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| << | < | > | >> |Indice3 Libri per tutti Mario Infelise 21 Parte prima - Tra oralità e scrittura 23 I libri di cavalleria Marina Roggero La fortuna, p. 23 L'identità cangiante, p. 27 Una vitalità irriducibile: usi e riusi diversi, p. 32 L'inabissamento, p. 36 42 «Scritti da essercitare»: diffusione e usi dei libri di magia in età moderna Federico Barbierato 57 Voci tra le carte. Libri di canzoni, leggere per cantare Tiziana Plebani Quelli che non scrivevano, cantavano, p. 57 Un possibile inizio di relazione tra carte e voci, p. 60 Le note e le parole, p. 64 Le forme librarie, p. 66 Lo statuto della canzone nel mondo delle carte, p. 71 77 Parte seconda - Letture religiose 79 L'«Arsenal divoto»: libri e letture religiose nell'età moderna Mario Rosa Premessa, p. 79 Libri di devozione e censura, p. 81 Domenicani e gesuiti, p. 83 Due best-seller della Controriforma, p. 87 Quietismo e giansenismo, p. 88 La devozione organizzata: libri e letture confraternali, p. 90 Un universo devozionale, p. 92 Culto eucaristico e devozione mariana: le Quarant'ore e il Rosario, p. 92 Tra morti e vivi: Buona Morte e Anime del Purgatorio, p. 95 Tutori e intercessori: san Giuseppe e gli Angeli custodi, p. 97 Dalla Controriforma ai Lumi, p. 98 Devozioni contrastate: la Via Crucis e il Sacro Cuore, p. 101 106 «Emuliamo i perversi». Una strategia editoriale cattolica nell'Italia dell'Ottocento Roberto Rusconi 126 La battaglia degli almanacchi. Protestanti e cattolici nell'Italia liberale Maria Iolanda Palazzolo 141 Parte terza - Nuove strategie e nuovi lettori 143 La lettura romanzesca e la «gran norma dell'interesse» Giovanna Rosa 163 «Popolo leggi!»: libri illustrati di largo consumo tra Otto e Novecento Giorgio Bacci Il ruolo dell'immagine nell'editoria di largo consumo di fine Ottocento: Perino, Sonzogno e Salani, p. 163 La dinamica testo-immagine, il formato e il pubblico, p. 172 181 «Scienza per tutti» Paola Govoni Scienza popolare, p. 183 Dell'utilità di strumenti diversi, p. 187 Gli editori e la scienza per tutti a sud delle Alpi, p. 192 Conclusione, p. 198 201 Parte quarta - Libri per ragazzi e per la scuola 203 Il libro di scuola tra editoria e pedagogia nell'Ottocento Giorgio Chiosso Dal libro d'istruzione al manuale obbligatorio, p. 203 Verso l'editoria specializzata per la scuola e l'educazione, p. 206 Il mercato del libro scolastico, p. 212 Tra «Giannetto» e «Allegretto e Serenella»: la funzione pedagogica del libro di lettura, p. 217 227 Editoria «piccina»? Libri per l'infanzia tra XIX e XX secolo Pino Boero 235 Editoria scolastica e mercato librario nell'Italia del Novecento Monica Galfré 249 Parte quinta - Le forme della distribuzione 251 Molti libri, quanti lettori? Le nuove vie della distribuzione Gabriele Turi I luoghi della diffusione, p. 251 La produzione, p. 258 I contenuti, p. 261 I lettori, p. 264 268 La «Libreria della gente»: l'editoria di Demetra Aldo Cecconi La storia, p. 269 Librerie della gente, p. 271 Manuali e manuali, p. 272 Alcune considerazioni finali, p. 275 277 Parte sesta - I «Libri per tutti» nella storiografia 279 «Volksliteratur», «Trivialliteratur», «Kolportageliteratur»: concettualizzazioni e prospettive comparatiste nella letteratura di larga circolazione (in Germania e in Francia) Hans-Jürgen Lüsebrink La dicotomia cultura popolare e cultura delle élites, p. 279 Prospettive comparatiste e transculturali, p. 284 293 Testi di larga circolazione in Spagna tra antico regime ed età contemporanea Antonio Castillo Gómez Generi, p. 296 Formati e strategie, p. 300 Commercio e fruizione, p. 303 Epilogo, p. 308 311 Prodotti editoriali di larga circolazione: la via francese Jean-Yves Mollier Dalla cultura popolare alle letture del popolo, p. 314 Il contributo degli studiosi di letteratura popolare, p. 317 L'edizione popolare nella Francia del XIX secolo, p. 322 326 Gli studi italiani sui «libri per tutti» in antico regime. Tra storia sociale, storia del libro e storia della censura Lodovica Braida Un confronto europeo, p. 326 Strategie editoriali e generi di larga circolazione, p. 331 L'apporto della storia religiosa e degli studi sulla censura, p. 337 345 Indice dei nomi |
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Mario Infelise
Cosa si intende per Libri per tutti? È bene mettere subito le mani avanti e chiarire che si tratta di una formula di comodo per definire testi riprodotti in serie prevalentemente legati alla consueta forma libro e destinati alla larga circolazione. Stampati, per lo più, ma non esclusivamente, dato che per secoli anche la riproduzione a mano ha potuto garantire una buona diffusione. In altri tempi li si sarebbe chiamati «libri popolari». Ma, com'è noto, l'aggettivo popolare non qualifica esattamente prodotti che, se ebbero e hanno tuttora uso e destinazione popolare, sono altresì caratterizzati da una circolazione in ambiti diversi della società. Popolari quindi, ma non solo. Libri che possono capitare nelle mani di chiunque, dotto o incolto che sia, da non confondere però neppure con la moderna categoria dei best-seller, legata alla narrativa di consumo, le cui fortune sono destinate a esaurirsi nel volgere di pochi anni. Se proprio non si può fare a meno della terminologia inglese, una parte significativa di questa produzione è se mai da ascrivere alla tipologia dei long-sellers, ovvero quei titoli che non compaiono nelle classifiche, ma che restano disponibili negli anni e talvolta anche nei secoli, incidendo con discrezione, ma in profondità sulle abitudini culturali. Di libri di vasta diffusione si è molto parlato negli ultimi trenta anni, a partire da ricerche famose, da Carlo Ginzburg, a Nathalie Zemon Davis, da Roger Chartier a Bob Scribner, solo per citare alcuni dei nomi più significativi. Nel 1991 a Wolfenbüttel si è anche tenuto un convegno che ha avuto il merito di iniziare a mettere a fuoco il problema in una chiave comparativa europea. Introducendolo, Chartier dichiarava che lo scopo dell'iniziativa era collocare la produzione destinata «aux lecteurs les plus nombreux» nel contesto complessivo dell'attività editoriale, rifiutando di considerare che gli stampati (Chartier non a caso usa tale termine al posto di libro) classicamente designati come popolari abbiano una specificità radicale. Già in quell'occasione una sezione era dedicata ad alcuni generi editoriali, quali gli almanacchi o i libri destinati ai saperi pratici. Da allora sono passati diversi anni e la bibliografia sul tema si è molto arricchita, tenendo conto che la storia del libro è stata uno degli ambiti più vitali della ricerca storica degli ultimi tempi. Inserendosi in questa linea e concentrando soprattutto l'attenzione sull'Italia, questo volume prova a rivolgere lo sguardo ai generi editoriali di larga circolazione, sulla base della considerazione che alcuni di essi hanno mantenuto intatte determinate caratteristiche tipologiche e testuali, che in qualche maniera hanno assicurato un imprinting specifico a tali materiali. Sarebbero questi i libri che maggiormente sono stati a contatto con gli italiani di ogni ceto, condizionando il loro modo di rapportarsi al testo stampato. Pare dunque interessante proprio mettere alla prova questa ipotesi verificando attraverso una serie di interventi possibilmente sul lungo periodo alcuni dei principali ambiti del libro di grande circolazione, come il libro per le scuole, la devozione, il libro di magia, la divulgazione scientifica, il romanzo nelle sue svariate forme, oltre ad alcuni aspetti generali comuni della questione, come l'illustrazione e la distribuzione. Ovviamente non vi è nessuna pretesa di esaustività. Le scelte dei generi da considerare sono effettuate in base alle ricerche in corso, nella consapevolezza che altre strade potevano essere prese soprattutto per la contemporaneità. È peraltro ovvio che lunga durata non significa immobilità e che nel tempo sono intervenute trasformazioni e anche fratture, che hanno radicalmente cambiato gli oggetti. Si intende quindi affrontare il tema evidenziando al tempo stesso permanenze e trasformazioni, provando ad arrivare sino a oggi. Sullo sfondo rimane ben presente il controverso rapporto tra gli italiani e la lettura. Una delle ambizioni, anzi, potrebbe essere quella di provare a comprendere perché, raffrontati ai paesi confinanti, gli italiani sono lettori deboli. È un'evidenza storica accertata il fatto che l'Italia, dopo essere stata sino alla metà del Cinquecento uno dei paesi di più elevata alfabetizzazione, ha avuto a lungo — tra Ottocento e Novecento — tassi di alfabetizzazione di gran lunga inferiori a quelli degli altri grandi paesi occidentali. Agli inizi del Novecento la penisola nel suo complesso, al pari di Spagna e Russia, non era ancora ai livelli che le nazioni del centro e nord Europa avevano raggiunto un secolo prima. Vi erano poi le consuete impressionanti differenze tra nord e sud. Nel 1871 non sapeva leggere il 42% dei piemontesi e l'87% dei calabresi; quaranta anni dopo i primi si erano ridotti all'11%, mentre i secondi rimanevano ancora il 70%. «Un abitante di Taranto — scriveva sconsolato un viaggiatore inglese nel 1897 — normalmente non legge mai». È vero che i dati piuttosto rozzi dei censimenti ottocenteschi e le fugaci impressioni di un turista straniero andrebbero prese con cautela. È inoltre un fatto che almeno in termini di livelli di alfabetizzazione nel corso del XX secolo il divario con l'Europa è stato colmato. Ma ciò non è bastato a stabilire una dimestichezza con la lettura pari a quella di quei paesi con cui di solito ci si vorrebbe confrontare, mentre anche in questo aspetto permangono le solite differenze tra nord e sud. Per quanto non vi sia una precisa relazione tra alfabetismo e abitudine alla lettura, statistiche e studi quantitativi sui libri letti lanciano sistematicamente messaggi piuttosto sconfortanti con la recente tendenza a minacciare una sorta di analfabetismo di ritorno, persino all'interno delle classi dirigenti. Sulla questione non mancano, soprattutto negli ultimi decenni, dati statistici e studi che a tali dati si rifanno. Vi è tuttavia qualche dubbio che simili ricerche di impostazione sociologica riescano a cogliere in profondità il rapporto con la lettura. Costituiscono più una presa d'atto di un problema, che un tentativo convincente di spiegarne le ragioni. Come non esiste una soluzione di continuità tra alfabetizzati e analfabeti, non esiste neppure una soluzione di continuità tra lettori e non lettori, a patto che si eviti di considerare lettori esclusivamente coloro che leggono saggi e letteratura. Tra i poli estremi esiste invece una gamma notevolmente ampia di tipologie di lettori possibili che si avvalgono di prodotti a stampa molto diversi tra loro che vale la pena tentare di prendere in considerazione. Ma non è facile e non è scontato riuscire a ricostruire il ventaglio completo delle letture di un'epoca. C'è sempre una sorta di pregiudiziale colta che seleziona i libri e le letture e penalizza sistematicamente i più diffusi e popolari. Anche le nostre biblioteche di conservazione operano una selezione di questo genere. Conta, in altre parole, solo la produzione alta, quella che passa per le librerie — che sono luogo tradizionalmente poco frequentato dai lettori non professionisti — e quanto è destinato a venire custodito nelle biblioteche. Ma librerie e biblioteche di conservazione non hanno mai esaurito il panorama complessivo delle proposte di lettura. Sono esistiti ed esistono altri circuiti possibili — gli ambulanti, le fiere, le edicole e ora i supermercati — attraverso cui transitano miriadi di altri prodotti scritti destinati a scomparire. È noto il paradosso secondo cui i veri e propri libri rari non sono quelli che vengono salvaguardati come tali nei nostri istituti di conservazione, bensì i prodotti a destinazione popolare. Si sa che esistono tuttora almeno 300 copie in biblioteche pubbliche e private del Polifilo di Aldo Manuzio del 1499, che è uno dei libri più ricercati dai collezionisti. Se si tiene conto che se ne saranno stampate 500 copie, si vede bene che a distanza di mezzo millennio se ne conserva una bella percentuale. Ma non avviene lo stesso con la produzione di larga diffusione, priva di valore collezionistico e destinata a essere letteralmente consumata. Al punto che persino la Bibliografia Nazionale Italiana a lungo non ha ritenuto utile neppure preoccuparsi di conservare memoria di ampi settori della produzione editoriale del paese, tra cui le «pubblicazioni di partiti, sindacati, associazioni culturali, religiose che non abbiano interesse generale», la «letteratura di consumo e di riedizioni di letteratura "rosa"», le «ristampe», i «manuali e testi per la scuola materna, elementare, di primo e di secondo grado», le «pubblicazioni per bambini e ragazzi che siano riedizioni o rielaborazioni di testi e di spettacoli», gli «scritti biografici a destinazione limitata di carattere occasionale o devoto», gli «almanacchi e simili», le «riduzioni letterarie e musicali». Quasi tutti i generi che sono stati qui presi in considerazione hanno caratteristiche simili e solo casualmente risultano presenti nelle biblioteche. L'osservazione vale sia per il materiale più antico sia per quello contemporaneo. Chi, ad esempio, ha recentemente ricostruito il catalogo storico delle edizioni scolastiche Mondadori, ha potuto verificare la straordinaria dispersione che questi libri hanno avuto. Non esiste alcuna biblioteca di interesse locale o nazionale, che si è preoccupata di conservarne sistematicamente almeno una copia. Sicché gli esemplari superstiti sono più il risultato del caso, che dell'azione cosciente di tutelare un documento importante della storia culturale nazionale. Esiste quindi un problema di conservazione assai rilevante, che riguarda sia il passato più remoto sia quello più recente, che costituisce un primo forte ostacolo allo studio e a cui è possibile rimediare solo attraverso un certosino lavoro di ricostruzione dei cataloghi storici. Ma ritorniamo sulla necessità di identificare la totalità delle letture di un'epoca poiché non ci troviamo di fronte alla drastica alternativa tra lettori e non lettori, ma a mille combinazioni possibili determinate appunto da una gamma di letture e da modalità di approccio ai testi estremamente variabili. Mi pare opportuno tenerne conto per cercare di affrontare da una prospettiva nuova la questione del difficile rapporto tra gli italiani e la lettura. Negli studi sinora, per non parlare degli articoli di giornale e nelle pubbliche discussioni, ha invece spesso prevalso l'accento sulla non lettura. Tanto per ricordare qualche titolo, è del 1976 il libro di Giulia Barone e Armando Petrucci, Primo non leggere. Biblioteche e pubblica lettura in Italia dal 1861 ai nostri giorni (Milano, Mazzotta) che aveva tracciato un profilo critico delle politiche rivolte alla pubblica lettura a partire dall'Unità e che dava una dimensione articolata a un tema molto ricorrente nelle discussioni nazionali. Il fallimento di buona parte degli esperimenti di pubblica lettura e le evidenti differenze tra una nostra biblioteca civica e una public library anglosassone sono del resto uno degli argomenti più appariscenti e ripetuti. Nel 1986 è stata pubblicata l'inchiesta curata da Marino Livolsi Almeno un libro. Gli italiani che non leggono (Firenze, Nuova Italia) la quale, sulla base di un'analisi sociologica del pubblico dei lettori e del mercato editoriale, prospettava un apocalittico futuro dominato da nuove forme di analfabetismo. È di pochi mesi fa un brillante saggio sulla storia del libro italiano di Neil Harris in cui uno dei paragrafi chiave è titolato Italia: un paese che non legge. In tutti e tre i casi l'analisi al negativo predominava: «primo non leggere», «gli italiani che non leggono», «un paese che non legge». Vi si sente l'eco di un'espressione ricorrente nei dibattiti culturali del Novecento: quella de «la crisi del libro». In Italia il libro è sempre in crisi. Non si contano gli articoli sui giornali, i saggi storici, le indagini sociologiche che hanno tentato di spiegare la questione, enunciata in termini paradossali da Luciano Bianciardi nel 1957: «con l'invenzione della carta come materia scrittoria, con il successivo enorme progresso dell'arte e dell'industria grafica è cominciata e si è andata aggravando la crisi del libro». Che gli italiani non leggano è un motivo insistente, al limite del luogo comune. Attorno al 1925 Piero Gobetti aveva notato: La crisi è sempre esistita e continuerà se si paragona la qualità e la quantità della nostra produzione editoriale con quella dei paesi civili, specialmente Germania, Francia, Inghilterra [...]. La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l'Italia, manca di autori, di editori, di librai, di pubblico. È facile immaginare che Gobetti non si riferisse ai libri su cui stiamo cercando di far luce. Ma non si può pensare al libro di qualità senza un ampio consumo di libri e di stampati di ogni genere, indifferentemente dalla loro qualità. E appunto soprattutto la fragilità del pubblico a rendere sistematicamente precaria l'esistenza degli editori. Per dirla nuovamente con Bianciardi: «In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono», che peraltro non faceva altro che ripetere un concetto già espresso da Leopardi oltre cento anni prima e cioè che in Italia erano «più di numero gli scrittori che i lettori» e che «chi legge non legge che per scrivere». Si lamenta in altre parole la mancanza di un pubblico medio, stabile, abituato a leggere per consuetudine e per svago, non soltanto per scopi d'istruzione, di edificazione religiosa, per necessità di professione. Mentre in Europa nel tempo si rafforzano pubblici educati alla lettura come forma ordinaria di intrattenimento, tale processo stenta ad avvenire in Italia. Già a metà Settecento a Venezia Domenico Caminer, uno degli inventori del giornalismo italiano, perfettamente al corrente di quanto contemporaneamente avveniva in città come Londra e Parigi, si dava da fare per immaginare forme di giornalismo destinate proprio a coinvolgere questo genere di pubblico. Si proponeva quindi di allestire un giornale destinato al pubblico degli «artefici», che potesse essere utile e dilettevole, che usasse una lingua «non cruscante», il più vicino possibile a quella parlata, che potesse contare inoltre sui contributi e gli stimoli dei lettori tramite lettere e inserzioni, come appunto avveniva nelle esperienze analoghe inglesi e francesi. Ma l'esito non fu positivo. Se all'epoca grandi città come Londra e Parigi, con popolazioni che superavano i 500.000 abitanti potevano fornire quella massa critica in grado di rendere convenienti iniziative che andavano in quella direzione, lo stesso non poteva avvenire in Italia, dove nessuna città del centro-nord raggiungeva i 150.000 abitanti. Così la «London Gazette» o il «Journal de Paris» non avevano difficoltà a raccogliere 10.000 associati in grado di arricchire giornalisti e imprenditori, mentre le gazzette italiane raggiungevano a stento le 2000 copie, lasciando pochi margini ai loro autori. Caminer aveva già allora identificato tutti i nodi principali che si opponevano alla costituzione di un pubblico medio. Le ridotte dimensioni dei nostri grandi centri urbani non favorivano lo sviluppo e l'assestamento delle aziende giornalistiche. Di conseguenza diventava più difficile eliminare o ridurre la precarietà del lavoro intellettuale, in sofferenza per la mancanza di un mercato adeguato. Vi era poi l'enorme problema della lingua. L'italiano sino a tempi troppo recenti è stata una lingua prevalentemente scritta, poco nota e poco usata al di fuori delle classi dirigenti. Come notava il giornalista veneziano, non si trattava di indirizzarsi verso il dialetto, neppure verso un dialetto vitalissimo sul versante letterario come il veneziano, ma di scegliere una lingua «non cruscante», priva di incrostazioni erudite. Sappiamo che ci sono voluti altri due secoli perché ciò avvenisse. Solo nel secondo dopoguerra e per merito dei nuovi media come la radio, il cinema e la televisione, l'italiano si è definitivamente affermato sulle parlate locali e la produzione culturale ha finito col servirsi della lingua prevalentemente parlata. Se dunque prodotti come li auspicava Caminer stentarono a lungo ad affermarsi, ciò non significa che i buoni propositi furono assenti. Solo che, in mancanza di adeguati profitti, a tentare di alimentare prodotti destinati al largo pubblico si segnalano per lo più le buone intenzioni di religiosi e letterati, restii a mettere da parte finalità pedagogiche e lodevoli sentimenti, che forse non sono in grado di alimentare una lettura senza altri scopi che quella del piacere. Va forse intesa in questo senso quella pagina di Pinocchio in cui Collodi racconta di quando sulla spiaggia i compagni del burattino «cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici». Ma Pinocchio – considerava maliziosamente Collodi – «che era d'occhio sveglio e ammalizzito faceva civetta a tempo, sicché i volumi passandogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare». Il che era un modo, come ha notato Piero Lucchi, per far capire brillantemente come sino ad allora i libri per i bambini erano in realtà dei «proiettili scagliati contro di loro».
Nel tentativo di approfondire il rapporto tra gli italiani e la lettura mi
paiono ora significative le suggestioni che possono derivare da alcune ricerche
degli ultimi anni, le quali, pur affrontando il problema sul lungo
periodo, hanno identificato nel Cinquecento uno snodo fondamentale
per intendere la questione. Non vi è del resto dubbio che due eventi
combinati quali l'affermazione definitiva della stampa come principale
strumento della comunicazione e la frattura religiosa dell'Europa provocata
dalla Riforma protestante abbiano inciso in profondità sulle abitudini culturali
del continente, i cui effetti sono ben lontani dall'essersi esauriti.
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