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| << | < | > | >> |IndicePremessa 13 1. CHE COSA MI SPINGE 15 Il piacere di capire L'autore esplora lo stato d'animo da cui nasce la sua visione del mondo. La conoscenza e la comprensione di nessi tra le cose è la sua vera passione, alla quale sacrifica tutto – salvo la convivenza pacifica con coloro che hanno altre priorità. (Tuttavia la sua idea di una repubblica fondata sullo studio non gli porterà soltanto consensi!). 2. L'ESPERIENZA INTROSPETTIVA 29 Guardare dentro di sé Ciò di cui ognuno fa esperienza dentro di sé non appartiene a una descrizione del mondo oggettivamente verificabile. D'altra parte, nessuno di noi dubita che le esperienze introspettive siano reali. Si può solo sperare che quando la descrizione fisica del mondo sarà finalmente portata a compimento, si chiuda anche l'abisso tra il soggettivo e l'oggettivo. 3. LO SGUARDO NEL CRISTALLO 43 Meditazioni fisiche La fisica descrive il mondo in termini immodificabili. Essi costituiscono il materiale primo di tutte le altre scienze della natura. Tuttavia ci sono in questa disciplina asserzioni così lontane dai nostri concetti quotidiani che ad esse si può accedere solo con un misto di riflessione e meraviglia. 4. ESSERI VIVENTI 63 Informazione e miracoli La vita è materia organizzata, nella quale il principio organizzativo viene trasmesso di generazione in generazione per via riproduttiva. L'informazione che vi si esprime deriva dalle condizioni che le differenti nicchie ambientali pongono alla sopravvivenza e alla riproduzione degli esseri che vivono in esse. 5. IL CERVELLO, IMMAGINE DEL MONDO 93 Il potere delle fibre Nel cervello si trova incarnato il sapere sulle strategie necessarie per superare le sfide poste dall'ambiente. Il lettore dovrà armarsi di pazienza, poiché a chi scrive riesce difficile, nel proprio campo di ricerca, astenersi dall'entrare nei dettagli. 6. USO DEL CERVELLO 123 Pensiero, azione, logica, linguaggio Quel che si sa sui neuroni è sufficiente per immaginare quali meccanismi nel cervello siano responsabili degli aspetti più intellettuali del comportamento umano. La versione moderna dell'associazionismo, la teoria delle cell assemblies, si dimostra valida come teoria delle prestazioni cognitive, linguaggio umano compreso. 7. IL SENSO DEL BELLO 149 Gusto, barzellette, teoremi A determinare il pensiero e l'azione sono, al di là del pensiero razionale, valutazioni emotive. Queste si ritrovano in ambiti che di solito vengono classificati come estetica. Ai valori che presso tutte le specie animali determinano il comportamento si accompagna nell'uomo una estetica del pensiero, che stimola la creatività intellettuale. APPENDICE. Riferimenti bibliografici 167 |
| << | < | > | >> |Pagina 17Prima di tutto vorrei chiarire perché invece di non far nulla mi accingo a un lavoro che mi costerà molto tempo, un po' di fatica e alcune rinunce. Più facile a dirsi che a farsi. Mi accorgo che nelle prime righe ho già utilizzato parole – o concetti – che, se ci penso bene, non sarei in grado di definire. Ad ogni modo non con il rigore necessario se tutta la mia impresa vuole avere un senso. Non so precisamente che cosa sia il lavoro, come si debba distinguerlo da altre attività, quali il gioco o il pensiero o la cura delle relazioni sociali. L'uso ben definito del termine nella fisica – forza per distanza – non aiuta granché quando pensiamo al lavoro nel suo senso comune, come ciò per cui si viene pagati, o alle faccende domestiche, o al lavoro scientifico. O semplicemente al lavoro come ciò che costa fatica: infatti, col concetto fin troppo familiare di fatica si incontra la stessa difficoltà (perché il lavoro di casa è più stancante che ballare un valzer?). Anche che cosa significhi rinuncia, potrei spiegarlo solo se sapessi che cosa mi spinge a fare quello a cui devo rinunciare quando lavoro. Certo, sarebbe bello se, per tutto quel che si fa, alla domanda sul perché lo si fa si potesse sempre rispondere semplicemente sulla base di un intimo convincimento, non importa se la risposta soddisfa o meno l'interlocutore.
Un tale convincimento viene detto comunemente
etica.
Da un individuo pensante che abbia vissuto abbastanza ci si può attendere che ne
possieda una, e che sia anche in grado di illustrarla con parole semplici.
È quello che cercherò di fare.
Vivo, ho vissuto e voglio continuare a vivere. Non in eterno, ma ancora per un po'. Perché lo voglio, e come me lo vuole la maggioranza della gente, non saprei dire. Molti affermano di voler vivere perché trovano che sia «divertente» (fun). Mi convince poco, anche perché spesso quelle stesse persone non fanno che lamentarsi delle loro disgrazie quotidiane, sì che la bilancia da ultimo sembra piuttosto pendere in negativo. Altri dicono che è la curiosità a tenerli in vita. Altri ancora si appellano a un progetto che vorrebbero realizzare. A me tutto questo sembra fin troppo antropomorfo. Se io dal mio desiderio di vivere mi propongo di dedurre il mio atteggiamento verso le cose di questo mondo, vorrei intendere «vivere» nel suo significato più ampio, non diversamente da quello che ha per un coniglio, un lombrico o un'ortica. Fra tutte le caratteristiche degli esseri viventi, la conservazione nel tempo della vita – si tratti della vita dell'uomo, del coniglio, del lombrico o dell'ortica – è la più fondamentale. Da una parte conservazione della struttura complessa dell'individuo nel corso della sua esistenza, dall'altra conservazione della specie nell'avvicendarsi delle generazioni. Ciò che vive vuole vivere, non può far altro che volerlo. Le mie intemperanze linguistiche lasceranno qualcuno perplesso: l'edera vuole rimanere attaccata al muro per non esser strappata via dal vento; con i loro colori, le farfalle vogliono essere viste; le cicogne in inverno vogliono spostarsi sul Nilo; la sera io voglio recarmi in una trattoria. Per me sono tutte frasi ugualmente legittime. Tutto quello che di apparentemente profondo viene in mente quando si contemplano gli esseri viventi sullo sfondo della natura inorganica, compresa la parola volere nelle frasi sopra, o il concetto di scopo, o quello di equilibrio dinamico (come alcuni fisici preferiscono dire), è riconducibile alla conservazione della struttura come principio supremo della vita. Vivere è sopravvivere, nient'altro. Scopo della vita è la sopravvivenza, e scopo della sopravvivenza è la vita. Così la vita si identifica con il suo scopo, e lo scopo, come pure il volere, che da alcuni pensatori fu eletto a punto di partenza delle loro speculazioni, deriva, in modo del tutto automatico, dalla vera essenza della vita. Perché dico questo? Primo, perché lo assumo come uno dei principi su cui riposa il mio edificio mentale (e di ciò, dopo). Secondo, perché per tale strada giungo a una risposta alla domanda postami in principio, sul perché io me ne stia seduto a scrivere. Da qui, dunque, ho da incominciare. | << | < | > | >> |Pagina 23La domanda chiave che muove le mie riflessioni è: com'è che un uomo, prodotto minuscolo dell'immensa natura, riesce ad afferrarne le leggi?La mia condotta di vita, così, è determinata da un piacere semplice, di facile soddisfazione e inesauribile, il piacere di comprendere le cose che mi interessano. E da nient'altro? Ho, certo, svariati desideri e so come soddisfarli. Mangiare, bere, passeggiare anche, guardare la TV, leggere, ascoltare musica, dormire, ecc. Tutti hanno in comune che, una volta appagati, dapprima svaniscono ed eventualmente si trasformano con facilità in tedio. Proprio questo ha in più il piacere di capire rispetto agli altri: non conosce sazietà, tanto più che l'insieme delle relazioni non ancora comprese è molto più grande delle poche che siamo in grado di concepire nell'arco di una vita, molto più grande, in effetti, dell'intera costruzione delle scienze esplicative che possiamo trovare nei libri. So per esperienza che quando qualcosa di non compreso mi tiene occupato, fosse anche solo una formula nel libro di fisica (che altri evidentemente hanno capito assai bene), la sera mi addormento col problema, il mattino mi ci risveglio e forse anche il mattino successivo, finché finalmente capisco e allora sono felice. Oppure rinuncio. Il che ha quasi sempre come conseguenza che il problema si rifà vivo dopo un po' di tempo, affascinante come prima, e nella mia fantasia si affaccia giorno e notte, con regolarità, quasi avesse una sua esistenza indipendente. E quando un problema è capito, subito se ne presenta uno nuovo. Il piacere di capire mi guida attraverso l'esistenza, dà senso alla mia vita, giustifica la mia attività. Ancora una cosa ha in più questa mia passione: diversamente dall'arraffare denaro e potere o dal collezionare trofei amorosi, quel che raggiungo quando perseguo il piacere di capire non toglie niente a nessuno. Al contrario: chi ne ha voglia può sempre prendere parte con me al piacere che provo nel capire. Che etica è mai questa - obietterà qualcuno -, che si fonda esclusivamente su un piacere personale, per di più assai particolare, e non riguarda nessun altro? Io dico che è una tra le molte possibili. Quel che io chiedo a un'etica è che nasca da un sentimento sincero e si lasci formulare senza ambiguità. Conosco molti che la pensano come me e per i quali il piacere di capire è divenuto fondamento dell'esistenza. Ma sono molto più numerose le persone che si pongono altre priorità. C'è gente che dalla mattina alla sera, e magari anche la notte, non fa che pensare ai soldi e alla vita di piaceri che essi rendono possibile. Altri sacrificano tutto alla gratificazione del potere personale, o del potere della nazione cui appartengono. Altri ancora trovano il senso della propria esistenza nel rendere felici i loro simili o nell'aiutarli a sopportare i loro dolori. Lascio a ognuno i propri principi e non ho niente in contrario a che uno viva tutta la vita senza mai interrogarsi sul senso del proprio agire. Naturalmente tutto questo non è senza compromessi, qualora la mia condotta di vita entri in conflitto con quella di altri e io debba temere che il mio comportamento venga preso dal verso sbagliato e mi arrechi più danni che vantaggi. Così ho aggiunto alla mia etica privata alcune appendici per tener conto della sensibilità altrui e consentirmi, in cambio, un'esistenza il più possibile tranquilla e conforme al mio stile. Dagli altri mi attendo la stessa cosa. Da ciò sorge l' etica comune su cui ci accordiamo e che permette a ognuno di noi di ottenere il più possibile di ciò che veramente gli interessa. In larga misura una tale etica del compromesso coincide con quello che prescrivono le leggi. Non abbandono la mia automobile in mezzo alla strada, anche soltanto perché la multa mi costerebbe più della piccola noia di cercarmi un posteggio. Al supermercato non faccio sparire niente nelle tasche della giacca. Pago allo Stato quel che mi chiede in tasse, non vado a orinare sui monumenti. Così, per comodità, sono diventato un cittadino probo. Ma come tale non mi sento superiore a quelli di cui si legge nei giornali che strozzano la moglie, rapinano le banche, dirottano gli aerei. Si tratta di azioni verso le quali non mi sono mai sentito attratto. Né va a mio merito che io non abbia mai violentato una ragazzina in un bosco: non ne ho mai avuto il desiderio. Come non ho mai avuto la tentazione di afferrare un'arma quando ero adirato con qualcuno. Naturalmente non posso escludere che un giorno non mi venga voglia di compiere simili misfatti, né posso garantire che non cederò ai miei impulsi così come finora ho ceduto ad altre spinte emotive. Persone come me vengono consultate raramente quando i legislatori si accingono a delineare l'ordinamento di una repubblica (e il lettore può ben dire: meno male!). In effetti nella fondazione degli Stati quasi mai i filosofi hanno avuto un qualche ruolo, o quantomeno un ruolo glorioso. Nel loro entusiasmo per lo Stato ideale che hanno in mente, rappresentano gli esseri umani in modo stilizzato, a guisa di diligenti figurine, da libro illustrato, alle quali in verità nessuno di noi somiglia. Gli uomini sono molto diversi, le loro sensazioni sono diverse e anche i loro modi di agire. Quando si uniscono in comunità il loro comportamento collettivo diventa del tutto imprevedibile. A questo punto chi vorrebbe capire il perché di ogni cosa si rassegna e lascia la teoria dei formicai umani a quelli che non si ritraggono davanti a un'equazione con qualche migliaio di incognite. Tuttavia ci si aspetta da ognuno, filosofo o uomo della strada, che offra il suo piccolo contributo all'organizzazione politica della società almeno nella cabina elettorale. Le alternative che ci vengono offerte per il voto sono il più delle volte assai diverse dalle utopie su cui un filosofo ha fantasticato nel proprio studiolo. Ciò non significa, tuttavia, che ci si debba astenere dall'esprimerle. Ecco qua, dunque, la costituzione della mia Repubblica di Utopia. - Utopia è una scuola alla quale tutti i cittadini sono iscritti come allievi o come insegnanti (o entrambe le cose). - Obbligo di frequenza per tutti dal terzo al sessantottesimo anno di età. - Studenti e insegnanti vengono suddivisi in differenti indirizzi a seconda delle loro attitudini. - Pubblica amministrazione, polizia, sanità, prostituzione, ricerca, insegnamento, agricoltura, industria, ecc. sono servizi espletati da allievi, scelti in base alle loro particolari inclinazioni, in un congruo periodo di tirocinio. - È vietato esibire in pubblico costumi nazionali, uniformi, titoli nobiliari o bandiere (fatta eccezione per gli abiti, tipici della professione, di orchestrali, personale medico, addetti ai lavori stradali e militari). - La proprietà può essere acquistata, ma non ereditata. I figli hanno diritto di prelazione.
- I cittadini possono emigrare liberamente. L'immigrazione, viceversa, è
commisurata alla disponibilità di posti nella scuola.
Tutto ciò non piacerà a quelli che non hanno un buon ricordo della scuola e in particolare a coloro che, grazie a facilitazioni d'ordine sociale e finanziario, hanno intenzione di condurre una vita comoda, del tutto indipendentemente dal curriculum scolastico. Questo libretto, d'altronde, non è scritto per loro. | << | < | > | >> |Pagina 53Gran parte di quel che si trova in un libro di fisica non lo conosco per esperienza diretta. Mi mancano i mezzi e il tempo per fare gli esperimenti su cui riposano i fatti. Per il fisico di professione le cose non sono molto diverse. Anche lui non ha verificato di persona la maggior parte dei risultati in cui crede, se si esclude l'ambito in cui egli stesso lavora e che è sempre una piccola parte dello scibile. Egli confida nell'onestà dei suoi colleghi di oggi e di ieri, nel presupposto che la loro etica professionale sia identica alla sua. È stupefacente quanto la fisica sia in definitiva una faccenda di fede – una fede, tuttavia, i cui fondamenti sono stati confermati in mille e più occasioni. Con altri tipi di fede questa ha in comune che la sua solidità poggia sia sul consenso dei credenti che sulla continuità storica della loro comunità. Particelle elementari. Basta aspettare, e prima o poi si apprende dai giornali che le porzioncine di materia che ci avevano spacciato per elementari non sono gli ultimi mattoni, bensì consistono a loro volta di mattoncini ancora più elementari. Fu così che dapprima i vecchi «elementi» divennero assembramenti di molecole, le molecole conglomerati di atomi, gli atomi piccoli sistemi solari in cui gli elettroni giravano attorno ai protoni — e ai neutroni — e questi, per ora, contenitori di quark di diversi «colori» e «sapori». Il motivo di queste successive scomposizioni è sempre che le misteriose differenze qualitative tra gli oggetti di un dato livello (ad esempio, tra il monossido di carbonio, infiammabile, e il non infiammabile diossido, o tra la carica elettrica di un protone e la sua assenza in un neutrone) si possono spiegare nella maniera più naturale riconducendole a differenti combinazioni di ipotetiche unità a un livello più basso (vale a dire più elementare). Questo, naturalmente, è l'antico leitmotiv della fisica, la riduzione della variopinta molteplicità delle cose al bianco-nero di formule e diagrammi, la riduzione delle percezioni alla matematica. (In considerazione di ciò, mi pare perlomeno incongruo, dal punto di vista lessicale, che al livello più elementare cui siamo giunti attualmente, quello dei quark, si parli di colori, sapori o addirittura di charm). Legioni di fisici con l'aiuto di enormi macchinari ottengono l'evidenza sperimentale per un numero crescente di differenti particelle elementari e per gli effetti che esercitano l'una sull'altra. I loro compagni di viaggio, i fisici teorici — beneficiari o datori di lavoro, a seconda dei punti di vista —, girano e rigirano tale evidenza sperimentale per assegnare a ogni particella un posto in uno schema che, raffinato e completato anno dopo anno, punta alla coerenza dell'intero sistema assumendo come supremo principio ordinatore determinate simmetrie tra le caratteristiche di particelle diverse. Lo scopo ultimo, se mai verrà raggiunto, sarebbe la derivazione dell'intero schema, e dunque delle diverse caratteristiche delle particelle, da un'unica formula. A quel punto ci si potrebbe chiedere perché essa sia proprio così com'è, e se in un altro mondo non potrebbe essere diversa — ammesso che un altro mondo esista, o possa esistere. Se questo scopo ultimo potrà essere raggiunto in dieci, cento o mille anni di ricerca sperimentale e di speculazioni teoriche nessuno può dirlo. Sarebbe un peccato se si perdesse di vista. La luce che ci porterebbe una visione tanto fondamentale probabilmente farebbe impallidire ogni altra gioia intellettuale. Meditazione su particelle e onde. Alcune delle particelle che appaiono nelle ipotesi dei teorici le conoscevamo già come onde: i fotoni, ad esempio, come onde elettromagnetiche, o i fononi come oscillazioni meccaniche. Gli elettroni, invece, che eravamo abituati a vedere come scintille sugli schermi fluorescenti, in altri esperimenti hanno dato prova della loro esistenza sotto forma di onde. Questa doppia natura di tutte le cose, da una parte come processo periodicamente ripetuto nello spazio e nel tempo (onda), dall'altra come ben definita singolarità (particella), devo prenderla per buona senza capirla davvero. Molte persone intelligenti vi hanno riflettuto a lungo giungendo a intuizioni profonde, ma, per quel che a me sembra, la descrizione che ne danno nei libri scritti per gente come noi è di poco aiuto oggi come allora. La mia intuizione mi dice che perdersi in speculazioni sulla doppia natura della materia come particella e come onda sia meno utile che riflettere sullo spazio in cui, a seconda della prospettiva, essa ci appare ora in un modo, ora nell'altro. Questa riflessione ci porta a quanto segue. Improvvisazione su un tema popolare. Nelle formule che da cento anni circa descrivono le interazioni tra radiazione e materia, tra radiazione e particelle elementari e tra le stesse particelle, appare sempre la lettera h come simbolo per il cosiddetto quanto d'azione. Questo è una grandezza particolare, che in tutti gli eventi che hanno luogo negli ambiti più piccoli pone un limite tanto invalicabile quanto la velocità della luce negli eventi astronomici. Il quanto d'azione è l'atomo di una sostanza primordiale, denominata «azione», la quale si presenta solo in porzioni che ne contengono un numero intero. Altre grandezze possono assumere ogni valore intermedio, a seconda del contesto in cui vengono misurate. Infatti la massa di una particella dipende dalla sua velocità, le velocità sono relative, la forza è una funzione dello spazio, la frequenza muta con la velocità relativa, e persino i cosiddetti quanti di energia non sono costanti, ma dipendono dalla frequenza. Tutto ciò mi conduce a considerare l'azione come il vero supporto della realtà. Anche il gioco di parole, presente nella lingua di chi per primo propose il quanto d'azione, tra Wirkung (azione) e Wirklichkeit (realtà) potrebbe avere radici insospettatamente profonde. (Curiosamente, l'azione, la grandezza che un tempo ebbe un ruolo fondamentale nella meccanica teorica, è praticamente scomparsa dall'indice analitico dei moderni manuali di fisica, tranne che nella combinazione «quanto d'azione»). L'azione mi appare come sostanza primordiale appunto perché i suoi atomi, i quanti d'azione, hanno nello spazio della realtà una grandezza costante, indipendente da tutto il resto. Ma che cos'è questo spazio? L'azione si definisce come il prodotto di un'energia per il tempo e, poiché l'energia è a sua volta definita come prodotto di una forza per lo spostamento, le dimensioni dell'azione saranno forza, lunghezza e tempo. Così, io vedo lo spazio della realtà come un insieme costituito da tre dimensioni fondamentali, avente due dimensioni spaziali in meno dello spazio in cui ci muoviamo. Il quanto d'azione è un parallelepipedo dentro lo spazio della realtà. Il suo volume, come sappiamo, è costante e uguale ad h. Le lunghezze dei suoi lati, che simboleggiano una forza, una lunghezza e un tempo, cui diamo il nome di f, l e t, possono variare purché flt = h (e il rapporto l/t non oltrepassi una determinata misura c, la velocità della luce). Anche alle facce del parallelepipedo possiamo dare un nome. Una, il prodotto della forza e della lunghezza fl, ha la dimensione dell'energia e rappresenta il quanto di energia. L'altra, ft, è l'impulso. Una terza faccia, lt, non ha nome e rappresenta l'estensione spaziotemporale. Poiché il parallelepipedo ha un volume costante, una delle facce, per esempio l'energia fl, può ingrandirsi solo a costo della diminuzione della terza grandezza, cioè del tempo. In modo simile si può accrescere l'impulso ft solo diminuendo la lunghezza, e che le cose stiano così lo si legge nei classici. Anche questo: il sacrosanto parallelepipedo possiamo «misurarlo» solo dopo averlo proiettato dal suo spazio tridimensionale su uno dei piani forza-lunghezza o forza-tempo, in modo da ottenere nel primo caso (con la rinuncia a t ) la familiare grandezza «energia» (fl), nel secondo (con la rinuncia a l ) la grandezza «impulso» (ft). Una proiezione contemporanea su entrambi i piani sembra per qualche ragione impossibile. È chiaro che qualcosa va perduto quando un oggetto di uno spazio a tre dimensioni viene raffigurato in uno spazio di sole due dimensioni. La silhouette di un busto dà certamente meno informazioni dell'originale. Ma che succede quando, viceversa, un oggetto situato in uno spazio con meno dimensioni viene raffigurato in uno che ne ha di più? Quando ad esempio si proietta il quanto d'azione, con le sue tre dimensioni, in uno spazio che ne ha (almeno) cinque, quale può essere l'ordinario spazio euclideo – quello del mondo in cui viviamo – con le sue tre dimensioni spaziali, con in più una dimensione temporale e (almeno) una dimensione della forza. Il luogo del quanto d'azione deve in tal caso restare indeterminato in due delle tre dimensioni dello spazio. Un esempio familiare: che accadrebbe se si volesse determinare la posizione di una mosca in una stanza tridimensionale, ma fossero definite soltanto le due dimensioni della velocità del volo e del tempo passato dalla partenza? La mosca comparirebbe in modo imprevedibile in luoghi qualsiasi e le si attribuirebbe così una casualità intrinseca non ulteriormente indagabile. Solo quando lo schiacciamosche la colpisse la funzione di probabilità collasserebbe divenendo osservazione. Anche questo non suona molto diverso da certe idee che si trovano nei libri sui quanti. Tutto ciò astrattamente si può vedere così. La proiezione di una figura in uno spazio m-dimensionale su uno spazio n-dimensionale (dove n < m) si ottiene assegnando valore zero a una o più dimensioni dello spazio m. In tale proiezione l'informazione sulla figura contenuta in queste coordinate va perduta. Questo significa che a più figure .cor m-dimensionali può essere attribuita la stessa immagine nello spazio n (tutti conoscono la famosa immagine del cubo, che, se socchiudiamo gli occhi per un istante, cambia posizione). Se la realtà ha m dimensioni, nello spazio n verrà descritta solo in parte. All'opposto, se lo spazio n è quello reale, ad ogni oggetto di tale spazio corrispondono molteplici manifestazioni nello spazio m. Non mi stupisce che nel mondo dei laboratori di fisica gli eventi del mondo quantistico appaiano caratterizzati da una casualità di principio. | << | < | > | >> |Pagina 108Il mondo nel cervello. Nei cervelli è raffigurato il mondo. Tutti gli organi di senso ricevono «segnali» dall'ambiente (e in parte anche dal proprio corpo) – forze meccaniche, vibrazioni acustiche, temperatura, luce, stimoli chimici –, li trasformano in segnali neuronali (spike) e li trasmettono al cervello, dove entrano nella complicata interazione tra spike dentro le grandi reti nervose. Ogni stato funzionale del cervello è una immagine del mondo nella misura in cui questo viene colto dagli organi di senso. Mondi diversi. Nelle diverse specie animali occhi, orecchi, nasi, recettori meccanici sono costruiti assai diversamente. I rapaci possono riconoscere oggetti in lontananza come attraverso un telescopio. I colombi, dal canto loro, hanno una completa visione panoramica. I cani riconoscono le persone dall'odore, mentre per l'uomo tutti i cani hanno più o meno lo stesso odore. Alcuni animali odono gli ultrasuoni o vedono gli ultravioletti, ai quali noi uomini siamo sordi e ciechi. Così il mondo che si rispecchia nel cervello è determinato già da prima dalla posizione delle finestre tramite cui il cervello comunica con l'esterno. Ogni animale vive nel suo mondo particolare. Proiezione: conoscenze a priori. Uno « spazio sensoriale », o «percettivo», è rappresentato in luoghi diversi del cervello: ad esempio lo spazio visivo, bidimensionale, è proiettato su una superficie bidimensionale, mentre lo spazio delle frequenze acustiche, unidimensionale, è proiettato su una struttura lineare. Nel cervello, così, è già incorporato un sapere sulle correlazioni nel mondo, ancora prima che esso faccia le sue esperienze. Un oggetto che si muove nello spazio genera sulla retina una traccia continua, e questa nel cervello viene raffigurata come un'eccitazione che si muove con continuità. Anche il senso del tatto della nostra pelle raggiunge il cervello in una forma in cui è conservato l'ordine bidimensionale della superficie corporea. Ciò rende facile al cervello distinguere tra un pidocchio che cammina sulla pelle e una pulce che salta, tra movimento continuo e discontinuo. E rende facile allo studioso del cervello indicare a un filosofo che discetti sull'«intuizione» a priori dello spazio l'ordine spaziale innato che risiede nel cervello.
L'ordine geometrico non viene conservato solo
nella proiezione degli spazi sensoriali sul cervello.
Anche in alcuni fasci di fibre che uniscono tra loro
diverse parti del cervello regna un ordine geometrico, così come nelle fibre che
rappresentano l'uscita verso i muscoli. In questo caso il significato della
proiezione ordinata del cervello sul sistema motorio
è palese. I differenti gruppi muscolari che, in parte
insieme, in parte contrapposti, determinano la postura e i movimenti, nel
cervello sono rigorosamente separati, rappresentati l'uno accanto all'altro e di
lì vengono chiamati a un'armonica collaborazione.
Senza dubbio le configurazioni di attività che raggiungono il cervello vengono elaborate, filtrate, trasmesse e registrate in luoghi differenti in molti modi. A ciò corrisponde la grande diversità nell'organizzazione della sostanza grigia nelle diverse parti del cervello. Tessuto nervoso senza direzioni privilegiate. Ci sono parti del cervello nelle quali ogni neurone è circondato da neuroni simili, senza che la loro disposizione o i loro collegamenti permettano di riconoscere una qualche direzione privilegiata né alcun altro ordine geometrico all'infuori di quello che necessariamente discende dalla lunghezza limitata di dendriti e assoni. Abbiamo già parlato dei tessuti nervosi piatti e stratificati delle cosiddette cortecce. Lo spessore di una corteccia è un paio di millimetri, o addirittura meno di un millimetro, ma la sua superficie può estendersi ben oltre il diametro del cranio, così che ci sta dentro solo perché pieghettata come un fazzoletto dentro la tasca dei pantaloni. Se la rappresentiamo dispiegata e distesa, la corteccia del cervelletto nell'uomo, per esempio, è lunga oltre due metri. Palesemente ci sono relazioni nel mondo che il cervello riconosce nel modo migliore se vengono rappresentate su una superficie bidimensionale. Se non fosse così, per il cervello sarebbe più facile sistemare i suoi molti neuroni in strutture globulari, entro le quali le connessioni tra neuroni fossero le più corte possibili. Connessioni locali e globali. Le diverse cortecce si differenziano tra loro anche per la lunghezza delle connessioni nel piano della loro estensione maggiore. Nella corteccia del cervelletto, ad esempio, in qualunque direzione nessuna fibra è più lunga di pochi millimetri, così che in essa i neuroni riescono a comunicare l'uno con l'altro solo entro una zona molto limitata (a paragone dell'enorme superficie corticale del cervelletto). A quanto pare sono importanti le correlazioni che si manifestano nell'interazione di elementi piuttosto vicini. Non a caso le funzioni del cervelletto sono generalmente associate al riconoscimento e al controllo di movimenti, che procedono da punto a punto in modo continuo nello spazio e nel tempo. Ben diverse sono le connessioni nella corteccia cerebrale. Là ci sono fibre di ogni lunghezza, dalle più corte, tra neuroni vicini, alle più lunghe, le quali (passando principalmente nella sostanza bianca) uniscono tra loro i punti più lontani della corteccia. In tal modo ogni punto del tessuto nervoso è informato dello stato di ogni altro, direttamente o tramite pochi passi intermedi. Tutto dipende da tutto, proprio come nella nostra vita interiore, dove ogni pensiero, anche il più modesto, porta con sé le tracce di tutte le esperienze presenti e passate. Geometria dei collegamenti. Le diverse disposizioni delle fibre all'interno del tessuto nervoso permettono di trarre alcune deduzioni sui diversi tipi di elaborazione dell'informazione. Nella maggior parte della corteccia cerebrale lo stesso numero di fibre va in ogni direzione della sua superficie. In una regione particolare della corteccia cerebrale (il cosiddetto ippocampo) vi sono però anche popolazioni di fibre orientate in una sola direzione. Nella corteccia del cervelletto le due più vaste popolazioni di fibre sono disposte ortogonalmente, l'una lungo l'asse trasversale (sinistra-destra), l'altra lungo l'asse sagittale (antero-posteriore), ognuna in entrambi i sensi.
Eccitazione e inibizione.
In numerose zone del cervello i neuroni inibitori sono sparsi dappertutto in
una maggioranza di neuroni eccitatori. Il loro compito sembra simile a quello
della polizia municipale, cioè smorzare l'eccitazione eccessiva nei luoghi dove
essa insorge. In altre parti del cervello, però, l'inibizione sembra avere un
ruolo più intelligente, ad esempio nel cervelletto, dove le fibre inibitorie
corrono in direzione antero-posteriore (e viceversa) e
le eccitatorie ortogonalmente ad esse.
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