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| << | < | > | >> |Pagina 13Il cielo sprofonda su Boston. Una nebbia fitta si stende sui viali della città, inghiotte le chiome degli alberi, le statue, i lampioni sospesi. Cala sull'asfalto e sul selciato, filtra nelle cantine, passa attraverso le grate delle fognature, fino a insinuarsi nei tunnel della metropolitana. Nelle strade l'aria è madida, i grattacieli scompaiono piano dopo piano in quell'opacità bagnata, muri, finestre e tetti si dissolvono nel grigio. Sul marciapiede i passanti camminano chini attraverso le nuvole scese a terra. Si asciugano i volti bagnati con fazzoletti e procedono cauti rasentando le vetrine dei negozi. La nebbia penetra ovunque, sotto l'ala dei cappelli, attraverso la stoffa dei vestiti, appanna le lenti degli occhiali. Assorbe i suoni rendendo la metropoli stranamente silenziosa: lo scalpiccio ritmico delle suole di cuoio, le finestre che sbattono, il vocio della gente, i motori delle auto, ogni rumore svanisce nella città accecata. Al ventunesimo piano della Custom House Tower, al 3 di McKinley Square, alle 16:01 esatte, William Sidis esce dall'ufficio contabile della Lynch & Co. Il vecchio e consunto cappotto non ancora abbottonato, il cappello sformato calcato sulla fronte, ha appena percorso esattamente quattro metri dalla porta che il suo dito scivola dietro il nodo della cravatta per allentarla un po'. Come sempre c'è coda agli ascensori, da ogni porta si riversano fuori impiegati. Gli uomini in soprabiti stretti con noncuranza in vita da una cintura e sigarette appena accese all'angolo della bocca, gli occhi socchiusi per il fumo come hanno visto fare ai divi del cinema. Le donne, per lo più segretarie e stenografe, in gonna e cappotti chiari da poco prezzo, lasciano una scia forte, troppo forte, di Persian Lamb, la fragranza di De Raymond di moda in America quell'anno. William detesta il Persian Lamb, l'invadenza della violetta che penetra gli occhi e opprime. Quando passa accanto a una donna che sa di Persian Lamb trattiene il respiro e accelera. Davanti agli ascensori è un brusio di voci, conversazioni leggere, frivole, scherzose sulla giornata, i colleghi, i capi, il sogno di comprarsi un giorno un'auto. Uno dopo l'altro i tre ascensori arrivano al piano, aprono le porte e divorano gli impiegati a grandi boccate. Tutti premono e spingono cercando di entrare prima che non ci sia più posto e le porte si richiudano con un gorgoglio meccanico inghiottendo il carico. Come ogni giorno William decide di prendere le scale. Con un certo rammarico, perché adora il risucchio dell'ascensore che scivola nel pozzo, il rumore degli ingranaggi e dei cavi, ma non sopporta l'idea di trovarsi chiuso li dentro con il rischio di incontrare i colleghi d'ufficio. Nell'ascensore sarebbe costretto a parlare con loro. Le scale sono una zona franca, di rado si fanno incontri, nessuno lo ferma per fargli domande: le domande che arrivano sempre dopo un po' in un nuovo posto di lavoro, sempre quelle, sempre le stesse. Non può rischiare di essere già scoperto. Ogni giorno di tutti i 20 giorni da che lavora alla Lynch & Co., William ha preso le scale, per tutti i 21 piani, 42 pianerottoli, 360 scalini. Gli piace la monotonia della discesa, la ritmica caduta controllata di gradino in gradino. Arrivato in fondo si ferma, precisamente davanti alla porta dell'atrio, allenta ancora un po' la cravatta. Si volta a guardare i gradini appena scesi: quante volte ha posato il piede su ognuno? 20 giorni per 360 gradini su e giù? Esattamente 14.400 gradini, ma non è del tutto giusto, manca il giorno del colloquio di assunzione con il signor Kowalski, anche allora ha preso le scale, per cui il totale esatto dev'essere 15.120 gradini. 20 giorni nello stesso posto di lavoro sono un buon risultato. Sono parecchi giorni senza domande, e gli piace lavorare alla Lynch & Co. Nessuno gli chiede niente, nessuno tranne il giovane Peterson che gli siede di fronte, ma Peterson è innocuo. 20 giorni. Con un po' di fortuna può conservare quel lavoro ancora a lungo. L'ultimo è durato 33 giorni. Era al sesto piano, in un edificio di 12 gradini per rampa, dunque 7.920 gradini per 33 giorni, vuol dire... fa un breve calcolo... vuol dire che finora alla Custom House Tower ha fatto il 52,38% di gradini in più rispetto al posto precedente, benché là sia riuscito a rimanerci il 65% di giorni in più. 33 giorni sono un buon risultato, ma è troppo poco. Deve imparare a tenersi un lavoro più a lungo. Se solo riuscisse a restare in un posto senza preoccupazioni, un posto dove lo lasciano in pace, dove non gli fanno domande, dove non si stupiscono di lui, dove non arriva mai quel mattino in cui, tutt'a un tratto, si leva uno strano mormorio nei corridoi al suo passaggio e tutti lo guardano con occhiate d'intesa facendosi cenni alle sue spalle e sussurrando: "È davvero lui, non è incredibile?" William apre la porta del grande atrio. Di solito si ferma un istante ad ammirare le colonne doriche sotto la cupola, ma oggi no, oggi ha da fare. Raggiunge la porta girevole insieme a un uomo con un abito impeccabilmente stirato, di sicuro un capoufficio. Si fermano entrambi, l'uomo gli lancia una breve occhiata, gli squadra i vestiti: il completo in tweed liso, le scarpe impolverate, il cappello sformato. Esitano entrambi. Chi ha il diritto di passare per primo? Chi ha il dovere di dare la precedenza? Che regola vale quando due uomini si trovano a uscire da una porta nello stesso momento? William cede il passo. "Dopo di lei", dice. Il capoufficio ringrazia con un cenno e prosegue. William entra nel vano seguente, spinge l'anta girevole e si chiede: se in un giorno anche solo un quarto dei 400.824 cittadini maschi di Boston, indipendentemente dall'età, cedesse il passo a un altro davanti a una porta, il che richiede, diciamo, tre secondi, avremmo un totale di 83,51 ore di gentilezza quotidiana. Così poco. Così tanto. | << | < | > | >> |Pagina 51Già salendo l'ultima rampa di scale del 145 di Central Park West Sarah Sidis si accorge del fracasso proveniente dal loro appartamento. Lo schianto di porcellane che si frantumano e cocci che volano a terra e si infrangono contro le pareti. Sente i rumori e il suo cuore comincia a battere sempre più veloce. Si ferma sulle scale, resta in ascolto, trattiene il respiro per captare ogni suono. Ora è sceso il silenzio, per lunghi secondi c'è una quiete assoluta, ma poi eccolo di nuovo: uno schianto seguito dallo stridio di cocci di porcellana che scivolano sul pavimento. Sarah ricorda quel suono, ricorda tutto. "No, no, no", sussurra. Una vampata di calore le infiamma il viso, si spande per tutto il corpo, comincia a sudare. Lascia andare la spesa, una bottiglia va in frantumi, il latte cola sui gradini. Sale di corsa gli ultimi scalini fino alla loro mansarda mentre i suoi pensieri tornano indietro, vede quegli uomini come se li avesse di fronte, li ricorda bene, i volti duri, la sporco delle mani, l'odore di alcol, il rumore di quando distrussero tutto nella loro casa. Ricorda la fuga attraverso i campi. Successe un giorno come tutti gli altri, un giorno qualsiasi, un normalissimo giorno nel precoce inverno ucraino del 1887. Il cielo è coperto, i campi sono cosparsi di brina ghiacciata, l'aria è limpida sopra la piccola casa della famiglia Mandelbaum, alla periferia del villaggio di Stara Constantin. Sarah ha tredici anni, sta a quattro zampe sul pavimento della cucina. È una bella ragazzina, nei lineamenti del viso si indovina già la donna che diventerà ma che ancora non è: smilza, dinoccolata, come un uccellino, per quanto temprata dai lavori domestici. Sarah strofina i pavimenti, sfrega le assi con movimenti sicuri finché lo straccio diventa nero, il legno luccica di acqua saponata e c'è odore di polvere bagnata, di sapone e di fresco, la semplice pulizia che lei ama. In cucina la sorella Ida prepara la cena. Mentre le due figlie maggiori sbrigano le dovute faccende, i genitori siedono uno accanto all'altra come tutte le sere contemplando il tramonto senza parlare. Il fratello più grande, Henry, l'unico dei figli ad andare a scuola, sta studiando al tavolo sotto il quale giocano i piccoli. La madre si è appena attaccata l'ultimo nato al seno quando fuori si sentono delle voci. Il padre si alza ed esce. Il resto della famiglia interrompe quello che sta facendo per vedere chi è arrivato. Attraverso la finestra Sarah vede il padre sulla veranda. Sta parlando con qualcuno. "Chi è?" chiede, ma la madre la zittisce e Sarah capisce che sono estranei. Non è una conversazione normale: gli sconosciuti parlano a voce troppo alta, anche il padre la alza, il dialogo si trasforma in lite, le voci si fanno dure, si trasformano in urla. Sarah sente il padre gridare agli sconosciuti di andarsene, ripeterlo più volte, ma nella sua voce c'è un tremito che non aveva mai sentito, le parole si spezzano prima di lasciare le labbra. Gli sconosciuti ridono sprezzanti. Sente qualcuno salire i cinque scalini della veranda e vede ora che sono quattro uomini dai volti rozzi e barbuti, gli occhi fissi e lucidi di sbornia, non li ha mai visti, non sono di Stara Constantin. Uno fa un passo verso il padre. All'inizio Sarah pensa che sia inciampato, ma all'improvviso lo vede alzare le braccia e dare una violenta spinta al padre sul petto. Il padre cade all'indietro battendo forte la schiena contro lo stipite della porta, tutti dentro sentono il tonfo e le pareti di legno tremare, poi si affloscia sul pavimento della veranda. Gli sconosciuti ridono mentre cerca di rialzarsi, uno tira fuori una bottiglia di vodka, ne beve un sorso e la passa agli altri. Sarah trema in tutto il corpo. Nessuno ha mai trattato suo padre in quel modo, tutti a Stara Constantin rispettano Bernard Mandelbaum, anche se è solo un ebreo. "Chi sono, mamma?" chiede, senza ottenere risposta. I fratellini hanno cominciato a piangere, corrono dalla madre e si aggrappano a lei. "Prendete i piccoli", sussurra la madre. Il volto di Harry è innaturalmente bianco. Sarah e Ida portano i bambini in cucina, li prendono in braccio e li cullano cercando di farli smettere di piangere. Fuori il padre si è rimesso in piedi, ha afferrato un forcone che era appoggiato al muro e lo tiene davanti a sé minacciando gli sconosciuti. Si volta e grida alla famiglia: "Scappate! Scappate!" Cerca di colpire gli uomini, ma quelli ridono, gli ridono in faccia. All'improvviso due gli si scagliano contro, uno afferra il forcone e glielo strappa di mano. Arrivano anche gli altri, lo ributtano a terra e tutti e quattro cominciano a prenderlo a calci in faccia e sul corpo. "Scappate! Via!" grida il padre. Attraverso la porta aperta della cucina Sarah vede il padre steso a terra sulla veranda, vede il sangue, vede che con un calcio gli hanno staccato un incisivo. Dal naso rotto il sangue cola sulla guancia, sulle assi della veranda. E all'improvviso tutto accade molto velocemente. Uno degli uomini fa irruzione in casa, è così ubriaco che vacilla, li guarda e afferra Harry, lo spinge a terra e comincia a prenderlo a calci. Harry non ha mai fatto a botte, si raggomitola, si protegge il viso con le mani mentre le punte degli stivali lo colpiscono al petto. "Lascialo stare, lascialo stare, è solo un bambino", grida la madre, ma l'uomo si volta e la colpisce con violenza al viso. Lei continua a gridargli di smetterla, stringendo a sé il neonato. "Zitta, puttana!" grida l'uomo colpendola di nuovo, sempre più forte, finché lei ammutolisce, si affloscia sul pavimento, lui la prende a calci, ma è già priva di conoscenza. L'uomo si china e prende il neonato che sta piangendo. Osserva un istante il suo viso. Poi lo scaglia a terra. Sarah vede tutto dalla cucina, sente il tonfo della sorellina sul pavimento. Ora non piange più. Di colpo c'è un silenzio assoluto dentro di lei, riesce a sentire il battito del suo cuore, tum, tum, tum. Si guarda intorno, dove fino a pochi minuti prima c'era la loro pacifica casa, vede la madre svenuta, il corpicino della sorella rattrappito a terra per il violento urto, il padre ancora steso fuori mentre uno degli uomini continua a calciarlo. Gli altri due ora entrano in soggiorno, sente il puzzo di sudore dei loro corpi, il loro fiato. Sembrano barcollare sotto l'effetto della vodka che hanno posato sul tavolo, continuano a bere. Aprono gli armadi, rovesciano tutto quello che trovano: biancheria, vasi di farina, sapone, i barattoli del tè e il samovar di rame, regalo di nozze dei nonni paterni. Rovesciano le porcellane dalle mensole e le scagliano sul pavimento. Ogni tazza, ogni piatto, uno schianto dopo l'altro. Frammenti di porcellana scivolano su tutto il pavimento. Sarah vede Harry rimettersi in piedi, entrare vacillando in cucina, e all'improvviso sa cosa devono fare. Apre la porta della cucina e spinge fuori Ida e i tre piccoli. "Adesso dobbiamo correre più veloce che possiamo", sussurra prendendo in braccio un fratellino, Harry le raggiunge, prende gli altri due piccoli e si mettono a correre, via, attraverso i campi coperti di neve, via, lontano dalla loro casa e da quegli sconosciuti. No, no, no, pensa Sarah facendo gli ultimi scalini con un solo balzo. Tira la porta, ma non si apre. All'inizio non sa che fare, rimane a fissarla finché non ricorda la chiave. Le mani le tremano tanto che fatica ad aprire la borsa. Si sforza di controllarsi, trova la chiave, la tende verso la serratura, ma manca il bersaglio, prova di nuovo e sbaglia ancora, finalmente riesce a infilarla. La chiave scivola nella serratura e nel momento stesso in cui apre la porta sente un nuovo schianto. Corre in cucina. Si ferma ansimante. Vede Boris seduto al tavolino. Nel seggiolone accanto c'è il piccolo William che sta ridendo. Il pavimento è cosparso di cocci di porcellana. Boris la guarda sorpreso. "Che... che sta succedendo... qui?" ansima Sarah. "Sto insegnando a Billy a bere dalla tazza", risponde Boris. "Sì ma... tutto questo... è tutto distrutto?!" Sarah fa un gesto per indicare la distesa di cocci. "Deve imparare, costi quel che costi. Lanciando le tazze impara, se le getta via non potrà bere. Col tempo capirà che gettare le tazze è inopportuno se vuole il suo latte." Boris prende una tazza dalla credenza, la riempie e la porge al bambino. William l'afferra impaziente e comincia ad agitarla versandosi il latte addosso. Fa per gettarla a terra quando la madre gliela strappa di mano con tale forza che il piccolo si spaventa e scoppia a piangere. "Ma Sarah..." esclama Boris. Rimettendo la tazza sulla credenza, Sarah è sopraffatta da un paralizzante senso di paura, sollievo e rabbia. "Sarah, adesso l'hai spaventato, non è in grado di capire la tua rabbia."
Lei resta immobile a fissare la credenza, non
può voltarsi verso il marito in quel momento,
guarda la piccola tazza d'argento che William
ha ricevuto in dono per il battesimo. Le parole incise:
"Boris..." "Guarda come l'hai rattristato!" Ma Sarah non riesce a occuparsi del pianto di William ora, si gira, prende la scopa in un angolo, comincia a ripulire il pavimento. Boris osserva i suoi gesti rigidi, si alza, guarda William. "Imparerà." Lei continua a spazzare, con movimenti lunghi e decisi, i cocci si raccolgono in mucchietti mescolandosi alla polvere. Piccole scaglie bianche sono rimaste conficcate nel pavimento. Si volta verso il marito. "Lo sai benissimo che non possiamo permetterci delle tazze nuove!" Sente la propria voce riempire la minuscola cucina. Ha gridato. William la fissa dal suo seggiolone e ricomincia a piangere. Boris guarda il figlio in lacrime, la moglie, e si ritira nel suo studio. | << | < | > | >> |Pagina 104La luce del mattino scende su Thompson Street. I muri sono fiancheggiati da bidoni dell'immondizia, molti sono rovesciati a terra e la spazzatura è sparsa su tutto il marciapiede. Sarah deve spingere più volte il passeggino sul selciato ghiaioso della strada per passare. La puzza, acre, insopportabile, si mescola all'odore delle verdure dei venditori ambulanti, delle cucine delle case, degli escrementi dei cavalli. Da una finestra arriva il canto di un tenore attraverso il suono gracchiante di un grammofono, da un'altra echi di risa sguaiate. William nel passeggino si tappa il naso. Un vecchio tende la mano chiedendo l'elemosina ai passanti, puzza di urina e alcol, Sarah spinge oltre il passeggino. Dopo l'incrocio con Prince Street William vede un uomo e una donna chini sui bidoni della spazzatura. Lei tira fuori un sacchetto e ne esamina il contenuto, lo annusa, stacca un pezzo da qualcosa che assomiglia a una patata e lo mette in bocca a un bambino non più grande di lui. William osserva il piccolo masticare il boccone, gli sembra di sentirne il sapore in bocca, di terra, di marcio. Gli viene da vomitare. Perché quella donna dà al figlio del cibo trovato nella spazzatura? Lo sa che è cattivo. Nello stesso istante sente un ringhio feroce da dietro un bidone, poi vede un lampo di pelo e denti: un grosso cane nero gli sta balzando addosso. William grida di terrore. L'uomo si volta, si getta sul cane afferrandolo un istante prima che raggiunga il bambino, William si trova davanti i suoi denti scoperti, le gengive nere, bagnate di saliva, l'odore di carne delle sue fauci, l'odore di cane e di sangue, di steli di fiori marciti nell'acqua. "A cuccia!" grida l'uomo, e il cane torna trotterellando al suo posto, dietro il bidone. "Mi scusi, signora", si rivolge poi a Sarah, che sta ancora tremando per lo spavento. Il volto dell'uomo è unto di fuliggine, sporcizia, grasso, i capelli sono incollati alla testa, lunghi come quelli di una donna, ma più sottili. Sarah spinge oltre il passeggino, via da quella famiglia e dal cane, via, presto, finché arriva in Washington Square Park. Si siede su una panchina a riprendere fiato. "Dannato cagnaccio! Vorrei che li ammazzassero tutti, i cani di New York." William ripensa al cane, all'odore delle sue fauci, e poi di nuovo al bambino che mangiava la patata presa dalla spazzatura. "Il bambino mangia una patata dall'immondizia", dice. "Sì, che schifo", sussurra Sarah. "Perché la mangia?" "C'è gente costretta a mangiare gli avanzi degli altri perché non ha soldi." "Perché non ha soldi?" "Perché non ha un lavoro." "Perché non ha un lavoro?" "Non lo so, Billy." "Poverino. Non possiamo dargli qualcosa da mangiare?" "Vuoi tornare da quel cane? No, Billy, è responsabilità dei suoi genitori, devono darsi da fare e trovarsi un lavoro, come facciamo noi, e prendersi cura di loro figlio." Si alza e ricomincia a spingere il passeggino, esce dal parco e si dirige verso Broadway. | << | < | > | >> |Pagina 205"A dire il vero non si sa, ma di fatto è andata così. Forse in quel momento Andros sapeva già che re Giacomo era caduto e che non sarebbe servito a niente cominciare una guerra con la popolazione.""E che ne è stato del Campione grigio?" "I rivoltosi naturalmente esultarono per la vittoria e volevano acclamare il vecchio, ma era già scomparso. Molti giurarono di averlo visto svanire, dissolversi nell'ombra." "Ma hai detto che è rispuntato in altri momenti." "Sì, è per questo che la faccenda si fa misteriosa, perché secondo molte testimonianze fu visto nel corso di diverse rivolte. Si dice che sia riapparso quando a essere in gioco era la libertà del New England, e poi nel 1770 durante il cosiddetto massacro di Boston, e in varie altre occasioni successive. Pare addirittura che sia stato visto a una finestra di Park Square durante i tumulti contro la coscrizione obbligatoria qui a Boston lo scorso anno." "Non mi convince, William. È una bella storia, ma come hai detto, si tratta di una leggenda." "Sì, ma fu comunque una rivoluzione pacifica. Sono convinto che le rivoluzioni si possano fare senza ricorrere alla violenza, attraverso la democrazia." Martha scuote la testa. "In questo paese non ci può essere una rivoluzione senza l'uso della violenza, non possiamo restare ad aspettare la democrazia così, con le mani in mano. Lenin ha detto che la violenza è necessaria. Se ricordo bene disse che se il socialismo si potrà introdurre soltanto quando lo permetterà lo sviluppo intellettuale del popolo, non lo vedremo prima di cinquecento anni." "Forse no. Ma vorresti un socialismo costruito sulla forza bruta? Non sarebbe semplicemente ripetere quello che stanno facendo oggi il governo e il capitalismo?" "William, non verrà nessun campione grigio a salvarci dai fondi fiduciari e dai politici corrotti. Se vogliamo costruire il socialismo negli Stati Uniti, non possiamo che ricorrere alla forza", insiste Martha. "Non parteciperò mai a una battaglia fisica. Non serve a niente. Pensa a com'è finita con il dodo." "Il dodo?" "Il dodo era un uccello che viveva nell'isola di Mauritius fino alla fine del 1600. Era alto poco meno di un metro ed era noto per essere particolarmente impavido e aggressivo. Quando si trovava di fronte a uomini armati di mazze, non si nascondeva né cercava di fuggire, ma andava dritto all'attacco. Il risultato è che si è estinto." "Che cos'è meglio allora? Nascondersi come una lepre?" "Sì. Io credo che valga la pena nascondersi e darsi da fare per raggiungere lo scopo con mezzi pacifici." "E come ti difendi da uno che ti attacca?" "Evitando di rispondere alla violenza. Devi risalire più a monte nel processo. Anticipare l'attacco." "Che vuoi dire?" "Chi non ha intenzioni bellicose influenza l'ambiente che lo circonda. La Pennsylvania è stata fondata da diverse sette pacifiste come i quaccheri, che si rifiutavano di prendere parte a qualsiasi tipo di guerra. Nei primi anni la colonia non ebbe un esercito, e a quanto pare non venne attaccata dagli indiani. Anzi, le sue intenzioni pacifiste le valsero il rispetto delle tribù. Le colonie che arrivarono con i soldati negli altri stati provocarono le tribù indiane e si arrivò alle sanguinose guerre che tutti conosciamo." "William, tu sei un sognatore", dice Martha e senza preavviso si getta tra le sue braccia e lo bacia. Quando stacca le labbra dalle sue, lo guarda con un sorriso malizioso. "Baci come un amante esperto! Dove hai imparato?" "Perché sei così sorpresa?" "Non so, pensavo che forse non..." "Perché fatichi a credere che la cosa mi venga naturale come agli altri uomini?" "Non intendevo dire questo." "L'ho fatto e basta, è una cosa innata." "No, credimi, non è una cosa che sanno fare tutti." "Non ho mai baciato nessuno prima." "Lo so." Martha gli prende la mano. "Continuiamo la passeggiata?" | << | < | > | >> |Pagina 244Si radunano all'ombra della Dudlev Street Opera House. William arriva presto e lí vede arrivare da tutti i quartieri di Roxbury. La maggior parte è originaria dell'Europa dell'Est, lettoni, russi, polacchi, estoni, ma ci sono anche numerosi italiani, irlandesi e tedeschi. Molti uomini sono in camicia rossa o si sono legati un nastro rosso al braccio. Le donne hanno vestiti o gonne rosse. Anche William si è messo un fazzoletto rosso al collo e ha fissato uno scialle in tinta di Sarah a un'asta come vessillo. Sono in molti a portare bandiere. Sulla strada per raggiungere il teatro le hanno tenute discretamente arrotolate, ma una volta arrivati le hanno spiegate tra le grida di trionfo della folla. Mezz'ora prima dell'appuntamento sono già duecento, poi trecento e in poco tempo diventano cinquecento. A mano a mano che il loro numero aumenta c'è un cambiamento impercettibile nell'atmosfera. Le voci isolate diventano parte di un fragore, tutti lo sentono, quel crescendo, quel diventare qualcosa più grande di sé, dal singolo a un gruppo, un movimento. È il grande giorno! William non prende parte al clamore generale. Si appoggia al muro ad aspettare. La gente intorno a lui si abbraccia e ride sguaiata, molti piangono. Martha si fa strada tra la folla. La vede subito. Una donna alta e massiccia l'abbraccia e ridono insieme. Ha un attillato vestito rosso e si è tinta di rosso anche le labbra. Si avvicina a William e lo bacia sulla bocca. "William!" grida. "Siamo così tanti! Tantissimi!" "Sì", risponde lui vedendo che anche Martha è rapita da quell'ebbrezza. "È fantastico! Lo sapevo, lo sapevo che sarebbe successo, la gente si sta riunendo!" Ma all'improvviso William è triste. Perché non riesce a sentire quello che sentono gli altri? Perché non è trascinato dalle grida e dalla gioia come tutti gli altri? Che cosa penserebbe Martha se si accorgesse che non riesce a provare quell'entusiasmo? Sarebbe delusa da lui? Un gruppo di dimostranti poco lontano da loro ha cominciato a gridare: "Al diavolo il permesso! Al diavolo il permesso!" "Non è fantastico?" grida Martha. "Non possono fermarci, non ci serve il loro permesso. Al diavolo." "Al diavolo il permesso! Al diavolo il permesso!" gridano ora centinaia di manifestanti. | << | < | > | >> |Pagina 251Il corteo comincia a marciare in direzione di Main Street. "Per un'America socialista e giusta!" gridano i dimostranti. Martha si unisce al coro: "Per un'America socialista! Andiamo, William!" William alza la sua bandiera con lo scialle di Sarah e marcia accanto a Martha in coda al corteo. Avanzano lenti, più di cinquecento paia di scarpe battono il selciato. "Per un'America socialista e giusta!" I passanti cominciano a fermarsi lungo il marciapiede guardando stupiti quel rosso serpentone umano, i commercianti escono dai loro negozi, le finestre della via si aprono. "Venite, unitevi, è l'alba di un nuovo giorno in America!" gridano i dimostranti agitando le mani dalla strada. È per il popolo che stanno marciando, ma il popolo non ricambia il saluto. Un uomo sputa sul marciapiede davanti a sé. "Bolscevichi!" sibila. Cinque apprendisti falegnami attratti dal frastuono escono da un'officina. Guardano il corteo e poco dopo rientrano. Quando riappaiono hanno con sé tre pesanti sacchi. Li posano a terra, vi affondano le mani tirando fuori manciate di segatura e cominciano a gettarla contro i manifestanti. La segatura si posa come polvere sugli scialli e sulle camicie rosse. A William ne entra un po' in un occhio. Due dei più giovani rompono le righe per lanciarsi sui provocatori, ma i più vecchi li trattengono. Sul corteo continua a cadere segatura come una pioggia di polvere. La reazione degli apprendisti incoraggia gli altri spettatori. "Via dall'America, porci rossi!" grida un uomo, seguito da molti altri:
"Tornate in Russia porci rossi! Sparite traditori! Maledetti traditori!
Porci! Porci! Porci!"
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