'acqua di Renaud, la luce a casa di Maria, che sistema il suo alloggio prima di mettersi alla guida dello scuolabus, e infine il nostro ovile. Il calore e l'odore delle pecore. Devo mungere, e adoro questi momenti. Ecco il mio spirito vagabondo che ripete i macchinosi gesti del lavoro; incrocio lo sguardo di una pecora, alcune fanno strane espressioni. Sono momenti che appartengono solo a me.

Da due anni, per via delle nuove responsabilità politiche che ho assunto, i miei soci hanno accettato di riorganizzare il lavoro del nostro Gaec [Gruppo agricolo di sfruttamento comune] in modo che io possa seguire la nuova fase della lotta; i miei turni sono concentrati nel fine settimana, partecipo ai lavori pesanti e, quando ci sono, alle riunioni. Inoltre c'è sempre chi mi sostituisce quando sono in viaggio per il mondo.

Il Larzac è questo: il lavoro è organizzato in funzione della vita.

È subito chiaro che il Larzac è una comunità di persone ancor prima di essere un luogo naturale. È la mia terra, è la base da cui attingo buona parte della mia coerenza. Su questo altopiano ho i miei punti di riferimento, le mie abitudini, come ogni persona sul proprio territorio. La dimensione del territorio è importante. Poco importa il luogo di nascita e se si vive o meno dove si è nati; l'importante è costruire relazioni con un territorio, viverci realmente, esserne un elemento sociale, economico, culturale. Bisogna lasciarsi invadere dai suoi ritmi, seguire le sue stagioni e soddisfare i propri bisogni nel rispetto degli altri e della natura.

Un territorio, anzitutto, è voglia di vivere insieme. Sul Larzac, abbiamo deciso collettivamente chi vi avrebbe vissuto e perché (per resistere all'esercito); in seguito abbiamo cercato e costruito i mezzi economici per soddisfare la volontà di vivere in armonia con le nostre idee. Non sempre è stato facile, ma non abbiamo mai voluto cedere al principio secondo cui è il lavoro a scegliere la nostra vita, al nostro posto. Per questo siamo andati contro la tradizione locale di cedere tutto il latte ai produttori di roquefort, e abbiamo preferito trasformare noi stessi una parte del nostro latte in formaggio; abbiamo costituito un Gaec in regime di policoltura-allevamento (capra-latte, capra-carne, maiali da fattoria), creato un raggruppamento di produttori, e organizzato un mercato per sviluppare la nostra autonomia ed evitare di essere in balia dei produttori industriali di latte. Abbiamo vinto la lotta, e reso stabile il nostro lavoro!

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Pagina 32

Due mondi

Nel luglio 1999, un nuovo mondo si presenta a noi, e ai contadini di tutta Europa. Come misura di ritorsione contro il rifiuto dell'Unione Europea di accettare le loro esportazioni di carni agli ormoni, gli Stati Uniti, forti delle regole dell'Organizzazione mondiale del commercio, arrivano a imporre una tariffa doganale del 100% in entrata su una sessantina di prodotti europei, tra cui il roquefort, il fegato, la mostarda. Per il roquefort ciò significa una perdita annuale globale di quindici milioni di franchi (circa 2,3 milioni di euro). La nostra reazione sindacale è ben nota: l'azione di smontaggio del McDonald's di Millau il 12 agosto 1999 ha avuto una risonanza mondiale che non avevamo previsto, malgrado l'obiettivo fosse stato scelto per il suo alto valore simbolico.

Il secondo round della lotta ha luogo a Seattle, in occasione della manifestazione internazionale organizzata per ostacolare la riunione ministeriale del Wto. Questa prima mondiale sancisce la nascita definitiva di quello che diventerà un ampio movimento internazionale contro la globalizzazione neoliberista, un movimento all'interno del quale la Confédération paysanne svolge una funzione importante. All'interno della Confédération io sono stato eletto segretario nazionale per le questioni internazionali e come tale, la rappresento nelle numerose iniziative mondiali. Questa responsabilità mi porta lontano dal Larzac più di quanto desideri, ma mi permette di tornare ogni volta carico di nuovi interrogativi, diversi punti di vista, soluzioni alternative e contributi al "pensiero comune" per l'unica globalizzazione che vogliamo: quella dello sviluppo umano.

Questo libro nasce proprio da qui: ha come scopo la condivisione di questa riflessione, intende sollevare alcune problematiche e trovare addirittura qualche risposta. Preferibilmente secondo una prospettiva pluralista, se non addirittura complessiva.

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Pagina 33

2.
Nuova Caledonia



    "Il ritorno alla tradizione è un mito,
    la nostra identità è davanti a noi."
        Jean-Marie Tjibaou, leader kanaky



L'Oceano Pacifico copre un terzo del globo, è la più grande distesa d'acqua del pianeta e dà il nome all'Oceania, lo strano quinto continente composto da venticinquemila isole e atolli uniti da centottanta milioni di chilometri quadrati di acqua salata. Tremila di questi coriandoli di terra, di lava o di corallo possiedono una denominazione geografica: nel corso della lunga e fantastica espansione dei popoli del Pacifico gli uomini hanno via via sentito il bisogno di dare un nome ai territori che scoprivano. I melanesiani e i polinesiani, duemila anni prima della nostra civiltà, hanno saputo costruire legami attraverso l'oceano. Oggi queste popolazioni contano sette milioni di persone, ripartite tra numerose isole la cui superficie totale è di poco superiore a quella della Francia.

L'arrivo dei coloni europei ha rovinato le società tradizionali, calpestato le culture autoctone, annientato uomini, di cui si negava, da bravi cristiani, la loro stessa natura umana. L'uomo bianco nella terra non ha visto altro che un territorio da depredare. Oggi l'Oceania è la regione del pianeta che annovera la più grande proporzione di specie di volatili minacciate di estinzione. Il grande sfruttamento agricolo delle terre insulari, l'industrializzazione mal controllata, la distruzione delle risorse naturali e l'inquinamento generalizzato, mettono a rischio un ecosistema che, nonostante un'apparente esuberanza tropicale, è in realtà assai fragile.

Dagli anni sessanta, i popoli dell'Oceano Pacifico hanno riconquistato la loro dignità, e alcuni l'indipendenza. La nostra lotta non violenta contro l'esercito francese ha creato legami di solidarietà con i polinesiani che si opponevano ai test atomici nel loro arcipelago, e con i kanaky desiderosi di raggiungere l'indipendenza attraverso la negoziazione, e non per mezzo delle armi. Isola calcarea alle prese con un mare di problemi militari, speculativi e politici, il Larzac ha sempre costruito relazioni di amicizia con quei popoli che vogliono essere protagonisti del proprio destino e che desiderano ardentemente che l'oceano presti il suo nome alloro futuro: pacifico.

Il primo scalo del mio viaggio in questa zona del globo è sul territorio kanaky, chiamato Nuova Caledonia ai tempi dell'impero coloniale francese. Un nome che di certo colse di sorpresa gli indigeni quando James Cook, un mattino del settembre 1774, decise di denominare quest'isola al largo dell'Australia con il toponimo di una brumosa contea scozzese! L'arcipelago è popolato dai discendenti delle popolazioni nere dell'Asia, i melanesiani. L'insularità, le condizioni naturali e climatiche violente - vulcani, cicloni, sismi, tsunami, diluvi, siccità - e una loro specifica spiritualità, li ha resi filosofi ancor prima che i greci inventassero il termine, e li ha portati a fondare società basate sull'adesione all'interesse comune e sull'attenzione verso l'essere più che l'avere.

La Nuova Caledonia melanesiana si estende a 21 gradi di latitudine sud e 163 gradi di longitudine est. La popolazione locale chiama questo territorio Kanaky, poiché kanak, qui, significa "uomo". Un nome davvero azzeccato?

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Pagina 84

6.
Stati Uniti



    "Se neanch'io posso essere libero, chi lo sarà?"
    "Sotto un governo che imprigiona ingiustamente chiunque,
    il posto giusto per un uomo giusto è in prigione."
                                        Henry David Thoreau



Sull'America sottinteso: sugli Stati Uniti sono state dette molte cose. Paese dell'iniziativa e modello di dinamismo delle giovani nazioni per gli uni, fonte di tutti i mali per gli altri! A mio avviso si tratta di un paese popolato da persone e, come tale, è possibile trovarvi il meglio e il peggio. Il problema degli Stati Uniti è la loro dottrina che, molto schematicamente, può riassumersi nel servire gli interessi dell'economia nazionale, poiché tutto il resto è superfluo e sempre negoziabile al ribasso. È sufficiente gettare uno sguardo sulla realtà sociale per rendersi conto di quanto sia lontana da noi la società americana: servizi del settore pubblico (sanità, istruzione, cultura) di bassa qualità, milioni di working poors ovvero lavoratori così malretribuiti che vivono al di sotto della soglia di povertà, quindici giorni di vacanze pagate per i lavoratori dipendenti, milioni di obesi a causa della "malalimentazione", violenza urbana, pena di morte... In sintesi, l'America non è nobilitata dalla propria realtà sociale, e sono soprattutto gli americani a pagarne il prezzo!

La "mia" America, quella che preferisco, è la Chicago del primo maggio 1886. Quel giorno, gli operai dell'industria di attrezzature agricole MacCormik avevano scioperato e manifestato. Uno sconosciuto lanciò una bomba carta sulle forze dell'ordine, che aprirono il fuoco sui manifestanti. Trenta morti. Successivamente la polizia colse il pretesto della bomba per arrestare cinque militanti anarco-sindacalisti, tutti "stranieri", ovvero immigrati di fresca data, e condannarli a morte. Uno si suicidò in cella. Gli altri quattro furono impiccati, ma prima dell'esecuzione trovarono la forza di intonare di fronte alla forca un canto che consideravano rivoluzionario: la Marsigliese. Quanti sindacalisti che sfilano ogni anno il primo maggio sanno che questo giorno commemora un'eroica resistenza americana?

L'America che amo è quella della disobbedienza civile di Henry David Thoreau, quella di Jack Kerouac, di John Steinbeck, di Charles Williams, di Herman Melville; quella del movimento per i diritti civili di Martin Luther King; quella delle centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato contro la guerra del Vietnam nel 1967; quella dei Chicanos di Cesar Chavez; quella delle americane e degli americani di ogni condizione sociale venuti in massa a manifestare a Seattle.

Alla Confédération paysanne avevamo pensato all'appuntamento di Seattle ancor prima delle manifestazioni realizzate in occasione del festival del cinema americano a Deauville e con lo smontaggio di McDonald's a Millau. Queste ultime operazioni si collocavano all'interno di una strategia che intendeva attirare l'attenzione sul vertice di Seattle. Fin dalle sanzioni americane adottate contro l'Unione Europea, in seguito al rifiuto di quest'ultima di importare le carni agli ormoni nordamericane, che penalizzavano il roquefort e una sessantina di altri prodotti europei, eravamo coscienti che l'inserimento dell'agricoltura nell'agenda dei negoziati del Wto avrebbe avviato un duro confronto. Lo smontaggio del Mc Donald's di Millau rappresentava un'operazione per far comprendere all'opinione pubblica quanto stava accadendo a livello mondiale: i nostri governanti svendono l'agricoltura allo sviluppo di monopoli transnazionali. Attraverso accordi multilaterali si sta verificando, a nostra insaputa, una mercificazione del mondo e della materia vivente, unita a una totale perdita della sovranità.

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Pagina 95

Abbiamo deciso insieme all'Afl-Cio, il grande sindacato operaio americano, di far sfilare alla testa del corteo sindacale, quindi tra gli operai, una delegazione di contadini di Via Campesina, con in testa un berretto verde. Mi volto e vedo sventolare una bandiera rossa con al centro un'aquila stilizzata in nero: è la bandiera dei Chicanos di Cesar Chavez! Sono emozionato: non mi aspettavo di ritrovarmi al loro fianco! Sono la prima delegazione dietro alla testa del corteo, tutti indossano una maglietta con l'effige di Chavez. Lui è morto di arresto cardiaco il 23 aprile 1993, ma il suo movimento continua. Poco dietro di noi, i nostri compagni portano lo striscione della Confédération paysanne che reca la scritta: "Il Wto deve sottostare ai diritti dell'uomo".

La composizione del corteo è a mio avviso il simbolo di Seattle: in testa alla più grande manifestazione mondiale sfilano agricoltori e braccianti agricoli. I militanti del mondo rurale lottano con le armi dei poveri: sindacalismo e disobbedienza civile. Si tratta di un segno di grande forza per i paesi in via di sviluppo, dove la grande maggioranza della popolazione è ancora di origine rurale. Attraverso l'alimentazione dei consumatori, la nostra modesta azione di Millau ha contribuito a porre l'agricoltura al centro del dibattito politico mondiale.

Quanta gente! L'America è in piazza "come non si vedeva dai tempi della guerra" dicono i manifestanti più vecchi facendo riferimento al conflitto del Vietnam. Alcuni, presenti anche all'epoca, la paragonano alla grande manifestazione di Chicago del 1968, in cui i manifestanti, in opposizione alla guerra del Vietnam, bloccarono la convention democratica.

I giovani, che sfilano portando con sé un bagaglio di immaginazione attraverso slogan e travestimenti, non hanno mai visto nulla di simile: operai, camionisti, colletti bianchi, lavoratori dei servizi sociali e una miriade di Ong che sostengono sviluppo durevole, relazioni Nord-Sud, commercio equo... Contrariamente ad alcuni pregiudizi, il popolo americano è attento al resto del mondo.

Sfogliando l'album dei ricordi di Seattle alcune immagini restano impresse nella mia memoria.

Una dimostrazione di coraggio. Il sit-in di giovani incatenati a un grosso masso di cemento, in mezzo all'incrocio, di fronte all'hotel Sheraton, per bloccare l'uscita dei delegati del Wto. Lacrimogeni, proiettili di plastica, getti d'acqua, nulla farà desistere gli attivisti non violenti. Che esempio! Restiamo a lungo al loro fianco, in mezzo ai gas lacrimogeni, dopo aver affidato lo striscione della Confédération paysanne a Susan George e Jacques Barthelot, anche loro tra i lacrimogeni, un po' più lontano nella stessa via. Siamo ben lontani dai patinati dibattiti del Wto! Un agricoltore francese si avvicina a noi, ci comunica "la sua ammirazione per la determinazione dei giovani" e aggiunge con ironia "dov'è Luc Guyau?". Il presidente della Fnsea aveva dichiarato prima di partire per Seattle "che non avrebbe fatto come José Bové, il clown in strada", ma che si sarebbe impegnato in attività di pressione nei corridoi del vertice. È noto chi dei due è risultato più efficace.

Siamo l'ultima delegazione sindacale ad abbandonare i luoghi prima degli assalti violenti della polizia federale.

Una grande sorpresa. Non un solo proiettile, fosse anche un pezzo di carta o un fiore, è stato lanciato sulle forze dell'ordine.

Una soddisfazione. La quantità di giovani in piazza fornisce l'impressione dell'avvio di un nuovo ciclo di contestazione, un ritorno alla politica dopo i fallimenti e il silenzio della generazione precedente.

Un'immagine di tenerezza. Le ragging grannies, vecchie nonne che intonano le canzoni tradizionali trasformandole in canti di protesta.

Un ammiccamento. Appostata all'angolo di due vie, tra cui quella in cui svolta la grande manifestazione, una giovane tra i 25 e i 28 anni, mora, con i capelli corti, in mezzo a una selva di bandiere e striscioni, tiene tra le mani un foglio di carta su cui è scritto in francese, e con un errore di ortografia: "Dove sei José?".

Un'altra dimostrazione di coraggio. Il gruppo delle lesbiche che circola a seno nudo per tutta la giornata, nonostante l'aria fresca e l'alternanza tra sole e pioggia.

Un sorriso. I metalmeccanici americani che scandiscono in francese: "Tous ensemble! Tous ensemble! Tous ensemble!".

Un richiamo storico. Viene cantata in tonalità jazz "Get up, stand up, stand up for your rights!", vera e propria reminescenza della lotta per i diritti civili.

Una leggera ombra. Loschi gruppi del tipo "Partito della legge naturale" e altri "gruppi antivivisezione" con i loro abiti neri.

Lo scoppio di risata. Un ragazzo con un enorme pugno alzato di carta pesta che esce dal suo zaino; un altro che sfila solo con una bandierina "Pizza Hut"; altri travestiti da Babbo Natale dietro un cartello con scritto "Nothing".

E poi le fanfare degli anarchici, le donne e gli uomini tartaruga, i poncho con i colori dei sindacati (tutti ci avevano assicurato che avrebbe piovuto e quindi le organizzazioni si erano attrezzate con abiti da pioggia). E la sigla Wto scritta su un cartello di divieto di sosta trascritta decine di migliaia di volte su striscioni e vestiti, tatuaggi e cartelli, e persino sulle banconote!

Come è noto, la conferenza ministeriale del Wto è fallita a causa di una concomitanza di aspetti: le divergenze tra le delegazioni dei paesi in via di sviluppo e quelle degli Stati Uniti, dell'Unione Europea e dei loro alleati, la pressione delle manifestazioni di piazza, il debole atteggiamento di Bill Clinton cui il Congresso non aveva dato il potere di negoziare. Tuttavia la corsa alla dominazione economica e finanziaria del pianeta da parte dei gruppi transnazionali non si è fermata, così come non è diminuita la volontà del governo di Washington di guidare questa espansione.

Lo stato federale americano infatti gioca un ruolo completamente infeudato alla logica economica: è al servizio dell'interesse dei gruppi commerciali, finanziari e industriali che hanno la loro sede sul territorio americano. A partire da questa realtà, si costruiscono continuamente rapporti di forza, di relazioni, di pressioni e sostegno tra le imprese e lo stato federale. Le elezioni si vincono grazie alla capacità delle imprese di finanziare il candidato che meglio farà avanzare i loro interessi all'interno e all'esterno del paese. Non bisogna mai dimenticare che ogni governo americano è composto da donne e uomini provenienti direttamente da queste lobby!

Una filosofia simile comincia ad attecchire anche da noi, in Europa, ma assume una dimensione più conforme alla storia del Vecchio Continente: l'ideologia del mercato. Nel momento in cui diventa il motore del discorso politico, essa legittima il potere delle imprese sulla politica. In Europa è stato necessario ricorrere all'ideologia per giustificare la sottomissione del campo politico all'economia e alle speculazioni finanziarie. Negli Stati Uniti la questione ideologica non si pone minimamente: il libero scambio rappresenta una seconda natura; nessun limite è posto alla libertà imprenditoriale né a quella degli scambi. Si dice che chiunque, un giorno, potrà "avere successo". Se esiste un'ideologia, è quella del "self-made man", del "a ciascuno la sua occasione". Questa stessa ideologia ha guidato la conquista del West: superare la "frontiera" affinché sempre ciascuno possa "vincere". Il compito dello stato consiste nel dare opportunità a ciascuno non attraverso un aiuto, bensì vietando il minor numero di cose possibili: un'ideologia che rischia di diventare dominante in futuro, e che è già molto diffusa attraverso il discorso politico, economico, culturale e sportivo. Il giocatore di basket venuto dal Bronx diventa multimiliardario, l'attore cinematografico figlio di immigrati parte dal nulla per arrivare a solcare i dorati marciapiedi di Hollywood, il burocrate diventa golden boy investendo nel Nasdaq, l'inventore diventa proprietario di una impresa, l'informatico avvia una sua start-up... Sembra che start-up e Nasdaq siano le nuove frontiere da superare per avere successo. Ciascuno può creare la propria società all'interno delle nuove tecnologie per diventare il vincente di domani. Per quanto sia noto che tre quarti di queste società falliranno, quelle che sopravvivono vengono gonfiate, esaltate e sventolate per dimostrare che questa è la strada da percorrere.

Sul piano internazionale, dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno approfittato della propria forza economica dovuta al fatto che il loro territorio non fosse stato coinvolto nel conflitto, e hanno potuto così sviluppare le loro industrie, a differenza degli altri paesi belligeranti. Certamente un'affermazione industriale messa al servizio degli Alleati, ma che ha permesso loro di beneficiare di un reale avanzamento tecnologico e di imporre regole ferree ai vassalli, governando nel dopoguerra il processo di ricostruzione delle altre economie. Il piano Marshall, per esempio, ha imposto limiti alla politica agricola francese, e a quella europea; abbiamo così assistito all'ingresso in Europa della soia americana, senza diritti doganali, e nello stesso tempo è stata imposta la limitazione del diritto dei contadini europei di seminare piante concorrenti alla soia. Successivamente, dall'Atlantico sono sbarcate nuove teorie e tecniche di allevamento industriale, che sostituiscono le razioni alimentari complete con razioni deficitarie completate... da soia!

Secondo la stessa logica, tutte le volte che vengono create nuove istituzioni multilaterali gli Stati Uniti impongono regole specifiche a proprio uso. Per esempio, all'interno del Wto, la disposizione richiesta da Washington secondo cui, se il governo o il parlamento di un paese non ratifica una regola dell'istituzione, questa regola non verrà applicata neanche negli Stati Uniti, ma resterà valida per tutti gli altri paesi. Tutti devono sottostare alle regole, ma quando sono di disturbo agli Stati Uniti questi ultimi non sono obbligati ad applicarle; al contrario, non mostrano la minima esitazione a denunciare e sanzionare coloro che non le applicano! È il caso della tariffa doganale che colpisce al 100% una sessantina di prodotti agricoli europei, vera e propria rappresaglia contro la decisione dell'Unione Europea di embargo sulla carne agli ormoni.

Eppure, nell'ambito della gestione economica, i governi americani non hanno nulla da insegnare a nessuno: il paese vive grazie al deficit dei suoi scambi esterni (tra millecinquecento e duemila miliardi di dollari nel 1990-2000) ed è finanziato dall'afflusso di capitali stranieri. Il debito netto degli Stati Uniti viaggia attorno al 20% del Pil! Quanto al deficit netto (la massa di titoli detenuti dagli stranieri), siamo sul valore del Pil! Il paese vive al di sopra delle sue possibilità, e appartiene dunque alle banche e a chi detiene i titoli che finanziano il suo deficit.

Gli Stati Uniti si trovano nella stessa condizione di alcune grandi industrie agricole: più aumenta il loro deficit, più i finanzieri accordano crediti per contribuire a farle funzionare: altrimenti tutto il sistema crollerebbe! Ma questi affari, intrinsecamente, non sono né redditizi né efficaci. Economicamente, la società Stati Uniti è in fallimento, ma quando si raggiunge un certo livello di indebitamento, in maniera paradossale si ha un potere totale sui propri creditori.

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Pagina 213

15.
Governance mondiale e contropotere



                "L'utopia è la realtà di domani."
                                    Victor Hugo



La sola evocazione del termine globalizzazione suscita tensioni a livello mondiale e catalizza l'attenzione. I "pro" e gli "anti" mettono questo concetto in tutte le salse: senso della storia irreversibile, pretesto per ogni abuso dei padroni di impresa, alibi per l'impotenza della classe politica, fonte di tutte le paure, invocazione, incanto, demonizzazione, angoscia, speranza... Non è un caso se la parola è diventata un passe-partout. Tuttavia questa dinamica moltiplica i falsi dibattiti, i processi alle intenzioni, e organizza la disinformazione come per esempio far credere che i no-global, che saremmo noi, sono arcaici sostenitori del ripiegamento nazionale.

Il termine globalizzazione deve la sua popolarità a due movimenti se non contrari, almeno opposti. Il primo è rappresentato dai sostenitori della teoria neoliberista in pratica, quella della "deregulation", dell'apertura delle frontiere, della libera circolazione di merci e capitali su scala planetaria, i cui principi di fondo e i disastrosi effetti sono stati messi in luce nei precedenti capitoli. Il secondo è costituito dal movimento di opposizione a questa globalizzazione economica: un movimento di organizzazioni della società civile che resistono alla volontà del mercato di governare la loro vita quotidiana e le istituzioni. Si tratta di un movimento di opposizione inedito, senza uguali nella storia della contestazione.


Un nuovo internazionalismo

Le persone hanno preso coscienza che le politiche del proprio paese sono determinate da decisioni internazionali (emerse dagli scambi e dagli accordi internazionali) e da operazioni transnazionali (speculazioni sulle valute, crisi asiatica o messicana ecc.). Dal momento che è sul piano internazionale che viene schiacciata la loro vita quotidiana, anche la protesta si sposta su questo fronte: ed è questo il significato delle grandi manifestazioni inaugurate a Seattle. A partire da quel momento, tutte le grandi riunioni delle istituzioni e degli organismi internazionali sono state caratterizzate da importanti manifestazioni. Ogni volta, il paese ospite mobilita la maggior parte dei manifestanti, affiancata poi da delegazioni provenienti dal mondo intero. I manifestanti provengono da tutti gli ambienti sociali, appartengono a tutte le età e ad ambo i sessi. Solitamente sono organizzati in associazioni, sindacati, organizzazioni non governative. La loro unione potrebbe sembrare eterogenea, ma è solo un'apparenza. Sono uniti sulle cose fondamentali: migliorare la vita e proteggere il pianeta. La battaglia per la protezione dei salmoni dell'Alaska, per esempio, è indissociabile da quella di altri militanti che si battono per l'annullamento del debito del loro paese in via di sviluppo. Tutti sono uniti. Non esiste concorrenza tra le rivendicazioni. Ed è questa è la forza che mostriamo ai nostri avversari, che invece possono unire solamente le loro polizie.

Ogni manifestazione si accompagna con riunioni e "controvertici" sull'istituzione, gli accordi o il tema preciso oggetto della contestazione; si tratta di una pedagogia pubblica a larga scala, a proposito di quanto avviene di nascosto da oltre dieci anni nei corridoi dei saloni internazionali. Il movimento ha passato in rassegna l'Apec (Vancouver), il Wto (Seattle), il Forum economico mondiale (Davos), il vertice Fmi-Banca mondiale (Praga), l'Unctad (Bangkok), i monopoli dei produttori di sementi (Bangalore), l'Unione Europea (Stoccolma, Nizza), la Bid (Santiago del Cile), l'Alca (Buenos Aires, Québec), il G8 (Genova) ecc.

Il fatto stesso di dover manifestare sottolinea la propensione per il segreto delle alte sfere nei processi decisionali: proteggono i loro sotterfugi con cordoni di militari, recinzioni in ferro e cemento, gas lacrimogeni, colpi e proiettili. La decisione di sottrarre questi vertici alla pubblica visione è risultata evidente quando Benito Berlusconi, dopo l'uccisione a Genova di Carlo Giuliani, ha espresso la volontà di spostare in un paese africano il vertice della Fao che avrebbe dovuto tenersi a Roma, sede dell'istituzione! In mancanza di alternative, l'Organizzazione delle Nazioni unite per l'alimentazione e l'agricoltura si è riunita a Rimini. Nella stessa logica si è collocata la decisione di riunire la riunione ministeriale del Wto del novembre 2001 nell'emirato del Qatar, paese in cui i partiti e le manifestazioni sono proibiti.

Il movimento della società civile incontra una crescente adesione, al punto da spingere perfino i più feroci sostenitori della globalizzazione a rilasciare dichiarazioni che tengono conto delle contestazioni. La Banca mondiale, per esempio, riconosce nel suo ultimo rapporto mondiale i fallimenti dei piani di aggiustamento strutturale nella lotta contro la povertà, e l'ex direttore aggiunto del Fmi, Stanley Fischer, ammette addirittura la fondatezza delle principali critiche indirizzate dal movimento contro la globalizzazione neoliberista.

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