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| << | < | > | >> |IndiceCapitolo 1. 7 Due volte dramma – un progetto fuori tempo – come è cambiato il contesto – le due opposizioni – gli apprendisti stregoni per un cambio di sistema – l'Unione al governo – «un capolavoro di autolesionismo e stupidità politica» – le questioni etiche e la sinistra dei diritti – il cattolicesimo democratico verso l'esaurimento – il clerico-moderatismo e la laicità del centrodestra – Berlusconi si autolegittima. Capitolo 2. 27 Le occasioni mancate del 1999 – l'occasione non colta del 2004 – gli anni persi del Pd – le tentazioni della Margherita – le esitazioni dei Ds – la falsa ragionevolezza degli apparati – Prodi e la «temporanea indispensabilità» – la seconda candidatura – chi provò a farlo fuori – gli eterni aspiranti e l'intruso – il «Comma 22» del prodismo. Capitolo 3. 41 «Trattasi di una paraculata gigantesca» – una legge contro la governabilità – le 18 liste dell'Unione, le 17 della Cdl – partiti più forti, coalizioni più deboli – come vincere la camera e perdere il senato – il Piemonte regalato – la grande rimonta del centrodestra – ma per l'Unione un risultato storico – il ricatto delle liste – il governo dei 101 – nel 1996 tutto diverso – l'esecutivo impantanato. Capitolo 4. 59 Due Italie, nemiche – un lungo processo di radicalizzazione – larghe intese opzione inesistente – tre candidati per due camere – le condizioni di Bertinotti e l'«en plain» – due casi di diffamazione istituzionale – quando odia la destra – come si parlano Prodi e Berlusconi. Capitolo 5. 77 Provarsi a governare con due voti di maggioranza – ricatti e zone grigie – «ognuno ha giocato per il suo piccolo interesse» – governare come se – la mediazione infinita – quando il processo uccide il risultato – la difficile supplenza – un western all'italiana – il più riformista del reame – il 1998 in punta di piedi – lo strapaese – «un declino strutturale e psichico» – il fallimento di un ceto politico – le patologie di un malato terminale – mille voci, nessuna voce. Capitolo 6. 97 Come nacque la «lenzuolata» – come nacque l'indulto – sicurezza e fisco elementi critici – la finanziaria della confusione – la pretesa di far pagare le tasse – tutti in piazza – l'impazzimento generale – crisi di legittimità della politica – la metà più povera – l'Italia «benaltrista» – la campagna elettorale permanente – il parafulmine – chi beneficia del lavoro sporco. Capitolo 7. 117 L'opposizione reale – padroni e vescovi per un nuovo centro – l'apporto delle menti illuminate – la doppia partita della Confindustria – segnali di sfratto – gli ereditieri e il governo dei migliori – il tribuno del lusso – l'ostacolo Prodi – qualcosa avvenne nel giugno 2007 – ma il centro non esiste – gli sms di Romano a Luca. Capitolo 8. 133 Lamentarsi dei media – la crisi permanente – tanti alberi, nessuna foresta – un circuito incestuoso – il coro e i solisti – disegno trasparente – giocare a fare Dio – «tribuni di crociate» – la narrazione, il linguaggio – «mai visto un così vasto schieramento di forze distruttive... » – i governatori dell'universo – e gli dèi, placati, divennero benigni. Capitolo 9. 153 La Via Crucis del governo – Dico e non possumus – ma la bozza era nota – i 60 della Margherita – le due vecchiette di Amato – campane a morto – Gedda con la diretta tv – la laicità di Andreatta – la pretesa di dirsi adulto – a Firenze leticando – troppi Principi per l'Italia – la Finanziaria della Cei – domande senza risposta. Capitolo 10. 175 Politica estera in tre fasi – il Libano e la diplomazia del cellulare – quando Jacques rimase in silenzio – lo psicodramma afgano – con gli Usa vita difficile – il tackle dell'ambasciatore – Mastrogiacomo e le sette telefonate a Karzai – i fantasmi dell'antiamericanismo – far ripartire l'Europa – l'euroscettismo programmatico – i veri realisti – verso il congedo – l'ultima cena a Downing Street. Capitolo 11. 205 La crisi arrivata troppo presto – ma non per i vescovi – ballando tra Usa e Cei – l'orgoglio costa – la maggioranza che non c'è – dimissioni con rinvio – Napolitano si spiega – ultimo appello – addio ai Dico – le tre bandiere di Turigliatto – Altan e la malinconia della ragione. Capitolo 12. 217 Concertare con chi – l'ostilità ricambiata del lavoro autonomo – le assemblee dell'antipolitica – come eliminare lo «scalone» e riformare il welfare – la maggioranza dei veti incrociati – l'altra partita di Rifondazione – chiudere con le parti sociali – «o troviamo l'accordo o io mollo» – cosa disse Prodi a Epifani – il referendum e la chatting class – il 2008 e il problema dei salari. Capitolo 13. 231 Per passione o per pigrizia? – il Pd scelta tardiva – la svolta del 18 giugno 2007 – via libera al «superstite miracolato» – suoni e luci al Lingotto – l'archiviazione di Prodi – il «nuovo conio» annuncia il rompete le righe – alle elezioni da soli, o quasi – Rifondazione e i movimenti – la stagione del benaltrismo – ma su pensioni e welfare la sconfitta è politica – in un cul de sac – rispunta il Palazzo d'Inverno – Prodi come Cardarelli – il sogno della Cosa Rossa – oltre l'Unione verso il nulla. Capitolo 14. 257 Il TEP e la spallata fallita – «noi libearldemocratici» – prendersi in giro sulla riforma elettorale – il flamenco di Veltroni – spartirsi l'Unione in una piccola Yalta – il partito del predellino - fidarsi di Berlusconi – la promessa di Mastella – l'autospallata di Orvieto – i capi del partito tedesco – il ping gong di Dini e Bertinotti – e l'Unione si congeda con comportamenti demenziali diffusi. Capitolo 15. 279 Tolto il disturbo arrivano i riconoscimenti – chi non voleva il voto delle camere – nel Guinnes dei primati – le soddisfazioni di TPS – ma un ciclo si è esaurito – un tempo e mezzo – la sinistra risana, la destra se ne fotte – politica estera e articolo 11 – stupidità liquidatoria – dimenticare quindici anni e scomparire – un modo fantasioso di chiamare sconfitta e subalternità – se ritorna il bipartitismo imperfetto – «quando fallisce due volte lo sforzo di creare una alternativa riformista...». Indice dei nomi 293 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Due volte dramma – un progetto fuori tempo – come è cambiato il contesto – le due opposizioni – gli apprendisti stregoni per un cambio di sistema – l'Unione al governo – «un capolavoro di autolesionismo e stupidità politica» – le questioni etiche e la sinistra dei diritti – il cattolicesimo democratico verso l'esaurimento – il clerico-moderatismo e la laicità del centrodestra – Berlusconi si autolegittima. Dramma può sembrare una parola grossa, un termine sproporzionato se applicato a un evento – una crisi di governo – che nell'Italia repubblicana dopotutto si è già ripetuto una sessantina di volte. Però c'è crisi e crisi. E quella del governo dell'Unione non è stata una crisi qualunque. Infatti, dopo che Romano Prodi si dimise il 24 gennaio 2008, in tanti scrissero della fine di un ciclo, e alcuni addirittura che si era chiusa un'epoca. Una percezione della fine resa più evidente dalla decisione dell'uomo con cui quel ciclo e il polo di centrosinistra si erano identificati: non ricandidarsi al parlamento e uscire dalla politica lasciando anche la presidenza del partito che aveva contribuito a fondare. E resa ancor più marcata da quello che avvenne quando il 14 aprile si chiusero i seggi e si contarono i voti. La sinistra radicale, per la prima volta al governo con l'Unione e per la prima volta letteralmente cancellata dal parlamento. La sinistra riformista del Partito democratico sostanzialmente incapace di andare oltre il risultato che le liste unitarie dell'Ulivo avevano già raccolto nel 2004 e nel 2006. E l'Italia restituita a Berlusconi e al suo blocco politico-sociale dopo due parentesi strappate per un cumulo irripetibile di circostanze all'egemonia moderato-conservatrice di un paese storicamente moderato-conservatore, e mal utilizzate per un cumulo ripetuto di errori. Troppi per stabilizzare una credibile alternativa di governo. Lasciando la sinistra nelle sue diverse articolazioni senza una strategia, senza prospettive e senza figure unificanti. Perciò parlare di dramma non è improprio. E neppure parlare di un dramma personale, quello vissuto da Romano Prodi. Non perché ha perso dopo aver vinto. O per l'uscita dalla politica di chi, dopotutto, alla politica era arrivato tardi e non certo per mancanza di alternative, ma per inseguire un progetto ambizioso al cui servizio aveva posto la sua personale ambizione. Il dramma non sta in questo. Nella vita si vince e si perde, e aver vinto e governato due volte - non possedendo di suo né potere partitico, né potere finanziario, né potere mediatico - non è un cattivo bilancio personale. E come c'era una vita prima dell'impegno politico, ce n'è una dopo. Chi lo conosce sa che Prodi non è incline all'autocommiserazione.
Ma c'è qualcosa di più. Prodi era entrato in politica per
perseguire due obbiettivi di portata storica e di grande impatto sistemico:
unire in un unico partito i diversi riformismi italiani, compreso quello di
matrice cattolica, e portare
al governo la sinistra intera, quella riformista e quella antagonista. Tra il
2006 e il 2007 aveva visto i due obbiettivi
realizzarsi. Ma la loro realizzazione era avvenuta in contro-tendenza, fuori
tempo, quando erano ormai cambiati tutti
i dati di fondo rispetto al momento in cui era stato lanciato il progetto.
Avvenne quindi entro una cornice totalmente ostile e in un momento di incipiente
collasso della cosiddetta Seconda Repubblica, per la quale quel progetto
era nato. Di conseguenza l'azione del suo governo ha incontrato enormi
difficoltà e ostilità. E, a conclusione di
una tormentata esperienza, ha visto le due sinistre separarsi: una per tornare a
coltivare l'antagonismo esimendosi
dal pensarsi forza potenziale di governo; l'altra a inseguire
in solitudine una vocazione che si vorrebbe maggioritaria
ma rischia di essere a lungo minoritaria.
È questo il dramma che mi accingo a raccontare. La mia è una testimonianza di parte. Avendo passato quattro anni a fianco di Prodi, dal suo ritorno in Italia dopo la presidenza della Commissione europea fino all'ultimo giorno a Palazzo Chigi, penso di potermi definire «persona informata dei fatti», annotati giorno dopo giorno. Ma non pretendo neppure per un minuto di spacciarmi per osservatore spassionato. Non sarebbe possibile. Del resto, testimonianza di parte non significa testimonianza acritica: ho ben presenti limiti ed errori personali e collettivi.
Mi rendo tuttavia conto che i protagonisti di questa vicenda potrebbero dare
di uno stesso fatto versioni e interpretazioni diverse dalla mia. A loro posso
solo dire: «Scrivete il vostro libro». Il fallimento di cui stiamo parlando
merita, esige, una riflessione ampia, a più voci. Possibilmente
franca e non auto-assolutoria, guardando al debito enorme
che i protagonisti - tutti - hanno verso i loro elettori, così
profondamente delusi, e non solo a come meglio posizionarsi confezionando verità
di comodo per salvarsi in qualche modo dal naufragio.
Quando parlo di dati di fondo radicalmente mutati rispetto al 1995-96, allorché il progetto di Prodi prese corpo, mi riferisco essenzialmente a tre processi che, per le loro implicazioni, hanno pesato fortemente in modo negativo sull'esperimento del governo dell'Unione. Uso il termine «esperimento» perché in Italia la sinistra radicale non aveva mai assunto responsabilità di governo, un fatto che già da solo avrebbe sottoposto l'esecutivo a forti tensioni con settori e poteri avversi a quella presenza. Come infatti è avvenuto. Il primo dato è la ri-proporzionalizzazione della politica italiana, che ha chiuso la breve parentesi maggioritaria, per di più attuata con un sistema elettorale che alla sua prima applicazione, nel 2006, costrinse all'assemblaggio di coalizioni ampie e disomogenee. Sia la coalizione vincitrice sia quella sconfitta. Il secondo dato è la ri-clericalizzazione della Chiesa italiana, che ha ridotto a ben poca cosa l'autonomia dei laici cattolici impegnati in politica e ostracizzato in particolare la componente cattolico-democratica, da sempre fondamentale nel progetto prodiano. Il terzo dato, meno rilevante in assoluto ma che ha pesato per effetto della composizione della coalizione, è la ri-ideologizzazione della politica internazionale, impressa da una presidenza americana che ha affossato il multilateralismo e diviso l'Europa, in un contesto profondamente alterato dallo sconvolgente atto terroristico dell'11 settembre.
Ciascuno di questi mutamenti ha prodotto conseguenze
negative per il governo dell'Unione. Il primo dato comportò nel 2006 una
vittoria stentatissima e numericamente
inadeguata in un ramo del parlamento, indebolì fortemente lo spirito
coalizionale attivando forti spinte centrifughe e
rese estremamente ardua l'azione di direzione del governo.
Il secondo mise in seria difficoltà la componente cattolica
della coalizione, portò a forti tensioni tra la Cei e il governo
dell'Unione, e pone tuttora un'ipoteca sull'effettiva realizzazione del Pd nel
suo spirito originale di superamento delle identità. Il terzo originò una
malcelata ostilità dell'amministrazione americana, pesantemente strumentalizzata
in Italia, in uno scenario che richiedeva al governo decisioni
conseguenti non comprese od osteggiate (ma non fino al
punto di impedirle) da una sua componente, la sinistra radicale, animata
anch'essa da forti pregiudizi ideologici.
L'effetto complessivo fu deleterio per l'Unione. E non è un
caso che elementi di questi tre cambiamenti abbiano determinato in concorso la
crisi, poi superata, che investì il governo nel febbraio 2007.
Il fatto che gli obbiettivi del progetto si siano egualmente realizzati malgrado il radicale mutamento di scenario intervenuto nel frattempo testimonia della forza di quelle idee, del resto le sole di portata strategica messe in campo nell'arco di tre lustri dalla sinistra italiana. Ma il presupposto di quel progetto era il sistema maggioritario in un assetto bipolare; esso puntava alla costruzione di un sistema di democrazia governante, mettendo quindi al centro del processo politico il governo e non la rappresentanza; in questa ottica puntava alla costruzione di un polo di centrosinistra inclusivo della sinistra radicale; il Partito democratico doveva nascere sul superamento delle identità delle componenti di partenza, e porsi come elemento aggregante di quel polo. Se si tiene a mente tutto questo, ci si rende conto di quanto forte sia stato lo scostamento tra gli obbiettivi e il contesto in cui si sono realizzati, il peggiore possibile per chi si trovò a governare. Non ci fu solo questo. L'arrivo al governo dell'Unione coincise con un impegno assai determinato da parte di due poteri extra-politici – il padronato (con i suoi giornali) e i vescovi – per arrivare a un mutamento dell'assetto sistemico, favoriti dall'esito del voto 2006 e dalla fortissima ondata di antipolitica che investì il paese. Pur perseguito in forma del tutto autonoma e per finalità in parte diverse, l'obbiettivo era comune: destrutturare i poli, archiviare definitivamente la stagione del maggioritario e del bipolarismo, adottare una legge elettorale proporzionale senza più il premio di coalizione, e creare così i presupposti per alleanze postelettorali al centro. Questo disegno non si è realizzato. Dopo che un tentativo di cambiare la legge elettorale con un governo istituzionale, non a caso fortemente incoraggiato dai due poteri, non andò in porto per l'indisponibilità di Berlusconi deciso a ottenere elezioni anticipate, le scelte dei maggiori protagonisti e il voto del 2008 hanno configurato un sistema tendenzialmente bipartitico, che ha ridotto il centro a poca cosa e lo ha reso marginale.
Ma finché il disegno sembrò realizzabile, venne perseguito attuando nei
confronti del governo un fuoco di sbarramento molto violento, che ebbe effetti
devastanti, aggravando sensibilmente la crisi di consenso. Cioè gli effetti
voluti. E poiché la capacità di tenuta di Prodi in condizioni
impossibili era l'unico ostacolo che sembrava frapporsi al
raggiungimento di quell'obbiettivo, Prodi divenne l'ostacolo che andava rimosso
con un'azione di delegittimazione personale e politica.
Quando avanzo questa chiave di lettura complessiva di ciò che è avvenuto, e che qui mi limito ad accennare perché troverà il suo sviluppo nei capitoli successivi, non intendo affatto sminuire le responsabilità degli uomini e dei partiti della coalizione. Anzi. Essa diventa un'aggravante. Il quadro era ostile fin dall'inizio, per ragioni che erano sotto gli occhi di tutti; le elezioni del 2006 erano state vinte per un soffio, compiendo comunque un'impresa storica, perché mai la sinistra si era affermata in un voto proporzionale (nel 1996, quando ancora si votava con la legge Mattarella, l'Ulivo vinse nella quota maggioritaria e solo perché la Lega corse da sola, ma perse con notevole scarto nella quota proporzionale); c'era la consapevolezza – si presume – dei problemi del paese e di vaste aspettative, difficili da soddisfare con l'impegno incombente del risanamento dei conti; veniva proposta una formula di governo mai testata nell'effettiva disponibilità ad accettarla di ceti e poteri. A tutto questo si sarebbe dovuto rispondere con accortezza e senso della misura, con un autentico spirito di squadra, con la consapevolezza che si era protagonisti di una scommessa, e tutto sommato con l'orgoglio di provare a sé stessi e al paese che esisteva una classe dirigente alternativa. «Su quei pochi voti di vantaggio reinvestiti con intelligenza e tenacia», scrisse sull'«Unità» del 19 aprile 2008 Antonio Padellaro, riflettendo sulle ragioni della sconfitta, «si sarebbe potuto cambiare a favore del centrosinistra il baricentro politico del paese».
Invece, alla prova, l'Unione al governo mostrò di non avere la
consapevolezza di mutamenti che avrebbero sottoposto l'esecutivo a tensioni
fortissime, contenibili almeno
in parte solo con comportamenti ben diversi da quelli tenuti. Si agì al
contrario estremizzando ogni dissenso, impegnandosi in ridicole sfide «di
bandiera» tra le varie componenti, cercando visibilità a ogni costo, esibendo i
narcisismi
di ego ipertrofici inversamente proporzionali all'effettivo
spessore intellettuale. Ancora Padellaro: «Il calvario cui è
stato sottoposto il Professore dai suoi alleati veri e presunti,
giorno dopo giorno, resta un capolavoro di autolesionismo
e di stupidità politica». Decretando così, prima ancora del
fallimento di una formula, quello di un ceto politico incapace di pensarsi e di
agire come ceto di governo, con eccezioni davvero troppo rare. E facilitando
enormemente il compito sia di una opposizione politica che condusse una
guerriglia incessante nelle aule parlamentari, sia della opposizione di quei
poteri che non volevano né quel governo né quella maggioranza, e neppure
volevano più il sistema che li aveva espressi.
In questo modo i meriti vennero offuscati, i demeriti ingigantiti, dando dell'esecutivo un'immagine di impotenza e di incapacità decisionale che non corrispondeva al vero. Al punto che, dopo le dimissioni, quando venne il momento dei bilanci, una parte almeno della stampa registrò con una certa sorpresa che la crisi coglieva in varie fasi del cammino parlamentare una ventina di riforme varate dall'esecutivo nei suoi venti mesi di vita, oltre a quelle che in precedenza erano già giunte all'approvazione finale, fra cui i provvedimenti che davano attuazione all'accordo sulla riforma del welfare raggiunto con le parti sociali. Con sorpresa, perché la cortina delle polemiche incessanti, e l'inevitabile ma non necessariamente disinteressata amplificazione mediatica, avevano finito per nasconderle alla vista. | << | < | > | >> |Pagina 279Tolto il disturbo arrivano i riconoscimenti – chi non voleva il voto delle camere – nel Guinnes dei primati – le soddisfazioni di TPS – ma un ciclo si è esaurito – un tempo e mezzo – la sinistra risana, la destra se ne fotte – politica estera e articolo 11 – stupidità liquidatoria – dimenticare quindici anni e scomparire – un modo fantasioso di chiamare sconfitta e subalternità – se ritorna il bipartitismo imperfetto – «quando fallisce due volte lo sforzo di creare una alternativa riformista...». Quando il governo Prodi cadde, giovedì 24 gennaio 2008, si scoprì che aveva fatto moltissime cose. In venti mesi. Durante i quali era passata la narrazione di un governo incapace di decidere perché paralizzato da veti incrociati, e che, a parte le due Finanziarie, il Protocollo sul welfare e alcune iniziative di politica estera, poco o nulla aveva prodotto. Senza contare che spesso il governo veniva giudicato come se fosse in carica da cinque anni, e il bilancio del suo operare andasse misurato non sui venti mesi trascorsi dal suo insediamento ma su quell'arco di tempo, risultando inevitabilmente deficitario. Invece il giorno dopo il «Sole-24 Ore» certificò che le dimissioni bloccavano «una ventina di riforme», dal fisco federale ai servizi pubblici locali, dalle authority all'emittenza, dal terzo provvedimento di liberalizzazione alla Rai, dalle intercettazioni agli ordini professionali, dall'emigrazione alla sicurezza, dal conflitto di interessi all'autosufficienza, alla trasparenza nelle nomine di manager e primari nella Sanità.
Riforme che il Consiglio dei ministri aveva approvato nei
617 giorni di vita del governo, e che la crisi coglieva in vari
stadi del cammino parlamentare, sempre problematico al
senato e quindi lento e travagliato. L'interruzione traumatica dell'attività
rivelò quanto era stato offuscato dai litigi e
in buona parte oscurato dai media. «Il governo, nelle condizioni date, ha
offerto una prova di tutto rispetto», scrisse
il direttore del «Corriere della Sera». «Il ministero ha commesso errori
clamorosi, come l'indulto, e ha esitato su importanti temi civili, ma ha meriti
reali sul fronte dell'economia, dove ha avviato la strategia delle
liberalizzazioni e ha migliorato i conti ereditati dal centrodestra, grazie
soprattutto alla leva del fisco, ottenendo apprezzamenti dall'Unione europea e
dal Fmi», scrisse il direttore della
«Stampa». E anche quello di «Repubblica» evidenziò «i risultati positivi di un
governo che ha rovesciato il proverbio,
razzolando bene mentre continuava a predicare male».
In effetti, una volta che Prodi era stato tolto di mezzo (e l'Unione messa da parte), non mancarono i riconoscimenti. Il direttore della «Stampa» gli rese omaggio così: «È caduto da combattente con dignità e fermezza, dimostrandosi, al pari del suo avversario e coetaneo dell'altro polo, Silvio Berlusconi, il miglior campione della sua parte, capace di una visione del Paese né mediocre né chiusa al futuro». E sul «Messaggero» venne definito «un buon presidente a capo di una coalizione difficile e per questo doppiamente buono». Piacque molto anche la decisione di Prodi di andare davanti alle camere, tutte e due, e chiedere un voto di fiducia, che evidenziasse le responsabilità di ciascuno. Fu molto lodata. Dopo. Perché prima l'opinione prevalente era che dovesse limitarsi a Montecitorio, e poi andare a dimettersi. Lo pensavano in tanti, dal capo dello stato al politburo del Pd, a Rifondazione, ai notisti dei giornali. Si faceva valere un argomento da Seconda Repubblica, per così dire (l'Udeur è uscito dalla maggioranza, e quindi la coalizione che ha vinto le elezioni non c'è più, a prescindere dai numeri), su cui si innestava un argomento da Prima Repubblica (un passaggio parlamentare non serve, basta il comunicato dell'Udeur). Ci si era (auto) convinti che evitando il voto al senato si agevolasse la nascita di quell'esecutivo, variamente definito tecnico o istituzionale, che doveva fare la riforma elettorale. Mi disse Prodi, dopo: «Ho ricevuto pressioni e inviti da molte parti di non andare al senato. Persino mentre era in corso la seduta a Palazzo Madama si tornò alla carica per convincermi a non chiedere il voto al termine del dibattito. Per me invece doveva aprirsi una crisi parlamentare in cui si vedesse chi e come votava. E dopo tutti mi hanno dato ragione. C'era il vago discorso che non votando si tenesse ancora il filo di soluzioni diverse. Io non l'ho mai creduto. Quello di Marini mi è parso un tentativo rassegnato. Su un reincarico non mi ero mai illuso perché già a febbraio, quando ci fu la crisi, il capo dello Stato mi disse che quella era l'ultima volta. Infatti non ha mai parlato di reincarico, con onestà intellettuale ma anche con determinazione politica. Io comunque non ho mai avuto il minimo dubbio, perché le sorti di un governo non possono essere determinate dalle agenzie di stampa o dai dibattiti in tv. C'era un solo percorso limpido, chiedere ai deputati e ai senatori di esprimersi con un voto pubblico. E l'ho seguito».
Come si sa, ebbe la fiducia della camera, ma non del senato, dove mancarono
i voti di Mastella e Barbato, di Dini e Scalera (che si astenne, ma per
regolamento equivale al voto contrario), di Fisichella, e di Turigliatto. Così
finì il governo dell'Unione. E così Prodi entrò nel Guinness dei primati.
Infatti nell'intera storia repubblicana è l'unico presidente del Consiglio che
sia stato affondato dal parlamento
con un voto di fiducia, mentre il governo era nella pienezza
dei suoi poteri, e non al momento della sua presentazione
dopo aver giurato (ma in 56 casi le dimissioni vennero rassegnate senza neppure
andare davanti al parlamento). Per due volte, a distanza di dieci anni. «Strano
e ingiusto destino», scrisse Enzo Mauro su «Repubblica», «di un uomo politico
che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti
pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di
governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader.»
In quella seduta a Palazzo Madama, il pomeriggio del 24
gennaio, alcuni senatori offrirono uno spettacolo vergognoso. Aggressioni,
sputi, insulti. Alla fine, quando venne
proclamato l'esito della votazione, un senatore di An si ingozzò di mortadella,
un altro della stessa parte stappò una
bottiglia di champagne. In aula, a seduta ancora in corso, a
telecamere ancora accese. «Per qualche ora il senato è stato
la più grande discarica d'Italia», scrisse Grillo sul suo blog.
Anche per questo il comportamento tenuto da Prodi, la sua
decisione di parlamentarizzare la crisi sino in fondo, di costringere i Mastella
e i Dini a non cavarsela con dichiarazioni alle agenzie di stampa, venne
apprezzato. Dopo. «Bisogna ammettere che in tale contesto», scrisse Stefano
Folli sul «Sole», «la trasparenza istituzionale di Prodi ha riscattato una
pagina penosa di storia parlamentare.» E Stefano
Menichini su «Europa»: «Gli era stato chiesto di evitare la
conta fatale. Non l'ha voluta evitare. A sconfitta consumata,
forse ha avuto ragione lui: perché c'era soprattutto la sua
faccia e dignità in gioco, è giusto che le abbia potute difendere. Ieri altri
hanno perduto la faccia...».
Anche Tommaso Padoa-Schioppa si tolse qualche soddisfazione. Il quotidiano
economico-finanziario pubblicò dei
grafici che mettevano a confronto i numeri dell'economia
due anni dopo, da cui il governo dell'Unione e lui personalmente uscivano a
pieni voti. Del resto erano già arrivati
gli apprezzamenti di tutti gli organismi internazionali e delle agenzie di
rating. Eppure ancora ai primi di ottobre 2007
il commissario Almunia a Bruxelles e il governatore Draghi
a Roma avevano espresso critiche identiche, parlando chi di
mancanza di coraggio, chi di progressi modesti nella riduzione degli squilibri
di bilancio. Prodi aveva risposto che
«le anime belle» criticavano senza rendersi conto che una
correzione di bilancio va fatta aiutando il sistema a crescere
e non mettendolo in crisi. «Certo si può eliminare il debito
in un anno, ma poi si chiude anche il Paese.» Ora Almunia
a distanza solo di due mesi, parlava di «miglioramenti superiori alle attese»,
di risultati «molto, molto buoni». E il 15 gennaio 2008 sul bollettino della
Banca d'Italia i conti pubblici apparvero «in significativo miglioramento».
Ravvedimenti anche sulla stampa internazionale. Nel novembre del
2006 il «Financial Times» aveva compilato una pagella dei
ministri finanziari dell'area euro e aveva messo Padoa-Schioppa all'ultimo
posto. Il 6 febbraio 2008 divenne invece, sullo stesso giornale, l'«eccellente
ministro dell'economia». Ma si sa che grandi giornali e grand commis vivono
secondo la regola dettata da un gentleman nell'era vittoriana:
«mai dare spiegazioni, mai chiedere scusa».
Chi con rammarico (pochi), chi con soddisfazione (tanti), i commentatori si esercitarono piuttosto sul senso più generale di ciò che era avvenuto, il fallimento di una coalizione troppo disomogenea per governare, e quindi l'esaurirsi di un ciclo politico caratterizzato dal perseguimento del disegno ambizioso di tenere assieme le due sinistre, e alcune formazioni centriste estranee al blocco berlusconiano, in un progetto di governo dell'Italia. Un ciclo politico durato tre lustri. Quindici anni che, con singolare sintonia, sia Veltroni che il direttore di «Liberazione», organo di Rifondazione, giudicarono letteralmente da buttare, tutti felici di andare da soli. A perdere. Il direttore di «Repubblica» scrisse che Prodi «è morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera». Chi è arrivato sin qui sa che la sofferenza non venne solo da quella parte, e che le componenti riformiste, per non dire le schegge centriste, tennero a tratti comportamenti non meno dannosi per l'immagine e l'operare complessivo del governo. Ma poiché ciò che segnava politicamente il governo dell'Unione era la presenza nell'esecutivo dei partiti della sinistra estrema, unico caso in Europa, è giusto che su questo ci si soffermi. Bertinotti, nel breve interregno tra la fine liberatoria dell'Unione e la fine dei sogni e delle ambizioni, parlò a più riprese di un'esperienza che giudicò deludente. Anzi, fortemente deludente. Salvò, e questo è interessante, la politica estera. In una intervista al «Manifesto» del 9 marzo 2008, disse che «fra le cose fatte ce n'è una da difendere: la politica internazionale. Naturalmente è stato un compromesso, però lo difendo: dal ritiro delle truppe in Iraq fino al Libano e alla politica in Medio Oriente, a un Atlantico un po' più ampio, al riconoscimento di ciò che avveniva in America Latina e in Africa via via fino alla cosa che soffro di più, come la continuazione della presenza in Afghanistan. Anche lì la conferenza di pace ha offerto uno spiraglio». Invece l'accusa di fondo che Bertinotti rivolse a Prodi, spigolando tra le molte interviste in cui disse tante cose diverse, fu di «non essere stato capace di imprimere un cambiamento di rotta rispetto al governo Berlusconi», di non aver raggiunto un compromesso simile a quello sulla politica estera sul terreno economico-sociale e su quello dei diritti, e in particolare sulla politica economica di aver fatto tornare «la logica dei due tempi». Disse nell'intervista al «Manifesto»: «Non è che critico un provvedimento piuttosto che un altro, è proprio l'ispirazione complessiva che non ha funzionato».
Naturalmente si può discutere all'infinito su cosa avrebbe rappresentato un
cambiamento di rotta. È chiaro che se, come disse il 5 aprile 2008 in una
intervista al «Giornale», un voto dato alla Sinistra Arcobaleno avrebbe dato
forza «al progetto di chi non vuole governare il sistema fondato sul
capitalismo, ma vuole rivoluzionarlo»; se la medesima
sinistra – come disse al «Messaggero» il 12 marzo 2008 –
«ha l'ambizione di proporsi il cambiamento del modello economico-sociale e non
soltanto qualche aggiustamento»,
nessun cambio di rotta realisticamente ipotizzabile avrebbe
potuto essere soddisfacente. Governare comporta dei compromessi. Governare con
una coalizione ampia comporta molti compromessi. E, come osservò Cofferati in
una intervista alla «Stampa» del 17 aprile 2008, probabilmente Rifondazione ha
«sottovalutato la difficoltà di stare in un'ampia
coalizione. In un quadro così la necessità della mediazione
bisogna darla per scontata: e della mediazione non può cogliere sempre e solo
gli aspetti negativi».
Ma l'accusa di aver praticato la politica dei due tempi – il che significa prima il risanamento, e solo successivamente una redistribuzione del reddito – è seria perché dietro stanno le sofferenze reali di vasti strati sociali, e le sofferenze politiche della sinistra e dell'intera coalizione. Seria non significa del tutto fondata. Un paese oberato di debiti per quella che Prodi chiama «la devastazione degli anni Ottanta», e obbligato nel suo stesso interesse a rispettare i parametri di Maastricht, non potrà mai permettersi di saltare il primo tempo finché chiunque si trovi a governare non persegua stabilmente una politica di bilancio virtuosa. Dopotutto, è impossibile distribuire risorse se prima non si fa un po' di sana accumulazione. Tuttavia la prima Finanziaria assunse le dimensioni che sappiamo proprio perché non ci si volle limitare al risanamento. La seconda Finanziaria, capitalizzando sugli effetti positivi della prima sul terreno del risanamento, fu di redistribuzione. E in mezzo vi fu il cosiddetto «tesoretto», la redistribuzione a fini sociali di parte dell'extragettito (perché una parte venne destinata alla riduzione del debito). Vi fu quindi una quasi contestualità fra reperimento delle risorse e redistribuzione. Il problema fu la sproporzione fra l'entità dei bisogni che si erano creati nella società, la vastità della platea interessata, e le somme mobilitabili. Un impoverimento diffuso che attraversa il decennio, un quadro drammatico che l'Istat documentò il 28 maggio 2008. E, di fronte, risorse troppo scarse per poter cominciare a incidere con qualche efficacia, almeno nel periodo che qui interessa.
Il «tesoretto», per esempio, fu un caso unico di redistribuzione in corso
d'opera, per così dire, fuori di una Finanziaria, proprio perché si volle
mandare un segnale. Ma si
procedette nella più totale incertezza sull'entità strutturale
dell'extragettito. Dalla Ragioneria veniva un balletto di cifre, il «tesoretto»
compariva, scompariva, ricompariva, per
tornare a scomparire. Tanto che una volta, nel giugno 2007,
Prodi sbottò e disse: «Non mi piace essere preso per il culo!». Alla fine
qualcosa si riuscì a dare, in varie direzioni. E
altro venne dato nella seconda Finanziaria. Con un grande
rimpianto. «Il grande rimpianto», dice Daniele De Giovanni, «è che se alla fine
avessimo impiegato il punto di Pil effettivamente speso, circa quindici
miliardi, in modo da colpire l'opinione pubblica, sarebbe andata diversamente.
Invece il ritorno politico sull'investimento fatto è stato sostanzialmente
nullo.» E poi, naturalmente, intervenne la crisi
del governo a impedire di dare continuità al secondo tempo, che a quel punto
sarebbe diventato l'unico tempo avendo risanato i conti, a partire da un
intervento fiscale sui salari che era già in agenda con le parti sociali.
Il rimprovero che Prodi quindi, a sua volta, rivolse a Bertinotti è di non
aver apprezzato che con tutti i suoi limiti il
governo esprimeva il massimo di riformismo possibile nella
situazione data, cosa che peraltro Bertinotti aveva riconosciuto in una
intervista a «Repubblica» dei primi di luglio,
già citata; di non aver apprezzato il linciaggio cui Prodi fu
personalmente sottoposto dal primo giorno per l'ostinazione con cui difendeva il
rapporto di governo con la sinistra radicale; e di non aver tenuto comportamenti
conseguenti, gettando troppo presto la spugna. Bruciando così una esperienza
certamente faticosa, certamente difficile, ma che
sarebbe valso la pena di perseguire con un po' più di fiducia e di tenuta nel
tempo, esercitando la sua autorità per
spiegare ed educare, anziché – come fece a partire dall'autunno 2007 – per
distruggere e delegittimare. Anche se è vero che il governo cadde a destra.
Il vero dramma della sinistra intera, su cui occorrerebbe
sempre calibrare i giudizi, è che nelle due volte in cui si è
trovata a governare ha dovuto farsi carico prioritariamente
del risanamento dei conti pubblici, con le scelte impopolari che questo ha
comportato. Quanti, da cattedre e giornali, hanno impegnato per due anni tutto
il loro ingegno per negare un ruolo di governo alla sinistra radicale,
dovrebbero avere l'onestà intellettuale di riconoscere che le tre finanziarie
che hanno rimesso i conti pubblici in carreggiata
– quelle del 1997 e 1998 che hanno portato l'Italia nel sistema dell'euro, e
quella del 2007 che ha portato alla cancellazione della procedura di infrazione
per deficit eccessivo aperta da Bruxelles nel 2005 – sono state approvate anche
con il voto della sinistra cosiddetta radicale, per definizione
«irresponsabile». Mentre le forze cosiddette moderate, per definizione
«responsabili», se ne sono fottute allegramente, prima devastando i conti per
generazioni a venire, poi in continuità anche se sotto altre sigle votando
contro le tre finanziarie e riprendendo appena possibile ad accumulare debiti
sballando i conti.
Benché Bertinotti abbia «assolto» la politica estera dell'esecutivo, una riflessione a questo riguardo si impone. Perché è vero che nessuno dei partiti della sinistra radicale si è mai dissociato dalle scelte di governo, essendosi limitato il dissenso a casi singoli che solo i numeri del senato hanno reso influenti. Ma è anche vero che questo è avvenuto con evidente sofferenza, con adesioni non convinte a causa di rigidità ideologiche e una visione davvero schematica del quadro internazionale, con ritardi di elaborazione rivelati anche da linguaggi datati, e in generale mostrando una incapacità a pensare in termini di sicurezza nazionale e a comprendere davvero le responsabilità di governo nel sistema dì alleanze in cui il paese è inserito. Quando il governo andò in minoranza al senato nel febbraio del 2007, a seguito della posizione negativa assunta dalla sinistra radicale sull'ampliamento della base americana a Vicenza, e del voto «paradossale» che ne seguì su cui già mi sono soffermato, il ministro della Difesa Parisi sollevò in una intervista alla «Stampa» del 4 febbraio un paio di questioni su cui avrebbe amato ottenere un chiarimento. Prima questione, il pacifismo e il significato da attribuire all'articolo 11 della Costituzione. E cioè se quell'articolo vada preso a riferimento in tutte e due le sue parti, nel rifiuto della guerra ma anche nell'impegno a condividere attivamente la responsabilità della pace e della sicurezza. Cominciando dal significato del cosiddetto profilo pacifista del governo: «Se con ciò si vuol dire la scelta di confrontarsi con le istanze impegnate a favorire la pace, anche con le testimonianze guidate da una tensione profetica, non avrei certo alcuna obiezione da sollevare. Se al contrario pacifismo significasse il rifiuto pregiudiziale dell'uso della forza legittima contro la violenza ingiusta, allora si renderebbe necessaria una spiegazione. Io rivendico con Prodi a questo governo di essere stato un governo pacifico come pochi altri, ma se non vogliamo giocare con le parole, resisterei a definirlo pacifista». L'altra questione riguardava alleanze e obblighi che ne derivano, «il riferimento stabile ai tre pilastri delle nostre alleanze internazionali: l'Onu, l'Unione europea e la Nato. Non ci possono essere incertezze, su nessuno dei tre. Né sugli impegni che discendono da questo quadro internazionale». Per cui, disse ancora, dal no all'ampliamento della base il problema nasce «se sottintende o si mescola a incertezze o pregiudiziali sul quadro di alleanze internazionali». Che non possono esserci.
Naturalmente non ci fu alcuna riflessione a riguardo. Il
governo riprese il suo cammino, rivivendo ogni sei mesi lo
psicodramma del voto sul rifinanziamento delle missioni, a
causa di quella in Afghanistan. Peraltro sempre superato.
«A sinistra», mi disse una volta Prodì, «non tengono conto
del contesto internazionale. Non si rendono conto che se si
vuole tenere l'impegno in Libano, va tenuto fermo quello
in Afghanistan.» Ma non era il caso di sovraccaricare un circuito già
surriscaldato aprendo una discussione sui temi che
Parisi sollevava. Resta il fatto, comunque, che i partiti moderati, per
definizione «patriottici» e vicini alle Forze Armate, tra il 2004 e il 2006
tagliarono drasticamente il bilancio
della Difesa riducendolo a 17.782 milioni nel 2006. Mentre
il governo dell'Unione, sorretto da forze per definizione
«antipatriottiche» e «nemiche dell'Occidente», con le due
Finanziarie portò gli stanziamenti a 21.132 milioni. Anche
su questo un po' di onestà intellettuale non guasterebbe.
E tuttavia una riflessione si impone, su questo e su altri temi, come quello della sicurezza per esempio, perché mi pare innegabile che quella sinistra arrivò al governo portandosi appresso troppa zavorra culturale, troppi schemi interpretativi datati, troppe lacune conoscitive. La reazione alla manifestazione del 9 giugno, in occasione della visita di Bush, induce però a ritenere improbabile che questo avvenga spontaneamente. Più facile che si continui ad adagiarsi su slogan e manicheismi che confortano senza impegnare. L'isolamento spinge in genere a arroccamenti identitari e involuzioni culturali più che a rielaborazioni dolorose. L'esito del congresso di Rifondazione, nel luglio 2008, ne è una conferma.
Una sollecitazione reale può prodursi solo se la sinistra
riformista impegna l'altra in un dialogo serrato, su questo e
altri temi. Un dialogo senza indulgenze ma non gratuitamente e sterilmente
polemico, all'interno di una riflessione
collegiale sulla esperienza vissuta assieme, che qualcuno dovrà decidersi a fare
in modi meno banali, superficiali e stupidamente liquidatori di quelli che hanno
prevalso nella campagna elettorale. E questo mi porta all'ultimo punto, il
senso della «separazione consensuale» che ha posto fine all'Unione.
Essa è stata praticata da ambedue le parti non come una opzione imposta da ragioni di opportunità e convenienza che potrebbero essere condivisibili in un'ottica elettoralistica, e comunque con il rammarico di aver fallito un'opportunità storica di maturazione e di crescita. Ma piuttosto come una divaricazione strategica, ricercata come una felice opportunità perché consente ad ambedue le componenti di essere sé stesse, sinistra radicale e sinistra riformista, inconciliabili, chi a coltivare l'antagonismo esimendosi dal pensarsi forza potenziale di governo, chi a inseguire in solitudine una vocazione che si vorrebbe maggioritaria ma rischia di essere, a lungo, minoritaria. Fino al punto di operare la scelta di svalutare in campagna elettorale di comune accordo i risultati dell'azione del governo di cui avevano fatto parte sino al giorno prima, nella convinzione bizzarra che svalutandoli si sarebbero accresciuti i consensi, ciascuno nel proprio elettorato di riferimento. Una scelta guidata dalla illusione che la divisione allargasse il campo più dell'unità.
In un certo senso quel modo di concepire la separazione
elettorale costituì la logica evoluzione del modo in cui venne vissuta
l'esperienza di governo. Senza l'orgoglio di un
progetto condiviso, senza il senso di una sfida anche culturale da raccogliere,
senza uno spirito di interlocuzione e
correzione reciproca alla ricerca di una sintesi costruttiva. E
invece in modo scambievolmente polemico, sbattendosi reciprocamente in faccia le
proprie posizioni con aria di sfida,
in cerca di piccole e anguste vittorie mentre si perdeva la
partita. Lavorando assiduamente prima alla distinzione tra
moderati e radicali, poi alla divisione e quindi alla contrapposizione. Come
vivamente auspicavano forze e poteri il cui
intento fu da subito di dimostrare l'impossibilità della convivenza, per negare
all'Unione il diritto a governare. «Nel
2006, unendo per la prima volta tutte le forze del centrosinistra», ha sostenuto
Parisi, «siamo riusciti a realizzare il
massimo della quantità e della estensione, ma non ad assicurare quella qualità e
quello spessore di cui aveva bisogno l'azione di governo. È stato un nostro
limite, di tutti. Mentre alcuni di noi pensavano però che quello fosse un
ritardo da contrastare e superare, altri hanno invece investito su
questo limite per un ritorno all'indietro.»
Una settimana prima del voto chiesi a Prodi che giudizio
desse di Veltroni. «Avendo scelto di dimenticare quindici
anni, si è comportato personalmente bene. Ma ha prodotto
una frattura che in quei termini non era necessaria. Il problema del recupero a
responsabilità di governo di componenti non governative, che era il senso in
un'ottica sistemica del progetto dell'Ulivo e di questo governo, non può essere
ignorato.» Quel problema resta. Per il centrosinistra,
se vuol tornare a essere alternativa competitiva. E per la democrazia italiana.
È il problema dello sviluppo di una vocazione e cultura di governo in tutta la
sinistra italiana, per effetto di un confronto serrato e una sollecitazione
costante di cui il Pd dovrebbe essere il più interessato promotore, visto che il
«nuovo conio» è solo un modo fantasioso di chiamare la sconfitta o di mascherare
una subalternità. C'è il rischio infatti di una condizione strutturalmente
minoritaria del Pd che ricrei una sorta di «bipartitismo imperfetto», ha
avvertito D'Alema in una intervista a «Liberazione» il 30 luglio 2008.
Imperfetto, perché senza reale capacità di assicurare l'alternanza al governo.
Tanto il tempo non mancherà.
Perché, mi disse Prodi chiudendo la riflessione, «quando
fallisce due volte lo sforzo di costruire una alternativa riformista, per molti
anni sarà verosimilmente impossibile tornare a governare».
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