Copertina
Autore Angelo Brelich
Titolo Tabù, miti e società
SottotitoloEconomia e religione nell'analisi delle culture
EdizioneDedalo, Bari, 2007, La scienza nuova 135 , pag. 112, cop.fle.sov., dim. 14x21x1 cm , Isbn 978-88-220-0235-8
CuratoreColette Nieri
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe religione , etnografia , etnologia , mitologia
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Indice

Prefazione                                     5
di Colette Nieri

Introduzione                                   7
di Colette Nieri


ECONOMIA E RELIGIONE

Capitolo primo
Introduzione al problema                      31

Capitolo secondo
I tabu dei Boscimani                          37

Capitolo terzo
Gli spiriti dei morti nelle isole Trobriand   51

Capitolo quarto
Considerazioni                                63

Capitolo quinto
L'origine delle religioni politeistiche       69

Appendice
I miti dei Boscimani                          97

Nota bibliografica                           105

Indice dei nomi                              109

 

 

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Capitolo primo

Introduzione al problema


Dei rapporti tra economia e religione più frequentemente si sono occupati, almeno in linea di teoria, economisti e sociologi, che non storici delle religioni. Anche negli studi su singole religioni il problema spesso è completamente ignorato, altre volte viene esaminato limitatamente a un aspetto di dettaglio o, invece, prospettato conformemente a qualche teoria generale formulata al di fuori del campo storico-religioso. Certo, anche la pura e semplice applicazione di simili teorie può riuscire di qualche utilità negli studi storico-religiosi, in quanto inevitabilmente addita certi aspetti delle religioni e della loro storia, che troppo facilmente sfuggono all'attenzione di chi creda di poter indagare i fenomeni religiosi come un mondo chiuso in sé, autosufficiente e indipendente dall'esistenza profana. Così il marxismo, a parte ogni giudizio sulla validità, con la sua presenza nella cultura contemporanea sta abituando gli studiosi a tener presente almeno l'eventualità che dietro a una storia religiosa agiscano determinati fattori economici. K. Marx (1818-1883) e F. Engels , suo amico e collaboratore, impegnati in un'opera tesa alla trasformazione radicale della società, si interessavano naturalmente soprattutto alla religione dominante nel mondo occidentale moderno, cioè al cristianesimo. Secondo loro, infatti, la religione di una società divisa in classi rappresenta gli interessi della classe dominante e, perciò, è un ostacolo sulla via dell'emancipazione delle classi oppresse. Ma l'idea della necessaria scomparsa del cristianesimo in conseguenza della trasformazione economico-sociale da loro preconizzata, li poneva davanti al problema storico delle origini della situazione moderna, cioè del predominio della religione cristiana. Questo problema li spinse a interpretare l'intera storia religiosa europea. Dato il loro interesse principale, le loro analisi sono più dettagliate per i periodi relativamente recenti (per esempio, per quelli della rivoluzione francese, di quella inglese e, ancora, della riforma) che non per le epoche più remote; ancora per le origini del cristianesimo e per la sua trasformazione da movimento dal basso in religione di stato, soprattutto Engels ha compiuto indagini attente; molto più sommarie appaiono invece le osservazioni dei fondatori del marxismo sulle religioni «nazionali» dell'antichità. Poiché, nello spirito del nascente evoluzionismo storico, essi – tra i primi! – come più tardi intere generazioni di studiosi, credevano di poter trarre lumi per le epoche preistoriche dalle condizioni dei c.d. popoli primitivi attuali (nonché delle popolazioni contadine tradizionali) rivolgevano la loro attenzione anche verso quanto, nella loro epoca, si poteva sapere delle religioni «primitive»: solo che questo era poco e mal compreso. I contributi personali di Marx ed Engels alla storia delle religioni si limitano, dunque, sostanzialmente alla storia del cristianesimo.

Scegliamo solo un esempio per mostrare, brevemente, come per Marx ed Engels, certi fatti in apparenza puramente religiosi possano dipendere da fattori economico-sociali. Θ noto che tra le esigenze religiose che dal tardo medioevo compaiono in diversi movimenti ereticali e che in parte verranno assorbite nella riforma, figurano per esempio, quelle della comunione sotto le due specie (pane e vino), della volgarizzazione della Bibbia, dell'organizzazione interna autonoma delle comunità religiose, ecc. Ora, non bisogna dimenticare che si trattava di un'epoca in cui era nata da poco una classe sociale (la borghesia delle città medievali) che ora doveva lottare contro il sistema feudale e i privilegi dei suoi rappresentanti. Poiché la Chiesa di allora – essa stessa potenza feudale e modellata sul feudalesimo anche nella sua organizzazione gerarchica e «monarchica» (papale) – faceva parte dell'intero sistema dominante, la nuova classe si trovava in contrasto con essa e ciò determinava anche il suo orientamento religioso e la sua posizione nei riguardi delle dottrine e istituzioni ecclesiastiche. Si trattava, da una parte, di sottrarsi, nella vita religiosa, all'ingerenza dell'autorità centrale (a questa tendenza risalirebbero anche le fondazioni di nuovi ordini monastici, oltre che i movimenti che preludono alle forme future del congregazionalismo e dell'episcopalismo) e, d'altra parte, di demolire i privilegi che la Chiesa riservava ai suoi rappresentanti ufficiali (così la comunione sotto le due specie ai preti, la lettura della Scrittura Sacra alle classi istruite, ecc.). In questa prospettiva s'inquadrano anche i sempre più frequenti richiami al cristianesimo primitivo, alla comunità apostolica che osservava una comunanza di beni, ecc.

Ma essi hanno inaugurato un metodo d'indagine che può essere impiegato nei settori più vari della storia delle religioni; esso potrà diventare tanto più fecondo quanto più saprà emanciparsi a quanto nelle concrete interpretazioni storiche di Marx e di Engels era determinato dallo stato arretrato degli studi nella loro epoca.

Anche a un'altra teoria generale possiamo attribuire soprattutto il merito di indicare un diverso campo di ricerche. Max Weber (1864-1920) è diventato celebre con il suo primo lavoro dedicato ai rapporti tra economia e religione, quello in cui ha cercato di mostrare come i presupposti del capitalismo europeo vadano individuati in un sistema di valori imposto all'opinione pubblica dal protestantesimo calvinista.

Secondo il calvinismo la nostra salvezza non dipende dai nostri meriti, bensì dalla grazia che Dio concede, a suo arbitrio, ai suoi eletti; nessuno può sapere se sia tra questi, ma tutti devono ugualmente ubbidire ai comandamenti divini. Perciò i predicatori calvinisti scoraggiano la vita contemplativa (tesa all'inutile tentativo di un perfezionamento interiore), insistendo sulla vita attiva nell'incessante adempimento ai doveri quotidiani. Prova della giusta attività è la sua efficacia, cioè il rendimento: il guadagno che, però, naturalmente non è fatto per essere «goduto». L'uomo, anzi, non soltanto non deve indulgere ai piaceri, ma neanche alla vita di società: anche qualsiasi attaccamento a persone (che possono essere tra i «dannati») veniva sconsigliato. Era una specie di «ascetismo mondano», fondato sul lavoro fine a se stesso, ciò che derivava da queste premesse religiose; passato dalla sfera religiosa a quella della mentalità di massa, esso provocava tutt'un sistema di valori tacitamente accettati («il dovere sopra tutto», «l'onesto lavoratore», ecc.), opposti a quelli che erano prevalsi prima (per esempio, il disprezzo dei beni materiali oppure la loro ricerca a fini edonistici). Con ciò si è creato il terreno favorevole per l'organizzazione razionale del lavoro che è alla base del capitalismo occidentale.

Weber era interessato, appunto, soprattutto alle origini del capitalismo occidentale; i suoi saggi religiosi sulla storia dell'India e della Cina gli servivano da controprova della sua tesi: in essi egli cercava di spiegarsi perché in mondi religiosi diversi da quello euro-americano non sia sorto nulla di simile al capitalismo. Naturalmente, Weber si rendeva conto che il calvinismo aveva avuto i suoi presupposti nello svolgimento culturale europeo, ed egli li ricercava studiando sia la formazione delle città medievali, sia, più lontano ancora, i contributi spirituali che il giudaismo aveva dato alla formazione della civiltà esclusivamente occidentale, il cui più recente frutto era il sistema capitalistico.

Da un lato, dunque, il marxismo porta a scoprire le origini economiche dei fatti religiosi, dall'altro, l'indirizzo weberiano porta a individuare i presupposti religiosi dei fatti economici. Tra le due teorie non vi è una necessaria contraddizione, anche se nelle loro applicazioni si sono talvolta inseriti elementi polemici: anche i marxisti tengono presente che una religione, una volta costituitasi quale risultante del gioco di forze economiche, può a sua volta svolgere un'azione nel campo economico (non fosse che – per il periodo che soprattutto interessava Marx – come strumento conservatore di privilegi); né Weber escludeva minimamente i fattori economici nella formazione di quelle categorie sociali (Stδnde, distinte dalle «classi» puramente economiche, in quanto caratterizzate, ciascuna, da una propria ideologia) che, una volta costituite, imponevano i loro particolari sistemi di valori d'origine religiosa all'intera società (come i «letterati-burocrati» dell'antica Cina o i bramani in India). Più che vedere, perciò, in essi due teorie «opposte», noi considereremo il marxismo e il weberismo come due metodi euristici preziosi per l'indagine storico-religiosa. Gli storici delle religioni non dovrebbero ignorarli, né d'altra parte limitarsi a una loro applicazione pura e semplice ma, tenendoli presenti, essi potrebbero – con la loro specializzazione che mancava ai grandi economisti – contribuire a un più preciso intendimento dei rapporti tra economia e religione.

L'argomento, a ogni modo, non è d'importanza marginale. L'attenzione ad esso sarebbe, intanto, un salutare antidoto contro certe tendenze a considerare le religioni e i fenomeni religiosi avulsi dalla storia. Θ vero che negli studi moderni sta scomparendo – sebbene non sia completamente scomparsa – l'inclinazione, d'origine teologica, a voler giudicare le religioni dal punto di vista di valori o verità concepiti come «obbiettivi»; ma è fortemente in voga un'altra, quasi altrettanto anti-storica: quella di vedere nei fenomeni religiosi fatti «generalmente umani», radicati, cioè, nella presunta «natura umana». I rappresentanti di questa tendenza, soprattutto i «fenomenologi» delle religioni, anche ove ammettano una variabilità dei fenomeni religiosi, condizionata da fattori storici, considerano le strutture fondamentali di tali fenomeni come permanenti, universali e perciò indipendenti dalla storia. Ora, è chiaro che nei limiti in cui si riesca a individuare il nesso tra fenomeni religiosi e concrete situazioni economiche, si riconduce il fatto religioso nell'ambito della storia. Naturalmente, a simili ricerche si presta soprattutto lo studio di singole religioni sullo sfondo della storia di singoli popoli o civiltà. Questo fatto, tuttavia, minaccia di un'altra limitazione la storia delle religioni come disciplina organica che non deve essere la semplice somma di singole storie religiose. La possibilità di una storia delle religioni si fonda sull'unità della storia (e non della «natura») umana, e di quest'unica storia umana fanno parte anche le varie forme economiche che essa ha prodotto: donde l'esigenza di arrivare a una teoria generale dei rapporti tra economia e religione. Esigenza che oggi – nella scarsità degli studi storico-religiosi condotti in quella direzione – probabilmente non potrebbe ancora esser soddisfatta. Ciò che si può fare, e sembra opportuno fare, è di avviare i lavori preliminari che possano chiarire almeno aspetti parziali del problema.

Nel breve corso di cui i presenti appunti fissano alcuni risultati non si sono potuti tentare che alcuni sondaggi isolati in vista di una problematica vasta e complessa.

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Capitolo secondo

I tabu dei Boscimani


Come primo esempio scegliamo la religione di un popolo la cui economia è tra le più rudimentali che esistano nel mondo. I Boscimani sono popolazioni non-negre (linguisticamente e antropologicamente affini agli Ottentotti) dell'Africa sud-occidentale, oggi viventi quasi esclusivamente nel deserto di Kalahari in numero assai ridotto, ma frazionate in molte tribù a loro volta frazionate in un gran numero di piccoli gruppi (12-60 individui) sostanzialmente autonomi. Più anticamente i Boscimani, molto più numerosi, occupavano larghe aree della regione sud-africana, ma ne vennero gradualmente respinti per opera di popoli negri tecnologicamente più progrediti (coltivatori e allevatori, mentre i Boscimani vivono esclusivamente di caccia e raccolta). Alle inclementi condizioni di vita nel deserto si aggiunse poi l'azione di sterminio sistematicamente condotta contro di loro dai colonizzatori bianchi (olandesi), portandoli sulla soglia dell'estinzione totale.

Bisogna subito dire che nella scelta di quest'esempio prescindiamo completamente da ogni ipotetico raffronto tra le forme d'esistenza e di cultura dei popoli di una lontana preistoria. Θ stato detto che – a differenza di ogni altra trasformazione culturale (di istituzioni sociali, di stili artistici, di forme di religione o di morale, ecc.) – la trasformazione economica è sempre progressiva e irreversibile: le conquiste, una volta raggiunte, non si abbandonano più, a meno che non vengano sostituite da ulteriori conquiste più avanzate; una società che abbia imparato a coltivare la terra può anche continuare a praticare la caccia e la raccolta di vegetali selvatici, ma non farà più di queste la sua unica attività economica; una società che sia passata alla cerealicoltura non tornerà più alla sola coltivazione di ortaggi; e una società industrializzata non potrà più accontentarsi delle forme di produzione su scala artigiana. Per il campo economico e tecnologico varrebbe, dunque, in pieno la teoria dell'evoluzionismo storico che in tutti gli altri campi si è dimostrata errata. Perciò i sistemi economici degli attuali popoli primitivi corrisponderebbero effettivamente a quelli dei popoli preistorici. Ciò è certamente esatto per le grandi linee di sviluppo. Ma mentre, per esempio, è completamente fuori dubbio che nelle prime centinaia di millenni della sua esistenza l'intera umanità viveva solo di caccia e raccolta, ignorando ogni altra forma di sussistenza, ciò non vuol dire che noi possiamo conoscere con precisione i sistemi economici dei vari gruppi umani nelle varie epoche preistoriche in base all'osservazione dei popoli che tuttora vivono esclusivamente di caccia e raccolta: infatti anche questi – pur sempre nei comuni limiti dell'ignoranza di ogni produzione alimentare – si differenziano tra di loro notevolmente dal punto di vista dell'organizzazione economica. Non è difficile capire che, per esempio, i fattori ambientali – la diversità, oltre che la minore o maggiore ricchezza, della fauna e della vegetazione, la diversità del clima e delle ricorrenze stagionali di importanti fenomeni meteorologici – possono determinare differenti comportamenti economici anche presso popoli ugualmente rimasti al livello della caccia e della raccolta; neanche dal solo punto di vista economico (cioè di acquisizione, distribuzione e consumo dei beni) i cacciatori artici (per esempio, Eschimesi) potranno vivere alla stessa maniera dei cacciatori delle giungle tropicali (per esempio, Pigmei del Congo), o di quelli delle steppe, delle savane, del deserto. Allo stesso modo i sistemi economici delle genti preistoriche dipendevano dalle condizioni differenti dei luoghi e dei periodi climatici. Inoltre, anche fattori propriamente storici influivano già nel più remoto passato sul comportamento economico dei gruppi umani (migrazioni in ambienti differenti, contatti con gruppi di diversa provenienza e perciò di diversa esperienza economica, ecc.) e a maggior ragione influiscono su quello dei popoli primitivi attuali che in nessun caso sono rimasti completamente isolati da altri popoli, tra cui – a differenza di quanto avveniva in epoca paleolitica – anche popoli viventi in forme economiche più progredite.

L'esempio dei Boscimani, anzi, è particolarmente adatto a mostrare come l'estrema arretratezza economica di un popolo primitivo attuale possa non riflettere affatto condizioni preistoriche: nel caso dei Boscimani, infatti, circostanze storiche hanno provocato un impoverimento economico (oltre che, probabilmente, culturale); la loro esistenza in territori molto più ricchi di vegetazione e di selvaggina, pochi secoli or sono doveva esser molto diversa da quella degli sparuti gruppi che oggi si consumano nell'incessante lotta per la sopravvivenza. In secondo luogo, tutti i gruppi boscimani, senza eccezione, risentono in una certa misura del contatto con altri popoli (compresi i bianchi). Esistono casi in cui questi contatti hanno provocato una trasformazione radicale dell'economia di certi gruppi: i Boscimani O'Kung dell'Angola – vero caso-limite – hanno perfino abbandonato la raccolta dei vegetali selvatici, perché hanno la possibilità di procurarsi i prodotti coltivati dei vicini negri in cambio di selvaggina; questa possibilità, a sua volta, ha favorito la formazione nel seno del gruppo di una vera e propria classe di commercianti che si incarica anche della mediazione dei prodotti coltivati verso gruppi boscimani più distanti; nel medesimo gruppo si è sviluppata anche una categoria di lavoratori del ferro (ugualmente procurato presso i negri). Ma anche a prescindere da simili trasformazioni radicali ed eccezionali, fatto sta che tutti i Boscimani hanno subito influssi esterni: tutti conoscono, per esempio (anche se non sanno produrre o lavorare) il ferro, di cui posseggono per lo più quantitativi minimi che utilizzano sostituendo l'osso come materia delle punte di frecce; e tutti conoscono e consumano il tabacco (diffuso, in Africa, dagli europei).

La divisione del lavoro (così si può chiamare l'attività economica anche se non consiste nella «produzione» di beni, ma solo nell'«appropriazione» di quanto offre la natura) è fondata, presso i Boscimani, esclusivamente sul sesso; tutt'al più conta anche l'età, in quanto i bambini piccoli naturalmente non «lavorano» (donde l'importanza dell'iniziazione che fa dell'elemento economicamente improduttivo individui efficienti: ciò vale almeno per i maschi la cui iniziazione è condizionata alla prima uccisione di selvaggina grossa). Agli uomini compete la caccia, la fabbricazione – mediante la lavorazione del legno, dell'osso, della pelle e del guscio dell'uovo di struzzo – degli strumenti (archi, frecce, trappole, tubi per succhiare l'acqua dal terreno, recipienti, ecc.) e del vestiario; alla donna la raccolta dei vegetali e dell'acqua, la cucina e la costruzione dei ripari. La proprietà collettiva, cioè del gruppo, riguarda innanzi tutto il territorio che il gruppo sfrutta e che è accentrato intorno al pozzo o stagno che fornisce la preziosa acqua; acqua e territorio sono considerati anche come proprietà del capo – una carica che non dà alcun vantaggio a chi la detiene, ma che sembra avere una duplice funzione: nel capo s'incarna l'unità del gruppo (come si vede anche nell'identificazione della proprietà collettiva con la proprietà del capo) ed è il capo che coordina tutte le attività dei singoli membri del gruppo. Ciascun gruppo rispetta il territorio degli altri, con l'unica eccezione, riconosciuta legittima, di inseguire un animale colpito anche in territorio non proprio (l'arma da caccia dei Boscimani è una piccola freccia che non ucciderebbe la grossa selvaggina se la sua punta non fosse intinta in un veleno mortale che, però, non agisce istantaneamente: l'inseguimento della selvaggina ferita può durare più giorni e svolgersi nel raggio di molte decine di chilometri). La proprietà privata, per quel che riguarda gli oggetti, è quasi inesistente, in quanto basta che una persona chieda un oggetto a chi lo possiede e questi glielo dà immediatamente; tale è la necessità del perfetto accordo e della cooperazione all'interno del gruppo. Più complessa è la questione della proprietà privata dei cibi. Anche prescindendo da casi particolari in cui, per esempio, il miele scoperto in qualche albero o un nido con delle uova di struzzo vengono segnati (per esempio, con una freccia) affinché nessun altro li prenda se non la persona che li ha trovati, nel pensiero dei Boscimani è del tutto ovvio che la selvaggina sia del cacciatore che l'ha uccisa o che i vegetali spettino alla donna che li ha raccolti: ma è altrettanto ovvio che questi individui non dispongano liberamente di tali «proprietà»: tutti i cibi, infatti, vengono distribuiti nel gruppo in modo che nessuno ne rimanga privo.

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Capitolo quinto

L'origine delle religioni politeistiche


Ciò che nel campo dell'etnologia religiosa ostacola, talvolta, una sicura interpretazione dei fatti dal punto di vista del nostro problema, è che ci manca una sufficiente conoscenza della dimensione storica delle religioni «primitive». Non che all'etnologia manchino i mezzi della ricerca storica: la comparazione spesso permette di discernere la maggiore o minore antichità di certi fatti rispetto ad altri. A questo proposito, anzi, vale la pena di sottolineare in questo luogo come anche il costante riferimento dei fatti religiosi alle strutture economiche — almeno a quelle fondamentali, la cui irreversibile successione storica è fuori di ogni dubbio — possa essere uno strumento prezioso della ricerca storica in campo etnologico-religioso: un esempio appena sfiorato (complesso luna-lepre) ci ha mostrato, per esempio, che quando in una civiltà di cacciatori troviamo un fenomeno religioso inspiegabile che, invece, si spiegherebbe meglio in base alle condizioni di una civiltà di coltivatori, abbiamo in mano un elemento quasi decisivo per sostenere che quel fenomeno, presso i cacciatori, è secondario e derivato da influssi esterni. In tutti i modi, però — a parte i casi in cui si hanno notizie più antiche e l'archeologia fornisce qualche aiuto — l'etnologia può soltanto, con maggior o minore grado di probabilità, dedurre i processi storici da fatti simultaneamente presenti (nell'epoca globalmente recente delle osservazioni) nel vasto mondo delle civiltà primitive, ma non li trova quasi mai documentati direttamente.

Da questo punto di vista c.d. si muove su un terreno più solido quando si studiano le c.d. civiltà superiori, la cui storia si presenta alla luce dei documenti. In questo campo, dunque, c'è più speranza di cogliere connessioni più precise tra gli sviluppi dell'economia e quelli della religione. Ma, come vedremo subito per quel che riguarda le origini, la formazione stessa delle religioni delle civiltà superiori, un'eccessiva illusione di poterle seguire in dettaglio sarebbe fuori luogo.

Certo è che, dal punto di vista del nostro problema, le più antiche civiltà superiori presentano un fatto incontrovertibile che subito ci appare significativo: esse si distinguono nettamente dalle civiltà primitive – e sotto quest'aspetto indubbiamente anche dalle civiltà preistoriche – sia nell'organizzazione economica, sia nel tipo di religione che le caratterizza; si tratta, in tutti i casi, di economie fondate sulla cerealicoltura, che presentano una ricca differenziazione delle attività economiche (agricoltura, artigianati specializzati, commercio interno ed estero) peraltro coordinate nei quadri dello stato, e con lo sviluppo di classi economiche differenti (tra cui alcune esonerate dal lavoro produttivo: re, funzionari, sacerdoti, ecc.), e si tratta di religioni politeistiche, accentrate cioè intorno al culto di una pluralità di esseri divini differenti per carattere, per importanza e per competenza, ma coordinati in un pantheon. Non è forse difficile intuire che tra i due ordini di fatti – economici e religiosi – vi sia una connessione non casuale; anzi, in questo caso appare chiaro che la fondamentale conquista economica – la coltivazione dei cereali – precorre alla formazione di un nuovo tipo di civiltà e di un nuovo tipo di religione. La nascita della civiltà superiore era possibile solo sulla base della cerealicoltura che, a sua volta, era possibile solo là dove i cereali crescevano spontaneamente in stato selvatico, vale a dire nell'area della c.d. «mezzaluna fertile». Ma se vogliamo uscire dal generico e cercare di accertare in che modo, realmente e concretamente, la formazione della prima religione politeistica sia stata condizionata, favorita o promossa dal nuovo tipo di economia, ci troviamo subito in difficoltà. Infatti, alla piena luce dei documenti noi vediamo dovunque già stabiliti e arrivati a una notevole complessità tanto il sistema economico-sociale che quello religioso: l'epoca cui risalgono i documenti letterari consistenti di ciascuna di queste più antiche civiltà superiori è, dunque, quella in cui il nuovo ordine funziona ormai perfettamente; del resto, la scrittura stessa nasce in un momento in cui i fondamenti della nuova struttura culturale sono già posti. Perciò, per quel che riguarda le origini, dobbiamo ricorrere a quanto ci rivelano i muti documenti dell'archeologia.

Θ noto che la civiltà superiore cronologicamente più antica è quella della Mesopotamia. Si può essere anche più precisi: essa sorge negli ultimi secoli del IV millennio a.C. nella Mesopotamia meridionale e porta un'impronta sumera. Stanziati nel sud della valle dei Due Fiumi (Tigri ed Eufrate), i Sumeri creano la scrittura che, insieme con la loro lingua, sarà quella adottata dalle popolazioni (semitiche) il cui grosso occupa la Mesopotamia settentrionale; ma tra i due (e forse più di due) gruppi etnici differenti, oltre ai contatti intensi sin da periodi preistorici, vi era probabilmente anche un certo grado di mescolanza. Θ importante rilevare che il processo evolutivo che condusse allo sbocciare della civiltà superiore e che, in una misura non indifferente, è controllabile alla luce dell'archeologia, non aveva preso inizio nella Mesopotamia meridionale. Certo, gli scavi possono ancora riservarci delle sorprese. Venti anni fa, per esempio, nessuno avrebbe immaginato ciò che oggi sappiamo con certezza, cioè che tra il VII e il VI millennio, e prima ancora della scoperta della ceramica, nella larga area della «mezzaluna fertile», ma anche al di fuori della Mesopotamia, esistevano già comunità sedentarie che traevano il loro sostentamento dalla coltivazione dei cereali: la scoperta degli strati «preceramici» do Gerico e, successivamente, di quelli, in Anatolia, di Ηatal Hόyόk e di Hagilar hanno spostato notevolmente le prospettive in questo campo. Ciò che sorprende, in modo particolare, è che i documenti archeologici di questi (finora) più antichi siti di comunità cerealicole rispecchiano anche forme di vita spirituale insospettate per così remoti periodi: il modellamento artificiale, di straordinaria qualità estetica, dei crani di morti in Gerico rivelano un nuovo senso artistico e fanno pensare a una specie di culto degli antenati; nei siti anatolici fiorivano addirittura le arti figurative (scultura e pittura murale!): le sculture, tra cui «idoli» femminili di qualità superiore e di dimensioni maggiori di quelli che saranno comuni in tutta l'Asia occidentale alcuni millenni dopo, non permettono di far deduzioni precise riguardo alle idee religiose. L'esistenza in due punti così distanti dell'area dei cereali selvatici mostra che lo sfruttamento della nuova risorsa si è diffuso rapidamente in larghe zone, provocando una vera rivoluzione nelle forme dell'esistenza. L'utilizzazione dei cereali – sebbene ancora su scala modesta (condizionata dalla mancanza di sistemi di irrigazione artificiale che verranno scoperti più tardi e anche da una tecnica ancora neolitica) – assicurava subito stabilità alle popolazioni e dato il sovraprodotto che essa rendeva possibile (rispetto alla caccia e raccolta e alla coltivazione di ortaggi) liberava energie che potevano esser rivolte anche ad attività non primariamente economiche.

Tornando alla Mesopotamia, anche qui, nella parte settentrionale del territorio, si è trovata una cultura agricola pre-ceramica. Gli strati più antichi di Jarmo, oggi datati intorno alla metà del VII millennio, presentano un villaggio di venticinque case a più vani, costruite di argilla pressata; non solo i mortai e altri strumenti di pietra rivelano la cerealicoltura, ma anche resti carbonizzati di grano o di orzo. Θ notevole che oltre il 90% degli ossi animali ritrovati nel luogo sono di animali «domesticabili»: ovini, bovini, suini, cane; ciò non vuol dire che questi animali fossero già domesticati (il che è sicuro solo del cane, mentre è da escludersi per i bovini); ad ogni modo, è importante che parte dell'area in cui pecore e capre vivevano in stato selvatico copriva quella dei cereali selvatici: le condizioni della futura economia cerealicola con l'allevamento di queste specie erano dunque date nella natura, in una ben determinata zona della terra abitata: la civiltà superiore poteva nascere – almeno nella forma in cui è nata e in cui si è diffusa anche altrove – soltanto in quella zona. Le figurine di animali e di donne (tra cui una di donna incinta) non permettono di capire le idee (religiose?) di quest'antichissima comunità di agricoltori.

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