Copertina
Autore Philippe Breton
Titolo L'utopia della comunicazione
SottotitoloIl mito del "villaggio planetario"
EdizioneUtet Libreria, Torino, 1996 [1995], Mediamorfosi
OriginaleL'utopie de la communication [1992]
TraduttoreMarcello Offi
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe scienze sociali , cibernetica , informatica , comunicazione
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al sito dell'editore








 

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Indice


Indice

Prefazione all'edizione italiana di
    Paolo Fabbri                        p. IX

Introduzione                                3
    Una questione politica
    Un vuoto della critica
    La nascita di una nuova utopia
    Gli effetti perversi della società
        della comunicazione

PARTE PRIMA - L'origine della moderna
              nozione di comunicazione

1.  L'elaborazione di una nozione
        unificante                         13
    Un paradigma unificante
    La formazione della nozione
        di comunicazione

2.  La portata sociale di un
        nuovo valore                       27
    La costruzione di un nuovo valore
    L'aumento dei coinvolgimento
    degli scienziati nelle dinamiche sociali

PARTE SECONDA - La crisi dei valori
            	e lo sviluppo dell'utopia

3.  La formazione di una nuova utopia      43
    Un "uomo nuovo"
    Una società della comunicazione

4.  La barbarie moderna e
        il crollo dei valori               57
	Il crollo dei valori
    Lo sviluppo delle ideologie
        di esclusione

5.  La comunicazione, un valore
        post-traumatico                    83
	Una triplice risposta alla crisi
    Le vie originali della diffusione di
        un nuovo valore
    L'impregnazione attraverso gli usi
    Le quattro vie dell'influsso
        intellettuale

PARTE TERZA - Gli effetti perversi
              della nuova utopia

6.  Le ambiguità della comunicazione      113
    L'utopia della comunicazione e
        il progresso del liberalismo
    Una parola che non significa più nulla
    Un'utopia dagli effetti concreti

7.  L'impero dei media                    125
    La confusione tra informazione
        e conoscenza
    I media: una presenza inevitabile

8.  Il nuovo individualismo e
        l'aumento della xenofobia         139
    Le trasformazioni dello spazio sociale
    Un nuovo individualismo
    Un mondo d'armonia e di consenso

Conclusione                               151

Note                                      155

 

 

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Pagina 13

1.
L'elaborazione
di una nozione unificante


La "comunicazione" è una nozione apparsa molto recentemente, almeno nel senso in cui la s'intende oggi. La parola è certamente utilizzata da tempo - il suo uso è attestato nel francese antico - ma bisogna attendere la metà del ventesimo secolo perché il campo coperto dal suo significato cominci davvero ad ampliarsi. Prima di analizzare dettagliatamente le tappe principali di tale ampliamento, può essere utile ricordare - per evitare ogni confusione - che se il termine ha conosciuto una recente fortuna, alcune realtà che si ritiene esso indichi non datano da oggi. La prima tappa dell'elaborazione della moderna nozione di comunicazione è consistita nel colmare quello che allora appariva un fossato tra alcune modalità d'azione prive di nome e il lessico in grado di designarle. La nuova nozione di comunicazione, nata nel mondo scientifico in seno alla "cibernetica", ha permesso di connettere tra loro modalità d'azione disparate. In un primo tempo essa svolse dunque un ruolo unificante, prima di svelare ambizioni ancora maggiori, di divenire cioè un valore molto più generale e in gran parte identificato con la "modernità".

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I TRE MOMENTI DELLA COMUNICAZIONE

Tre grandi tappe segnano lo sviluppo della nuova nozione, che - a partire dal 1942 - è coinvolta in una spirale al tempo stesso unificante e generalizzante. La prima si colloca tra il 1942 e il 1947-48. Nonostante tutto i protagonisti di quell'appartata impresa sono noti: organizzati sul modello della "rete" a partire dal 1942 e provenienti da diverse discipline, essi si raggruppano attorno alla "cibernetica". Schematizzando, si potrebbe affermare che il loro obiettivo è la costruzione di un campo interdisciplinare che unifichi sotto lo stesso nome un insieme di fenomeni già noti, in particolare nel campo della cardiologia, della neurofisiologia, della telefonia, dell'elettronica e della matematica applicata, ma anche dell'antropologia. Il lavoro in corso in quegli anni, benché molto ambizioso, rimane unicamente scientifico, ad uso esclusivo della comunità dei ricercatori.

La seconda tappa, a partire dal 1947-48, è segnata dall'esplicita volontà - in particolare da parte del matematico Norbert Wiener, uno dei fondatori della rete iniziale - di estendere la nozione di comunicazione al campo dell'analisi e poi dell'azione politica e sociale. Anche se non si considera un "militante" o un "uomo politico", Wiener cerca così di assumere quella che gli sembra la sua responsabilità sociale di scienziato, offrendo al mondo una chiave di comprensione delle sue difficoltà e dei suoi possibili progressi.

Parallelamente, l'uso scientifico della nozione di comunicazione continua a svilupparsi e ad arricchirsi, ad esempio attraverso la teoria dell'informazione. Tuttavia nell'immediato dopoguerra nulla indica che l'idea di comunicazione debba conoscere un'ulteriore espansione, sino a costituirsi progressivamente come valore utopico. Questa terza e decisiva fase nella storia della comunicazione moderna si compie in rapporto diretto con l'evoluzione della società occidentale nel dopoguerra, segnata in profondità dal conflitto mondiale appena concluso.

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Un paradigma unificante

Che cos'è la cibernetica e che cos'ha a che vedere con l'origine del moderno discorso sulla comunicazione? Molto è stato detto e scritto sulla cibernetica. Poche correnti di pensiero si richiamano oggi esplicitamente a quel movimento, che d'altra parte è scomparso dalla memoria di molti, compresi coloro che un tempo l'hanno accolto, se non addirittura adulato. La cibernetica raggiunse infatti l'apice della sua influenza negli anni cinquanta, per sprofondare in gran parte nel generale discredito a partire dagli anni sessanta, mentre i suoi temi principali - in particolare quelli relativi alla "comunicazione" - continuavano a svilupparsi. La disillusione che l'accompagnò fu commisurata all'appassionante avventura che essa aveva rappresentato per tutti coloro che vi si avvicinarono. La questione della definizione della cibernetica è complessa: una lettura puramente descrittiva delle tesi elaborate dagli stessi cibernetici rivela oltre cinquanta differenti definizioni del campo. Eppure nessuna eguaglìa quella proposta dal "padre fondatore" della cibernetica, Norbert Wiener, che vedeva in essa la "scienza del controllo e della comunicazione".

LA "CIBERNETICA"

La cibernetica infatti è esplicitamente votata alla ricerca delle leggi generali della comunicazione, sia che interessino fenomeni naturali, sia che riguardino le macchine, gli animali, l'uomo o la società. Nella nuova scienza la comunicazione è immediatamente associata alla dimensione del "controllo". Il termine merita una spiegazione, soprattutto perché nelle lingue latine s'intende spesso la parola "controllo" con una sfumatura peggiorativa, di limitazione, come nelle espressioni "controllo della velocità", "controllo dell'identità" o "controllo sociale", mentre l'inglese assegna al termine una connotazione più neutra, più legata a un uso tecnico. "La situazione", si sente dire spesso negli Stati Uniti, è "under control', vale a dire sotto controllo. Laddove il francese inserisce "potere" nella nozione di controllo, l'inglese vi vede "regolazione" e "comando" ("control" è spesso tradotto in francese con "commande", in senso tecnico).

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L' "ILLUMINAZIONE MEDIOLOGICA DI WIENER"

Vertice incostestabile del triangolo appena descritto, nel quale la comunicazione si cristallizza come valore, i principali testi di Wiener scandiscono l'esplorazione sistematica dei nuovi territori della modernità. Nel 1942 egli firma insieme ad altri studiosi un importante articolo, intitolato Behavior, Purpose and Teleology. Per diversi aspetti si tratta di un testo fondatore; in particolare vi si rileva l'origine della moderna nozione di "comunicazione". Alcuni anni dopo, nel 1948, pubblica in inglese - a Parigi, presso l'editore Hermann - la sua opera più nota, Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine, che costituisce la summa dei suoi risultati scientifici nel campo della cibernetica. Subito dopo pubblica un libro dal titolo curioso, The Human Use of Human Beings, che sarà tradotto in francese con il titolo Cybernétique et société; a tal proposito si noterà subito che si tratta di un'evidente anticipazione - benché l'argomento sia più ampio - del tema "informatica e società" che trent'anni più tardi verrà presentato come del tutto nuovo.

In quest'opera, che ha avuto due successive traduzioni in francese, Wiener propone di riconoscere la comunicazione come valore centrale per l'uomo e la società, mentre si scaglia contro tutti i regimi - in particolare fascisti e totalitari, ma anche contro le democrazie liberali - che fanno un uso "non umano" degli esseri umani, contrariamente a quanto la comunicazione permetterebbe. Il libro ha esercitato, in forme diverse, una profonda influenza sino ad oggi in tutti i discorsi e in tutte le rappresentazioni della "comunicazione".

Wiener era originariamente un matematico e insegnò questa disciplina praticamente per tutta la sua carriera al Mit. Eppure, a ben guardare, il suo ragionamento è quello di un ingegnere, di quelli che non si fermano ai fatti materiali, ma vanno molto oltre, sino ai fatti umani. La cibernetica, nella sua dimensione puramente tecnica, è un'esplorazione sistematica di tutte le analogie che nella prospettiva delle leggi matematiche possono esistere tra fenomeni di differente natura, che rientrano al tempo stesso nel mondo della vita, in quello naturale o in quello artificiale. Che cos'hanno in comune il funzionamento di un missile che cerca il suo bersaglio orientandosi sul calore che emana e alcuni aspetti del funzionamento del muscolo cardiaco? Un termostato o un regolatore meccanico e il movimento che consiste nel portare un bicchiere alla bocca e bere? Il sistema nervoso e i componenti di una calcolatrice? L'evoluzione dell'universo e il destino delle comunità sociali?

Per Wiener l'elemento comune è l'esistenza di "relazioni", in senso matematico, tra elementi apparentemente separati. In tal modo egli prosegue la grande opera della matematica moderna, ritenuta già da Galileo la lingua nella quale è scritto il gran libro dell'universo. Tuttavia per il padre della cibernetica la matematica, lungi dall'essere di per sé un fine, è piuttosto una "grande metafora", come amava ripetere. Così facendo autorizzava se stesso a più di quanto la matematica abitualmente dia diritto.

Attraverso la matematica la sua attenzione si rivolge all'insieme del mondo visibile. La sua tesi più forte, alla fin fine, è questa: così come la matematica è, in buona sostanza, la scienza delle relazioni, tutti i fenomeni di quel mondo possono essere compresi, in fin dei conti, in termini di relazioni, di scambio e di circolazione d'informazione. Per Wiener, dunque, il mondo consiste interamente di "mediazioni"; il punto di partenza del suo pensiero, anche di quello scientifico, è probabilmente questa "illuminazione mediologica" che lo perseguiterà sino alla morte, nel 1964, forzandolo a vedere la realtà sotto l'angolazione quasi esclusiva delle relazioni tra elementi.

UNA RETE FONDATRICE

Attorno a Wiener e al programma di ricerca che ancora non portava il nome di cibernetica si riunì, a partire dal 1942, un gruppo di uomini e di donne, specialisti di campi molto diversi. La loro prima fortuna fu senza dubbio quella di godere della loro interdisciplinarità. Prima ancora che la comunicazione fosse chiaramente identificata come il comune oggetto di lavoro, comunicare fu una prassi difficile, ma senza dubbio gratificante per specialisti altrimenti confinati nella solitudine del loro sapere particolare. Uno dei membri di quella rete iniziale, costituita nel quadro delle riunioni finanziate dalla fondazione Macy, era Gregory Bateson, giovane antropologo che qualche anno prima aveva sostenuto una tesi originale sulla tribù degli Iatmuls in Nuova Guinea. Uno dei problemi che Bateson si poneva, non soltanto a proposito degli Iatmuls, era quello della formazione e della differenziazione del legame sociale nelle comunità umane. Su tutt'altro piano, altri due componenti del gruppo dei primi cibernetici, il neurofisiologo Warren McCulloch e lo studioso di logica Walter Pitts, erano giunti a concludere che il pensiero, prodotto secondo loro dall'attività materiale del cervello, era legato al funzionamento "in rete" dei neuroni, dunque a un'attività permanente di scambi materiali. Von Neumann, l'inventore del computer, s'incaricherà di concretizzare quelle concezioni in una nuova macchina, definita un electronic brain, un cervello elettronico.

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Pagina 21

Wiener dapprima critica quello che chiama il "metodo funzionale" delle scienze classiche, sostenendo che non è soddisfacente, perché s'interroga esclusivamente sul contenuto dei fenomeni di cui la scienza si occupa, sul versante "interno" degli oggetti. Le relazioni che intercorrono tra i fenomeni contano molto più di ciò che essi "conterrebbero". Propone pertanto di sviluppare il "metodo comportametale di studio", valido per l'insieme dei fenomeni naturali, umani, sociali. Questo appello sarà ben presto dimenticato, ma lo spirito che lo informa in seguito si diffonderà ampiamente, da quando si comincerà a parlare di comunicazione. Il presupposto che lo guida merita attenzione: le relazioni esistenti tra i fenomeni sono considerate non come un aspetto tra gli altri, bensì come integralmente costitutive della modalità d'esistenza dei fenomeni stessi. S'intravede così lo sviluppo di una tesi molto forte dal punto di vista epistemologico, che potrebbe essere enunciata in questo modo: la realtà può essere interamente interpretata in termini d'informazione e di comunicazione. Tale messaggio epistemologico s'indirizzava certamente a tutte le scienze, nessuna esclusa, ed è per questo che Wiener vedeva nella cibernetica non una nuova disciplina, ma l'occasione di rinnovare l'insieme delle discipline, e che rifiuterà in seguito di delineare i confini istituzionali di una nuova scienza. Sin da quel momento egli era chiaramente consapevole che le sue ricerche avevano una portata che oltrepassava ampiamente gli angusti limiti delle diverse specializzazioni scientifiche. Proponeva di fatto una visione del mondo globale e unificata, organizzata attorno al perno della comunicazione e tale da toccare tutte le discipline. Essa conteneva in germe la trasformazione della comunicazione in "valore" di ampia portata sociale e politica.

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UNA TEOLOGIA DELL'ENTROPIA

Per chi dubitasse del carattere eminentemente teologico della discussione sui fenomeni entropici, occorre precisare che Wiener paragona esplicitamente l'entropia all'azione del demonio. Tuttavia - egli dice - esistono due tipi di diavolo, quello di sant'Agostino, l'imperfezione, e quello dei manichei, un diavolo perverso e maligno che semina attivamente disordine e confusione. Questa distinzione è ai suoi occhi essenziale: l'entropia "naturale" dell'universo è un'imperfezione originaria, ma non un fenomeno ingannevole; quando uno scienziato conosce una legge dell'universo, questa non cambia. Per contro, l'entropia che può essere generata dall'uomo dipende da un processo maligno in senso stretto. Così il linguaggio può risultare confuso in due modi: per ragioni naturali (ad esempio il famoso "rumore di fondo" nelle linee telefoniche che diede molto filo da torcere ai tecnici delle telecomunicazioni) o a causa "dell'agire di uomini che si ostinano a forzare il suo significato". Dunque il ruolo della comunicazione è quello di combattere al tempo stesso il disordine generato dall'uomo e il male che la natura porta in sé. Wiener, come tutti gli utopisti - se ci si attiene al punto di vista di Gilles Lapouge - è profondamente ostile al manicheismo, che ammette l'esistenza e la necessità contemporanee del bene e del male; il suo universo è piuttosto quello in cui si lotta contro il diavolo nella speranza reale di sconfiggerlo, anche soltanto localmente. In questa prospettiva lo scienziato ha la resposabilità primaria della lotta.

L'apparente pessimismo trasmesso da questa concezione di un universo "ormai condannato" non gli impedisce d'insistere sulla necesità di costruire zone d'ordine locale: "L'alternativa di interpretare la seconda legge della termodinamica o in senso pessimistico o senza alcuna cupa sfumatura, dipende dall'importanza che noi attribuiamo, da un lato, all'universo nel suo complesso e, dall'altro, alle isole di entropia localmente decrescente che noi riscontriamo in esso".

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Pagina 36

Contrariamente a ciò che generalmente si crede, non sono stati i politici a "commissionare" la bomba agli scienziati, bensì esattamente il contrario. Leo Szilard ed Enrico Fermi, entrambi fisici, dovettero infatti spendere molte energie per convincere le autorità degli Alleati da un lato della potenziale forza distruttiva dell'atomo così liberato e dall'altro del progresso - reale o presunto - dei fisici tedeschi in quel campo. Alla fine fu necessario l'appoggio di Einstein per poter ottenere un finanziamento preliminare. Sia Szilard sia Fermi avevano eccellenti ragioni per temere l'avanzata del nazismo e del fascismo, dai quali erano fuggiti al momento delle prime persecuzioni razziali. Convinto il governo americano, il progetto denominato Manhattan acquisì un'enorme ampiezza mobilitando nel più gran segreto parecchie migliaia di scienziati e di tecnici (centomila persone in tutto) raggruppati in un gigantesco laboratorio-officina il cui obiettivo era la produzione più rapida possibile di molte bombe A.

Alla fine, nonostante il disperato tentativo di numerosi esperti di convincere il governo che una dimostrazione in un deserto alla presenza di emissari giapponesi sarebbe stata sufficiente a spingerli alla capitolazione, il governo americano decise l'impiego della bomba contro gli obiettivi civili di Hiroshima e Nagasaki, sin dai primi giorni del 1945, causando centinaia di migliaia di vittime in totale. Mai la scienza aveva ucciso così tante persone in un lasso tanto breve di tempo.

Dunque gli scienziati sono stati integrati, durante la guerra, nel sistema militarista, tendente a installarsi da padrone al centro delle democrazie liberali. L'esempio del progetto Manhattan indica quanto la relativa autonomia della quale godevano sino ad allora i ricercatori, tanto nella definizione dei loro oggetti di ricerca, quanto nell'organizzazione del lavoro scientifico siano ormai un ricordo. Il famoso generale Groves, comandante dell'operazione, impiegò tutto il suo genio - che sotto questo aspetto era molto - nel costruire un'organizzazione sociale in grado di subordinare gli scienziati all'apparato, e soprattutto ai valori, dei militari.

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UN ATTEGGIAMENTO AMBIGUO

Complessivamente il comportamento dei ricercatori in quelle circostanze fu perlomeno ambiguo. Mentre sino al periodo compreso tra le due guerre mondiali avevano formato le schiere dei militanti per la pace, coloro che il generale Groves chiamava elegantemente i "capelluti" si schierarono pur brontolando dalla parte della mano che li nutriva e permetteva di sviluppare le loro costose ricerche, fondamentali e applicate. La richiesta dei militari era chiara. Come riassume l'economista Oskar Morgestern, essa "non era limitata alla fabbricazione di nuove bombe, di carburanti migliori o di nuovi sistemi di guida, (... ) ma includeva spesso l'uso tattico e strategico dei progetti realizzati e di quelli che erano semplicemente in previsione".

I più, come Von Neumann, s'impegnarono con entusiasmo in una collaborazione dalla quale in quanto esperti ebbero molto da guadagnare. Una piccola minoranza protestò teoricamente e praticamente contro la subordinazione della scienza all'establishement militare. Sin dal 1944 Wiener fece parte di quella minoranza. Sviluppò allora l'idea secondo la quale "è responsabilità degli scienziati, in quanto creatori, la valutazione delle circostanze politiche e sociali che essi ritengono più adatte per affidare o no il risultato dei loro lavori ai dirigenti politici". La sua posizione su questo punto è tanto chiara quanto radicale: gli scienziati devono controllare l'uso sociale che viene fatto della scienza. Egli renderà operativo il proprio punto di vista anche prima della fine della guerra: il suo rifiuto di partecipare a un convegno su i computer ultra-rapidi ad Harvard, perché era sovvenzionato dall'esercito, divenne immediatamente popolare, anche se la sua posizione restò minoritaria all'interno della comunità scientifica. Con il sostegno di Einstein tenne numerose conferenze per fustigare quella che chiamò "la nevrosi ossessiva della mobilitazione scientifica (che) ci sta trascinando nell'abisso della autodistruzione".

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Pagina 44

Il progetto utopico connesso alla comunicazione è ambizioso e si sviluppa a tre livelli: una società ideale, una nuova definizione antropologica dell'uomo, la promozione della comunicazione come valore. Questi tre livelli s'intrecciano nel tema dell'uomo nuovo, che qui sarà chiamato Homo communicans. Nella prospettiva di Wiener l'uomo nuovo corrisponde al tentativo di ricomporre con i materiali disponibili i frammenti che una civiltà in rotta aveva fatto esplodere in un grande vortice entropico. L'Homo communicans è un essere senza interiorità e senza corpo, che vive in una società senza segreti, un essere interamente rivolto al sociale, che esiste soltanto attraverso l'informazione e lo scambio in una società resa trasparente grazie alle nuove "macchine per la comunicazione". Tali qualità dell'uomo della comunicazione, che si propone come un possibile ideale dell'uomo moderno, appaiono come altrettante alternative al degrado dell'umano che ha provocato la tempesta del ventesimo secolo.

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Pagina 45

Un "uomo nuovo"

Le nuove concezioni si articolano qui attorno a due princìpi. Ogni essere che comunica a un certo livello di complessità è degno di vedersi riconoscere la dignità di essere sociale. Inoltre, non è il corpo biologico che fonda tale esistenza, bensì la natura "informazionale" dell'essere in questione. In un certo senso con la comunicazione non ci sono più "esseri umani", bensì "esseri sociali", interamente definiti dalle loro capacità di comunicare socialmente.

Wiener è all'origine della rielaborazione che permette di caratterizzare l'uomo non come soggetto individuale, ma a partire dalle sue attività di scambio sociale. Rifiutando di considerare il soggetto in quanto individuo isolato e spostando l'attenzione verso l'attività sociale di scambio, il padre della cibernetica fonda una nuova visione dell'eguaglianza. Egli getta le basi di una nuova antropologia, di cui Gregory Bateson sarà uno dei più fedeli costruttori. In questa prospettiva tutti gli esseri comunicanti possiedono uno status antropologicamente comparabile, purché si collochino al medesimo livello di complessità.

La nuova "umanità" concerne in tal modo tutti gli uomini, ma può contemporaneamente estendersi a tutti gli esseri candidati allo status di "partner comunicanti". Qui si può capire bene che il nuovo pensiero antropologico non è un pensiero umanistico e non pone l'uomo al centro dell'universo. La "vita" non è più nella biologia, bensì nella "comunicazione".

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Pagina 47

L' HOMO COMMUNICANS, UN ESSERE SENZA INTERIORITA'

Nel diciannovesimo secolo e sino alla crisi di valori della seconda metà del nostro secolo, l'immagine centrale che permetteva di pensare l'uomo si basava sulla metafora dell'interiorità. Contrariamente alle altre creature, l'uomo era un essere dotato di un "interno", luogo privato d'indefinita localizzazione, ma il cui contenuto determinava la personalità.

L'uomo dell'umanesimo classico è "diretto dall'interno". Da tale condizione discendono schemi come quello della "profondità dei sentimenti" o della "ricchezza della vita interiore". Con la "scoperta" dell'inconscio, Freud contribuirà ad alimentare la concezione dell'uomo come essere "che agisce sulla base dell'interiorità". La forza dell'apporto di Freud alla metafora in questione dipende da ciò che prende a prestito dalla cultura scientifica, allora pervasa dal paradigma energetico. Pertanto l'inconscio raggiunge il massimo di sincretismo, come tutte le grandi nozioni collocate a metà strada tra la cultura umanistica e quella scientifica. Come sottolinea in modo molto appropriato la psicologa americana Sherry Turkle, non ha importanza se si sia letto o no Freud o se si conosca o no l'esistenza delle sue teorie: l'inconscio, questo spazio interiore parzialmente insondabile e tuttavia fonte di una potente energia, fa parte della cultura come metafora centrale per la rappresentazione dell'essere umano.

La nuova utopia fornisce invece una metafora alternativa a quella dell'uomo "diretto dall'interno": "l'uomo nuovo", l'uomo moderno è in primo luogo un "essere che comunica". Il suo interno è totalmente all'esterno. I messaggi che riceve non provengono da un'interiorità mitica, bensì dal suo "ambiente". Egli non agisce, reagisce, non a un'azione ma "reagisce a una reazione" (così Gregory Bateson definisce il legame sociale).

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Pagina 52

Questa società non ha un nemico umano, ma ciò non significa che non si contrapponga a fattori che ne minacciano la sopravvivenza. L'utopia della comunicazione, malgrado tutto, resta un'utopia di lotta, ma le sue forze non sono dirette contro alcuni uomini da escludere per garantire il progresso. Il suo unico nemico non ha sembianze umane, è il "rumore", l'entropia, nemico non privo di potenza, che addirittura minaccia di dominare il mondo e che può essere arginato soltanto dalla "libera circolazione dell'informazione". Ora si può comprendere meglio perché un'utopia del genere, in un mondo appena uscito da un lungo periodo di scontri mortiferi che coinvolgevano ideologie basate sull'esclusione, potesse disporre a priori di un certo capitale di simpatia e potesse avere una certa sintonia con l'opinione pubblica illuminata.

La nuova società si sviluppa attorno al tema fondamentale della trasparenza sociale, che interessa in modo inseparabile l'uomo e la società. Come nota Lapouge, si tratta di un tema che è alla base di ogni progetto utopico. La trasparenza dell'uomo è qui acquisita attraverso il paragone, che va al di là del semplice riferimento metaforico, tra l'uomo e il computer. In una prospettiva comunicativa l'uomo non è soltanto privo di corpo. Si tralascerebbe un tratto essenziale della nuova concezione se non si comprendesse che il legame sociale su hase comunicativa finisce per lasciare poco spazio all'individuo, che non è più un attore individuale, bensì un soggetto che reagisce. Egli si colloca nel gran flusso della comunicazione - in cui le "macchine intelligenti" sono altrettanti partner - e il suo pensiero individuale non è più distinguibile in quanto tale. Il legame sociale funziona sulla base della ragione, del calcolo - il suo modello è il computer - e contemporaneamente il gioco sociale diviene un gioco a informazione completa.

Dunque non esiste più un livello proprio dell'individuo e un'altro proprio della società: l'uno e l'altro sono fusi in un moderno legame sociale unitario. La trasparenza permette tale fusione: grazie alla comunicazione l'uomo è trasparente nei confronti della società e viceversa. I media moderni fonderanno la loro politica d'espansione sul tema seguente: nulla, da nessuna parte deve mai più rimanere segreto.

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Il furore ideologico che conduce al genocidio non è per nulla comparabile con la politica razionale degli Alleati che decidono l'impiego delle armi contro i civili per ragioni di "efficacia militare". Ma tutto ciò accade in un contesto globale in cui il degrado delle condizioni morali e soprattutto la svalutazione della dignità umana conduce a legittimare tutti gli eccessi. Come si è giunti sino a tal punto, a metà del XX secolo? Come si è potuto produrre il crollo dei valori che si erano sviluppati all'epoca dei Lumi? Per quali ragioni, come si domanda Steiner, "le tradizioni umanistiche e i modelli di comportamento si rivelarono barriere così fragili contro la bestialità politica"? E proprio ciò che dobbiamo cercare di capire per cogliere meglio il modo in cui la comunicazione può imporsi a sua volta come valore alternativo. Infatti l'utopia della comunicazione non affonda forse le sue radici nella specificità della barbarie moderna?

Il crollo dei valori

La "guerra dei trent'anni" è il momento di una trasformazione importante sul piano dei valori. Nessuna società sfugge a ciò che Pierre Legendre chiama la "costituzione normativa dell'umano", che consiste nel proporre ai suoi membri una definizione - anche implicita - dell'uomo. Le definizioni "etniche" che hanno occupato un posto rilevante per un lungo periodo della storia dell'umanità, praticamente sino alla costruzione dei moderni Stati-nazione, erano comode poiché permettevano di designare lo "straniero", come colui che non fa parte della "umanità", a partire dal criterio di non appartenenza all'etnia stessa.

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Il grande mutamento comparso nei secoli XVIII e XIX è l'idea secondo la quale ogni vita umana è preziosa. Il successo della scienza è in parte spiegato dalla sua promessa di migliorare le condizioni di vita, in partìcolare quelle anitarie, dall'annuncio che grazie ai suoi sforzi la morte e la malattia perdono terreno e - perché no - un giorno potrebbero addirittura scomparire. Il livello di violenza raggiunto sotto l'Ancien régime e prima - ad esempio durante le guerre di religione - deve dunque essere interpretato in un contesto in cui la vita umana non aveva gran valore.

La grande novità del XIX secolo è che le teorie violente dell'esclusione rinascono proprio mentre continua parallelamente ad affermarsi il primato della vita umana. Dunque non è possibile avanzare l'argomentazione secondo la quale, sotto l'effetto delle guerre e del loro corteo di "violenze inevitabili", la vita umana nel XX secolo avrebbe nuovamente subito un calo di valore, tale da rendere il razzismo e l'esclusione conseguenze spaventose ma logiche di quei tragici eventi. La barriera che separa chi è uomo e chi non lo è, in effetti, ha cominciato a spostarsi prima della nuova "guerra dei trent'anni", e proprio in pieno periodo di relativa pace.

La seconda osservazione concerne il fatto che molto spesso s'identifica nel solo razzismo la novità storica del processo di esclusione all'interno della società. Certo il razzismo, in quanto teoria costituita, appare in tutta la sua singolarità nell'Ottocento. Tuttavia il clamore suscitato dai dibattiti sull'"eredità malefica", sull'"uomo criminale" o "degenerato", e la potenza perversa delle tesi eugenetiche mostrano che l'idea di razza non è il solo modo d'individuare l'elemento da respingere al di là dei confini dell'umanità. Il razzismo fa parte di un'ideologia di esclusione più globale, che non si limita al solo criterio di razza e che pertanto ha una portata più ampia e una maggiore adattabilità. Soltanto chiarendo questo aspetto si può ad esempio comprendere l'apporto specifico di Nietzsche alle politiche omicide di esclusione del secolo XX, visto che il filosofo non sviluppa una teoria razzista in senso stretto.

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Taguieff insiste giustamente sul fatto che Nietzsche ha svolto un ruolo "liberatore" che ha permesso a molti di sbarazzarsi dei loro "miserabili stracci umanitari". Il "rovesciamento dei valori" che Nietsche si augurava, troverà una concreta applicazione sul campo, a partire dal 1942, quando sarà liberata la "coscienza propria degli animali da preda" nazisti.

LA SPECIFICITA' DELLA BARBARIE MODERNA

Quale che sia l'importanza acquisita dall'"uomo di Nietzsche" o dalle teorie generate dal darvinismo sociale nelle rappresentazioni dell'uomo che dominano il nostro secolo, non c'è dubbio che esse siano una causa essenziale del ritorno alla barbarie che caratterizza quel periodo. Senza la guerra, le rappresentazioni dell'uomo fondate sul razzismo e sull'esclusione non si sarebbero mai realizzate. Ma la guerra stessa non è forse anche il prodotto di quelle concezioni risolutamente antimoderniste e reazionarie? Dopo tutto, come diceva Hegel nella sua apologia dello Stato: "Che la guerra possa essere sempre bandita dal mondo, è una speranza non solo assurda ma anche profondamente immorale. Ciò porterebbe all'atrofia di molte forze essenziali e sublimi dell'anima umana". Posizione alla quale Nietzsche farà eco, in Così parlò Zarathustra: "Voi sostenete che una buona causa giustifica la guerra? Io invece vi dico: è la buona guerra a santificare ogni causa". La guerra che segna la metà del XX secolo non è una guerra come le altre. Il genocidio che ne costituisce il centro simbolico non è un evento indipendente dalle condizioni ideologiche nelle quali si svolge il conflitto. Tali condizioni sono state preparate dallo smantellamento della morale avviato un secolo prima.

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E' stato sufficientemente sottolineato che anche il comunismo implica, per natura, una soppressione, una sparizione quella della classe borghese? Certo in Marx nulla indica che tale sparizione debba riguardare fisicamente i borghesi in quanto persone, ma la traduzione tanto agevole dell'astrazione marxista nel leninismo e stalinismo concreti lascia qualche dubbio in merito al contenuto implicito che attraversa la teoria: Lenin e Stalin prendono alla lettera l'idea della soppressione della borghesia. Sono demoni ceh incarnano il "Male", come sostiene Vladimir Volkoff nella sua curiosa requisitoria "per servire al processo postumo di Lenin, Trotzky e Stalin", oppure sono attori, più passivi di quanto s'immagini, di una teoria della quale la storia ha consentito l'incarnazione? In fondo poco importa.

Indubbiamente il comunismo non poteva vivere, come regime politico e come teoria, senza escludere, senza sopprimere, senza organizzare campi di concentramento e senza eliminare fisicamente. Tale disposizione è al tal punto costitutiva che il blocco della repressione interna, del meccanismo di purificazione permanente, ha corrisposto esattamente alla fine del comunismo come ideologia e alla rottura delle dighe che arginavano la diffusione dei valori del liberalismo all'interno dei paesi "socialisti".

In genere si ammette che il nazismo e, pur senza essere interamente comparabile, il comunismo sono ideologie fondate sull'esclusione. Ma è anche il caso del liberalismo? Certo esso genera diseguaglianze, ma fondamentalmente non porta forse on sé l'ideale democratico dell'eguaglianza e dei diritti dell'uomo? Non si esagera a classificarlo nel campo delle ideologie omicide? Restiamo per il momento al XIX secolo. Ricordiamo anzitutto che il liberalismo coabita perfettamente con la negazione in concreto di quelli che la rivoluzione francese aveva delineato in astratto come i diritti dell'uomo. L'ideale di libertà, di eguaglianza e di fraternità tra tutti gli uomini rimane in gran parte teorico. Liberalismo e democrazia non si confondono.

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Un'ultima osservazione, su un punto che generalmente non attira più l'attenzione: l'accanimento dimostrato dalle società liberali nel corso del XIX secolo nella riduzione del nomadismo. Questo fenomeno un tempo ampiamente diffuso non concerne direttamente i popoli viaggianti, Manouches, Gitani, Rom, ma tutti coloro che, "girovaghi" un giorno o l'altro, facevano tradizionalmente del viaggio una tappa della loro vita. Quest'antica dimensione della vita quotidiana è stata quasi sradicata, sino al raggiungimento di una situazione in cui ognuno risiede stabilmente in un luogo, sotto il controllo di un potere che alla fin fine poco sopporta il movimento. Ritroveremo in seguito quest'aspetto sulla nostra strada, perché il moderno Homo communicans non sarebbe stato possibile senza la stabilizzazione preliminare della pulsione al nomadismo, in cui si esprimeva una parte della creatività dell'uomo.

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Il tema della comunicazione, nella sua forma utopica, costituisce in tal modo una risposta perfettamente accettabile alla crisi del XX secolo e ai danni provocati dalla barbarie moderna. All'idea secondo la quale non tutti gli uomini sono tali, le nuove concezioni contrappongono una visione ancora più universalistica di quella proposta dai Lumi. Non soltanto tutti gli uomini sono tali, ma al di là degli uomini alcuni "esseri" - le macchine intelligenti - possono pretendere di accedere all'umanità. La lista dei "potenziali partner" dell'atto comunicativo si estende sino a superare ampiamente l'umanità in quanto tale. Di fronte alla generale crisi dei valori, la comunicazione appare al tempo stesso come un nuovo valore, ma un valore vuoto, non moralistico, poiché non interviene sul contenuto dei rapporti tra gli uomini. Infine, il modello utopico di una nuova società - la "società della comunicazione" - può costituire un'alternativa credibile alla crisi dei sistemi di rappresentanza politica, alla disaffezione verso le ideologie.

E' essenziale sottolineare l'originalità del tema della comunicazione. Si tratta certamente di un nuovo valore, ma è particolare, poiché non possiede contenuto. E un valore pragmatico, un valore d'azione: "Comunicate!" qualunque sia il contenuto della vostra comunicazione. In tal modo soddisfa una duplice necessità, una storica e l'altra antropologica. Storica poiché l'epoca è quella della crisi generalizzata dei valori tradizionali e del loro contenuto. Il tema della comunicazione riprende a sua volta la crisi procedendo in qualche modo nel senso della storia: "Il contenuto non ha importanza, purché si comunichi". Tuttavia, sul piano antropologico, una società può fare a meno di un sistema di valori? Sembra di no. La comunicazione svolge dunque il ruolo di valore e mantiene così un punto di riferimento per l'azione umana. In questo senso è un "valore-quadro", che corrisponde all'estensione dello spazio dell'argomentabile, piuttosto che un valore dotato di un contenuto determinato e nuovo.

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Nelle poche analisi che ci vengono proposte si nota un vero e proprio anello mancante tra la società di "prima", in cui dominano le ideologie di esclusione e il conflitto politico nella sua forma più violenta e omicida, e la società che si profila oggi, quella dei media e delle tecniche di comunicazione, quella che vuol far credere al consenso politico, alla "fine della storia" e alla "morte delle ideologie". Quest'assenza di spiegazione è un'anomalia. E' come se parlare della modernità obbligasse il lettore a non parlare più di storia, come se si ritenesse il lettore di un libro sulla modernità interessato soltanto al presente e al futuro, con l'esclusione di ogni riferimento al passato. Riproducendo l'astoricità di cui l'utopia della comunicazione è portatrice, quegli autori non hanno forse ripreso a loro volta, senza criticarlo, uno dei valori che si ritiene ci facciano comprendere? La ricerca delle sue origini è tuttavia indispensabile oggi, se si vuol capire quest'importante dimensione della società moderna.

L'OSTACOLO DEL DETERMINISMO

Tale ricerca, però, si scontra con un ostacolo che bisogna cercare di superare: la riflessione sulla comunicazione è oggi dominata da un paradigma largamente incompleto, se non decisamente erroneo alla radice, che frena considerevolmente ogni velleità di spiegazione in termini storici. Si è in generale d'accordo nel ritenere che i comportamenti attuali dell'uomo e, più in generale, gli stili di vita moderni siano ampiamente determinati dai numerosi e vari strumenti esistenti soprattutto nel campo della comunicazione. Ad esempio, si sostiene, se la comunicazione indiretta si sviluppa tanto è perché l'uomo moderno ha a sua disposizione numerosi e vari strumenti, come il telefono, il fax, le reti telematiche ecc.

L'aspirazione a comportamenti più razionali, che sembra un'altra caratteristica fondamentale delle società sviluppate, sarebbe una conseguenza dell'uso sempre più diffuso del computer: che è da questo punto di vista strumento molto rigido, poiché è chiuso a ogni modalità di relazione che non sia strettamente logica. Allo stesso modo, il consumo sfrenato d'immagini, di fiction e d'informazioni, e anche i cambiamenti del rapporto fra l'individuo e il mondo sarebbero provocati dalla massiccia presenza della televisione nelle famiglie.

Questo modello esplicativo deve gran parte della sua forza a un autore ampiamente contestato - e contestabile - Marshall McLuhan, il quale riteneva che ogni grande tappa dello sviluppo tecnico nel campo della comunicazione (la scrittura, la stampa, i media moderni) inducesse di per sé profonde trasformazioni sociali e culturali. Il punto di vista determinista, secondo il quale le tecniche inducono dall'esterno il mutamento sociale, riduce la storia di tali mutamenti a una semplice storia delle tecniche. In fin dei conti si giunge a una spiegazione rigida e semplificatrice, in cui l'unico attore veramente decisivo del mutamento è il tecnico e la sola storia valida è quella degli oggetti che egli mette a punto. Pertanto non stupisce che non ci s'interroghi affatto sulla storia delle società propriamente dette, e che la modernità non abbia un passato. Non stupisce neppure che si parli del futuro solamente in termini di "nuove tecnologie" e non ad esempio in termini di progetto di mutamento politico.

Alcuni aspetti del paradigma mcluhaniano sono tuttavia condivisibili: in effetti sarebbe assurdo negare che l'uso di uno strumento trasformi, più o meno, chi lo utilizza. Il telefono, al pari della televisione, ha indubbiamente indotto nuove modalità di comunicazione e di consumo dell'informazione, così come il computer obbliga a formulare in un certo modo i problemi che gli vengono posti. Tuttavia andare troppo lontano in questa direzione potrebbe condurre in un vicolo cieco: a furia di descrivere in modo eccessivo l'uomo moderno come il puro prodotto delle tecniche che utilizza, lo si rende un fantoccio passivo in balia degli eventi.

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Mentre la bomba è il vertice delle realizzazioni dell'antica scienza, compromessa con la barbarie, il computer annuncia - e siamo qui nel campo della speranza - una nuova società, in cui la razionalità avrà la meglio sulla follia omicida. Per molti scienziati del dopoguera il computer rappresenta il riscatto morale dai peccati nucleari. La nuova macchina produce ordine e informazione, mentre il nucleare è un costante sforzo per liberare disordine, per accrescere l'entropia. Ricordiamo che sino alla prima esplosione sperimentale in un deserto americano, un dubbio terribile è rimasto nella mente dei ricercatori: la reazione a catena provocata a livello locale si sarebbe fermata? Vi si può vedere una grande metafora della situazione prevalente durante la "guerra dei trent'anni": sino a che punto si sarebbe spinta la dissoluzione del legame sociale? Von Neumann, nella veste di matematico, calcola il modello esatto dell'implosione della bomba. La stessa persona inventa la macchina che servirà a rovesciare il corso dell'entropia sociale.

Analogamente, alla base del lavoro di Von Neumann, in particolare della teoria dei giochi, vi è la convinzione che gli uomini politici non siano in grado di dirigere razionalmente la società. All'uscita da un lungo periodo di scontri militari che i politici hanno provocato e sono stati incapaci di bloccare, l'idea di trasferire alle macchine intelligenti la responobilità di prendere decisioni strategiche e politiche non poteva che avere un certo successo. In ogni caso essa è alla base dell'impegno di numerosi scienziati, che vi vedono un contributo importante al progresso dell'umanità.

Questo tema è al centro del pensiero di Wiener, per il quale solamente le macchine intelligenti sono in grado di rompere lo sterile faccia a faccia tra l'uomo e la natura. Si spera che questi nuovi "partner", le macchine intelligenti, introducano in qualche modo la quantità di razionalità necessaria per rovesciare il corso dell'entropia. Senza tali macchine la società umana, si teme, lasciata a se stessa, corre verso la sua rovina. Per il matematico del Mit, la storia dell'umanità non è quella di una crescita regolare del progresso, ma al contrario quella dell'ampliamento della barbarie. Soltanto la nuova scienza delle comunicazioni permetterà di rompere il ciclo infernale, purché l'uomo, le cui decisioni sono sempre inquinate da un rischio di follia, accetti di trasferire le sue competenze e le sue prerogative alle macchine che ha concepito a tal fine.

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Le quattro vie dell'influsso intellettuale

La comunicazione, parallelamente allo sviluppo delle tecniche, è venuta occupando un posto sempre più importante nelle scienze, nel dibattito intellettuale, nella letteratura e infine nell'insieme della cultura. La penetrazione di questo concetto, che si presenta coma la punta più avanzata della modernità, segue quattro direzioni principali. In primo luogo la nuova nozione di comunicazione trova una sua collocazione in un certo numero di campi disciplinari, cosa che porta a una loro parziale ridefinizione. La nozione di comunicazione acquisisce così la sua legittimità. Il secondo canale di penetrazione è la letteratura divulgativa, che ha assegnato sempre, e assegna tuttora, uno spazio significativo alla nuova problematica. Il terzo canale di penetrazione è costituito dal nocciolo duro della letteratura fantascientifica, il cui influsso è stato ed è tuttora considerevole in alcuni ambienti, particolarmente in quello degli ingegneri che si occupano delle nuove tecnologie. Tale genere letterario non è affatto marginale, come molti credono, e ha dato un ampio contributo alla formazione dell'immaginario della modernità. In quarto luogo infine, occorre tener conto dei saggisti, sociologi, futurologi che descrivono, tentando di anticiparle, le grandi evoluzioni sociali. Essi sono stati gli infaticabili propagatori della nuova utopia; poco a poco, grazie a loro, l'associazione tra il futuro e la comunicazione si è venuta presentando come naturale.

L'INFLUSSO DEL NUOVO PARADIGMA SULLE SCIENZE

Non è il caso di sopravvalutare l'influsso personale diretto esercitato da Norber Wiener. E' vero, certo, che egli fu preso a momenti da alcune velleità di "militanza", tra la fine della guerra e la sua morte avvenuta nel 1964: ad esempio prese contatti con alcuni dirigenti sindacali americani e s'impegnò in un ciclo di conferenze internazionali, sino in Unione Sovietica, dove venne bene accolto. Tuttavia il matematico del Mit accantonò quasi subito l'idea di poter diventare un Karl Marx della comunicazione. Il suo atteggiamento in materia era improntato a una sorta di "civetteria anarchicheggiante": Wiener voleva che le idee circolassero, ma che gli uomini restassero in secondo piano rispetto ad esse e coerentemente rifiutava un potere personale. Stando a Robert Vallée, Wiener amava in effetti ripetere: "lo non voglio essere il maestro di nessuno". Il suo influsso sarà soprattutto indiretto, mediato essenzialmente dalla cibernetica, e si rivelerà considerevole a partire dagli anni cinquanta. I principali temi della comunicazione si diffondono allora rapidamente in tutta la comunità scientifica e poi ancor più intensamente al suo esterno.

Le trasformazioni indotte nel mondo scientifico dal radicarsi della problematica della comunicazione nelle varie discipline sono numerose e spesso fondamentali. E' difficile, se non addirittura impossibile, trattare un simile argomento in poche righe. Ci limiteremo a ricordare che, se il progetto iniziale della cibernetica, il quale prevedeva lo sviluppo di un approccio interdisciplinare unificato, ebbe vita difficile, ciò non ha impedito la penetrazione in profondità dei concetti di informazione e di comunicazione nelle singole scienze. Essa s'è realizzata in un primo tempo mediante la "teoria dell'informazione", messa a punto e resa pubblica nel 1948 dall'ingegnere americano Claude Shannon. Come ricordò Abraham Moles in occasione di un intervento a un convegno di Royaumont - uno degli ultimi ai quali assistette Wiener prima della sua morte - dedicato al "concetto di informazione nelle scienze", "la teoria dell'informazione si presenta ormai come una 'grande teoria' nel senso epistemologico di teoria che dà forma ai rapporti tra l'uomo e il mondo che lo circonda". Parallelamente quei concetti si sono diffusi anche per via metaforica: immagini improntate alla comunicazione sono state "prestate" a diverse scienze, esercitandovi duratura influenza; così la biologia si è rinnovata quasi completamente negli anni cinquanta grazie all'impiego della metafora del "programma informatico" applicata alle ricerche sulla genetica. La cibernetica ha prodotto inoltre un approccio unificante: l'analisi sistemica. Le teorie attuali della "autoorganizzazione sono le eredi dirette della primissima "scienza del controllo e della comunicazione".

D'altra parte la cibernetica ha lasciato un segno importante anche in antropologia e più in generale nelle scienze umane, attraverso, tra gli altri, Gregory Bateson e successivamente la scuola di Palo Alto, le cui tesi sono state ampiamente divulgate grazie al contributo di Paul Watzlawick. La sua opera Une logique de la communication costituisce un buon esempio del modo in cui il tema della comunicazione, nella forma proposta dalla cibernetica, è penetrato nel mondo della psicologia e dello studio delle relazioni interpersonali. Watzlawick, i cui libri si collocano al confine tra la scienza e la divulgazione, ha probabilinente svolto un ruolo importante nella diffusione dell'idea secondo la quale "tutto è comunicazione": il che è un bel paradosso, visto che si tratta di uno dei maggiori avversari del pensiero utopico, a vantaggio di una visione pragmatica del mondo.

Numerosi ricercatori sono stati o sono ancora oggi largamente influenzati da una visione del mondo in cui il tema della comunicazione occupa un ampio spazio, come ad esempio in Francia l'antropologo Claude Lévi-Strauss, ideatore dello strutturalismo, o il sociologo Edgar Morin, che elabora un pensiero della complessità che discende direttamente dalla cibernetica. Sarebbe riduttivo fare dello strutturalismo un pensiero della comunicazione, ma è difficile sfuggire alla tentazione di accostare la visione che Lévi-Strauss offre oggi del suo lavoro alla filosofia sostenuta da Wiener mezzo secolo fa. Alla constatazione wieneriana dell'attività umana come creatrice di "isole di entropia localmente decrescente", rispondono come un'eco le parole di Lévi-Strauss: "Nel campo molto ridotto in cui lavoro tento d'isolare, nel caos dei fatti sociali, regioni molto limitate, (... ) ma rimango consapevole del fatto che queste costruzioni regionali non possono essere estese alla totalità dei fenomeni. Sono soltanto isole in una gran massa in cui regna il disordine". Questi fenomeni locali sono per Lévi-Strauss, che ritrova qui accenti wieneriani , rovesciamenti temporanei di una tendenza generale verso la perdita di senso".

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DIVULGAZIONE E L'IMMAGINARIO DELLA FANTASCIENZA

Anche la letteratura divulgativa svolge un ruolo molto importante nella diffusione delle grandi visioni dell'uomo e della società, della nuova utopia di cui Wiener e i cibernetici erano i cantori. In effetti per il mondo della divulgazione la cibernetica è un materiale prezioso, perché sembra fatta apposta per rispondere alle esigenze di quel genere letterario: mette in scena una scienza unificata, globale, e per di più anche attenta alle sue possibili applicazioni. La divulgazione scientifica - come la cibernetica, ma con più forza - mescola costantemente i fatti e le proiezioni estrapolate dai fatti stessi. La letteratura divulgativa è stata pertanto un formidabile amplificatore della comunicazione, intesa non tanto come insieme di fatti scientifici, ma come valore di portata universale. La divulgazione ha così largamente diffuso il tema del "tutto è comunicazione".

Dal canto suo la fantascienza svolge un ruolo essenziale per la promozione della comunicazione come valore costitutivo della "modernità". E' un errore, in effetti, ridurre questa letteratura a un genere marginale, senza grandi effetti sull'evoluzione della società. Certo è vero che le opere di questo genere sono spesso mal scritte e, cosa ancor più grave mal tradotte. Inoltre una buona parte della produzione in questo campo è di cattiva qualità complessiva. Tuttavia la "grande" fantascienza ha svolto un ruolo decisivo, a partire dagli anni quaranta (e anche prima se pensiamo all'opera pionieristica di Jules Verne), nella costituzione dei grandi miti fondatori della modernità. Il suo influsso si esercita in due modi. In quanto testi portatori di idee, gli scritti fantascientifici alimentano l'insieme della cultura e dell'immaginario sociale. Ma un'altra via, poco conosciuta, del potere che la fantascienza ha sulla società è l'irresistibile attrattiva che esercita sull'ambiente più ristretto dei tecnici e degli inventori, soprattutto nel campo delle nuove tecnologie. Gli inventori degli oggetti tecnici che popolano la nostra quotidianità fanno riferimento a un universo di senso, e a un insieme di rappresentazioni sociali, alimentati in maniera consistente dai principali temi della fantascienza.

Come la divulgazione scientifica, la fantascienza è abituata a rimescolare insieme i fatti e le loro conseguenze possibili. In effetti essa non è nient'altro che la rappresentazione concreta di una società nella quale le tecniche di comunicazione hanno un ruolo centrale. In particolare tre autori occupano un posto centrale nell'elaborazione dell'imaginario della modernità, John W. Campbell, Isaac Asimov e Philip K. Dick.

John W. Campbell è, ben prima dell'invenzione del computer, uno dei pionieri del tema dell'intelligenza artificiale. Sin dal 1935 immagina una macchina intelligente che prende il potere e ricaccia l'umanità nello "stato selvaggio primitivo". Questa rappresentazione della tecnica merita tutta l'attenzione, perché, ancora una volta, l'oggetto del discorso è il legame sociale e il modo in cui le macchine possono contribuire a migliorarlo. Secondo Arthur C. Clarke (autore del soggetto del film 2001. Odissea nello spazio) Campbell era regolarmente in contatto con Norbert Wiener al Mit. Certo l'idea presentata da Campbell non era del tutto nuova, ma cominciava ad avere una risonanza particolare negli anni trenta e quaranta e soprattutto non rientra più completamente nella fiction, poiché cominciava ad acquisire una legittimità scientifica. Il lavoro dei primi due "informatici", Alan Turing e John von Neumann, era profondamente influenzato, fin dalla fine degli anni trenta, dall'idea di un "cervello artificiale".

L'autore che ha dato dell'utopia della comunicazione la rappresentazione più esplicita e più influente è probabilmente l'americano Isaac Asimov, al tempo stesso scrittore di fantascienza e divulgatore assai apprezzato. Le opere di Asimov si collocano nella corrente, nata negli anni cinquanta, che Jacques Goimard chiama "fantascienza sociale". La preoccupazione degli autori raggruppati in tale corrente - in particolare il gruppo della rivista americana "Astounding", di cui facevano parte numerosi scienziati - era quella di salvaguardare a ogni costo l'ottimismo nei confronti della scienza in un contesto in cui le distruzioni di Hiroshima avevano profondamente turbato il pubblico. Secondo Goimard, quegli autori cercavano di promuovere una scienza che "liberasse l'uomo dal male".

In quanto genere nuovo la fantascienza sociale doveva permettere d'immaginare possibili applicazioni di risultati scientifici attuali o futuri, il tutto in una prospettiva ottimistica. Asimov, infaticabile redattore di oltre cinquecento pubblicazioni, ha quindi esplorato in modo esaustivo tutte le situazioni che i progressi della scienza appaiono destinati a produrre in futuro. In particolare ha inventato le famose "tre leggi della robotica", una sorta di codice deontologico a cui gli inventori dovrebbero assoggettare le macchine intelligenti che creano, al fine di regolare al meglio le comunicazioni tra gli uomini e i robots.

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6
Le ambiguità
della comunicazione

L'utopia di Wiener è divenuta realtà? Viviamo oggi in una "società della comunicazione"? La risposta dipende naturalmente dal significato che si conferisce a quest'espressione. Come sottolinea con forza George Balandier, parlare di "società della comunicazione" da un certo punto di vista costituisce una ridondanza. Infatti gli uomini, attraverso il linguaggio e i segni non verbali, si sono sempre scambiati informazioni su se stessi e sugli altri, sulle loro azioni e sul loro ambiente. Probabilmente hanno sempre utilizzato "tecniche di comunicazione", materiali o intellettuali che fossero.

In questo senso le società umane sono sempre state tutte "società della comunicazione" e tale attività si presenta come un dato antropologico permanente. L'evoluzione storica si è però messa in moto con l'impulso dato dall'invenzione della scrittura e poi dalla retorica, e si è manifestata una forte dinamica innovativa in questo campo. E' storicamente nuovo, inoltre, il valore sociale che oggi si assegna a queste tecniche.

Con la teoria della comunicazione è ricomparsa la vecchia tentazione di uno schema esplicativo centrale, di un tema vitale unico, in grado di attraversare, inglobandole, tutte le attività umane. Il più diffuso luogo comune del nuovo paradigma è l'affermazione secondo la quale "tutto è comunicazione". In questa prospettiva sarebbe sufficiente scoprire le leggi generali del funzionamento della comunicazione per elaborare una concezione unitaria del mondo e, soprattutto, per disporre dei mezzi per dominarlo.

La comunicazione e le sue tecniche si presentano come un superiore rimedio a tutte le disfunzioni della nostra società. La politica del governo è buona, ci viene detto, ma se viene mal compresa dagli elettori la causa è l'esistenza di un "problema di comunicazione". L'impresa offre buoni prodotti, ma la sua "immagine" è "indefinita" agli occhi delle clientela, il che spiega il suo "cattivo inserimento sul mercato". La tale persona si trova "male nei suoi panni", poiché comunica male e la sua immagine non è "positiva". L'occupazione, la cittadinanza, l'educazione sono in crisi, le autostrade della comunicazione rimedieranno.

Oggi nel discorso sociale la comunicazione funziona sempre più sistematicamente da rimedio universale, se non da unico rimedio possibile. Ogni problema può così essere affrontato in modo "razionale" grazie alla "comunicazione", portatrice al tempo stesso della "trasparenza" nell'analisi e del "consenso" nella soluzione.

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Le "scienze della comunicazione" hanno certo conosciuto un big bang iniziale (ampiamente descritto nei primi capitoli di questo libro), ma successivamente la loro traiettoria è stata piuttosto quella di una scomposizione, di una dispersione e di una specializzazione. Si tratta di un fatto positivo, nel senso che la specializzazione è qui sinonimo di potenziale rigore. Il prezzo dell'inserimento della comunicazione tra le materie accademiche universitarie è stato forse quello di rinunciare alla multidisciplinarità radicale consustanziale alla cibernetica delle origini.

Inoltre, per chi ancora credesse all'esistenza di una scienza della comunicazione unitaria, bisogna ricordare che i differenti campi di ricerca coperti dagli studi sulla comunicazione sono attraversati da un confine per molti aspetti simile a una trincea in cui - da una parte e dall'altra - specialisti tra loro inconciliabili combattono da tempo una guerra di logoramento. Da un lato si trovano gli scienziati, ricercatori, ingegneri o tecnici, e dall'altro i letterati o gli specialisti delle scienze sociali. I primi rifiutano di riconoscere scientificità ai secondi; questi, a loro volta, contestano ai primi la capacità di trattare veramente la dimensione umana o sociale delle tecniche che mettono a punto. Affermare che tra i due campi esiste una scarsa fiducia è un eufemismo; tutto li divide e soprattutto una differenza culturale: i primi rientrano in quella che si potrebbe chiamare una "cultura dell'evidenza razionale", mentre i secondi sono immersi in una "cultura dell'argomentazione", anche se lo negano.

La cibernetica delle origini era riuscita a sopprimere tale divisione, per non più di un decennio, ma essa s'è rapidamente riformata, dato che la "scienza del controllo e della comunicazione" di Wiener s'è scomposta in molteplici discipline. Da questo punto di vista è importante notare che è proprio la storia e il richiamo al passato a fondere quel tanto di unità che ancora esiste fra i diversi filoni di studio. Quando Paul Watzlawick sostiene la legittimità scientifica dei lavori della scuola di Palo Alto, insiste sul loro carattere interdisciplinare e fa direttamente riferimento agli antichi concetti della cibernetica. Tutt'altro che dirigersi verso l'unificazione, le "scienze della comunicazione" vanno al contrario verso una crescente dispersione e alcuni dei loro temi si spostano verso un'altra "interdisciplina", le scienze cognitive. La comunicazione come valore generale, dunque, non può richiamare ad alcun fondamento scientifico particolare.

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L'impero dei media


Uno strano fenomeno si sta sviluppando sotto i nostri occhi: lo spostamento e l'assorbimento della parte essenziale delle attività umane all'interno del mondo dei media. E tuttavia difficile distinguere, in tale spostamento, la parte effettivamente realizzata da quella fantasmatica, che rientra nel campo del desiderio, espresso soprattutto dai mediatori e dai proseliti della nuova utopia. Si sa che Baudrillard dà per già realizzato tale assorbimento, al punto che ogni affermazione sul fenomeno potrebbe ormai prodursi solamente all'interno dell'universo delle rappresentazioni mediatiche, quindi essere immediatamente distorta. Questa problematica ricorda le invenzioni terrificanti di Philip K. Dick, in cui i personaggi non hanno più punti di riferimento che permettano loro di determinare se si trovano nell'universo "reale" o in una delle sue molteplici rappresentazioni.

Uno dei primi effetti della trasposizione utopica delle nuove tecniche di comunicazione e dei media è un radicale spostamento del ruolo e della funzione dello strumento rispetto alle sue finalità. Si potrebbe parlare di una sorta di idolatria dello strumento. Sarebbe una versione contemporanea dell'adagio classico: la comunicazione non è più fatta per l'uomo, ma l'uomo per la comunicazione. L'effetto perverso di una simile inversione, in cui il mezzo si trasforma in fine, risiede nel fatto che lo strumento non serve più a realizzare ciò per cui era stato ideato e finisce per funzionare soltanto per se stesso.

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La confusione tra informazione e conoscenza

In un testo apparso nel 1981, Denis de Rougemont insisteva sulla fondamentale differenza che a suo parere esisteva tra "informazione" e "sapere", tra "informazione" e "conoscenza". L'autore andava in tal modo nettamente controcorrente, contrapponendosi a una tendenza di massa, benché poco rigorosa nelle sue argomentazioni, per la quale l'accesso all'informazione era sinonimo di accesso al sapere. La crescente diffusione del tema dell'informazione nei costumi intellettuali è stato il corollario di un progressivo assorbimento, attraverso quella nozione, di significati talvolta distanti, mentre di solito l'apertura di un nuovo campo di riflessione conduce a una restrizione e a una specializzazione dei termini. In tal modo s'è progressivamente manifestata una certa confusione tra il fatto di disporre di un'informazione e quello d'interiorizzare una conoscenza. Uno dei primi informatici universitari francesi, Jacques Arsac, aveva intuito ben presto il pericolo quando denunciava, sin dal 1968, la confusione creatasi tra l'informazione e il senso. Secondo lui, l'informatica non poteva davvero progredire come scienza concreta, se non rinunciando a quella mescolanza. Gli informatici ormai dovevano occuparsi soltanto della forma e lasciare la questione del senso e delle finalità a coloro che ne avevano l'incarico al loro livello. Allo stesso modo, a suo parere, i progetti di intelligenza artificiale non sono affatto pertinenti, visto che tendono a realizzare una simulazione del senso ad opera di una macchina. Jacques Arsac, come Denis de Rougemont, ha predicato a lungo nel deserto, tale è la confusione concettuale che la nuova utopia ha generato nel cuore del campo scientifico.

Si potrebbe fare la stessa osservazione a proposito dell'informazione mediatica. Uno degli inconvenienti provocati oggi dai media è il fatto che l'uomo moderno crede di avere accesso al significato degli eventi semplicemente perché è informato. Ora, per quanti sforzi ci possa mettere un medium, per quanto buono sia il lavoro che i giornalisti vi dedicano, l'informazione giunge sempre a una soglia in cui non è in grado di rendere conto del senso dell'evento. L'immagine di un bambino che muore di malnutrizione o più semplicemente quella della vita quotidiana in una città straniera descritta in un reportage non possono assumere alcun senso autentico senza un'esperienza vissuta della situazione in questione. L'informazione, per quanto sia ben fatta, non può restituire o rimpiazzare l'esperienza. Da questo punto di vista oggi la situazione è paradossale: si possono provare sentimenti più intensi per una fiction televisiva o cinematografica che per la visione attraverso uno schermo delle sventure reali del mondo.

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Il nuovo individualismo
e l'aumento della xenofobia


Che l'utopia si realizzi oppure no, la sua semplice esistenza come ideale produce comunque effetti concreti, soprattutto nell'incoraggiamento delle nuove forme di individualismo che caratterizzano le società moderne della fine del XX secolo. Queste nuove forme, che per ora sono solamente allo stato nascente, sono tanto più difficili da individuare in quanto si associano a un'imponente dinamica collettivistica. Oggi il sistematico ricorso alla comunicazione produce due effetti apparentemente contraddittori: un'omogeneizzazione planetaria dei gusti, delle norme e dei comportamenti, la costruzione di uno spazio pubblico universale, e, al tempo stesso, un ripiegamento dell'individuo su se stesso. Tale scenario potrebbe condurre a un modello di legame sociale in cui l'individuo, solo e fisicamente murato nel suo "salone multimediale", potrebbe virtualmente comunicare con il mondo intero. Il neoindividualismo, e i condizionamenti che potrebbe far pesare sulle coscienze, è connesso all'aumento attuale della xenofobia. Certo essa deriva da fonti più tradizionali, addirittura arcaiche, che non possono essere incoraggiate dall'apologia di un'universalità senza contenuto. Tuttavia, il modello dell'uomo moderno, come aveva osservato Asimov con un'intuizione folgorante, privilegia al tempo stesso la ricerca sfrenata di un contatto "virtuale" ed evanescente e il rifiuto, addirittura il disgusto per ogni reale contatto con gli altri. Quel modello è rafforzato dalla diffusione di un ideale di "purezza" che sembra riguardare sempre più i comportamenti individuali. Questi ultimi tratti delineano il profilo di una nuova xenofobia, che non riguarda più le reazioni di un popolo nei confronti di altri popoli, ma quelle di un individuo nei confronti degli "altri", categoria generica propria del neoindividualismo della "società della comunicazione". In questo nuovo immaginario si potrebbe accettare tutto degli altri, purché restino a distanza. Ma in fin dei conti non è proprio questo il significato originario di "xenofobia"?

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L'ILLUSIONE DELLA LIBERAZIONE ATTRAVERSO LA COMUNICAZIONE

La nuova utopia genera oggi un'illusione maggiore, quella dell'onnipotenza liberatrice della comunicazione. Essa si articola in due credenze. Da un lato il solo fatto di comunicare sarebbe sufficiente per vivere armoniosamente in società. Dall'altro la comunicazione potrebbe tecnicizzarsi, vale a dire essere l'oggetto di un sapere pratico facilmente manipolabile. "Parlate e tutto andrà meglio" è divenuto un vero e proprio luogo comune moderno.

Su questa illusione proliferano attualmente tutte le "formazioni" che propongono il raggiungimento della "pienezza di sé" tramite l'accesso a "tecniche razionali". La moderna ricerca della felicità passerebbe in tal modo attraverso un apprendimento tecnico della comunicazione. Tuttavia il fatto che i numerosi stages per raggiungere la "pienezza personale" s'indirizzino spesso a persone socialmente in difficoltà dà una particolare tonalità alla ricerca della felicità, che in questo contesto appare piuttosto come la ricerca della minore "infelicità". La comunicazione non può mai apportare un di più, un'autentica novità: il più delle volte il suo ruolo si limita a ridurre un disordine e ripristinare una situazione. Da qualunque angolatura la s'intenda, la comunicazione è un valore di reazione.

Le teorie che propongono la strumentalizzazione della comunicazione - come ad esempio la programmazione neurolinguistica - si presentano spesso come valide sia per aiutare persone in difficoltà, in forma di sostegno psicologico, sia per formare manager o quadri commerciali capaci di convincere e di risolvere situazioni di comunicazioni complesse. Le teorie dette di "Palo Alto" sono dello stesso tipo: valide sia per il management, sia per la psicoterapia. C'è una stranezza che sino ad ora è stata poco rilevata: com'è che le medesime "tecniche di comunicazione" possono operare su registri tanto differenti? Anche qui si ripropone pari pari l'illusione di un'unica chiave universale capace di aprire tutte le porte. La comunicazione, nella sua forma utopica, è un universo semplificato, strettamente dicotomico, in cui non esistono alternative all'informazione, all'infuori dell'entropia. In quest'ottica l'entropia è un'ampia categoria che ingloba tutto ciò che si oppone all'informazione. Le turbe della personalità e la cattiva circolazione di un messaggio in un'impresa rientrano in una medesima struttura: tutto ciò che non è informazione sarebbe "rumore", "disordine", "patologia". L'attività umana, però, appare difficile da inquadrare in una simile alternativa strettamente binaria.

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Conclusione


All'inizio di questo libro ci siamo domandati perché la comunicazione abbia assunto tanta rilevanza nella nostra società. Gli elementi che sono appena stati forniti indicano una possibilità di risposta: la comunicazione è divenuta in sostanza un'utopia; o meglio, ha in qualche modo assorbito una gran parte della speranza utopica della quale sono capaci le nostre società. In questa chiave, il sistema di valori formatosi attorno alla comunicazione s'è progressivamente affermato come una possibile alternativa alle ideologie e alle rappresentazioni "classiche" dell'uomo. Tuttavia non è certo che quest'utopia abbia un autentico avvenire e che i media, ad esempio, rimangano ancora a lungo il polo di attrazione credibile che sono oggi.

Originatosi nei tormenti di una lunga guerra mondiale e nei soprassalti di un drammatico degrado del legame sociale, il ricorso universale alla comunicazione è fortemente legato alle specifiche circostanze storiche che gli conferiscono senso e portata sociale. Sembra tuttavia certo che i mutamenti delle nostre società non verranno messi in moto dalla nuova utopia, e che la "società della comunicazione" sia per molti aspetti un mito, come ci indicano tutti gli effetti perversi descritti.

A guardarla da vicino, la situazione che conosciamo oggi non è nuova. Il comunicare, e l'elaborare tecniche destinate a questo scopo si presentano insieme come una costante antropologica e come un quadro di pratiche fortemente condizionate dai casi della storia. La comunicazione e le sue tecniche sono indubbiamente costitutive dell'umanità stessa e, per quanto "primitivo" fosse, l'uomo della preistoria dedicava senza dubbio una parte importante della sua energia non soltanto a comunicare, ma anche a riflettere su come far funzionare la comunicazione. L'ipotesi secondo la quale la base stessa dell'umanità starebbe proprio in quella riflessione forse non è destituita di ogni foridamento, per quanto speculativa essa sia. Da questo punto di vista l'uomo è un essere comunicante, in parte strutturato dalla pulsione a "uscire da sé" che lo anima senza posa. Tuttavia, la comunicazione non è tutto - salvo nella prospettiva appena descritta - e non è sempre una preoccupazione centrale degli uomini.

Proprio a questo punto entra in scena la storia che introduce una serie di variazioni rispetto a questa costante antropologica. Dal punto di vista della comunicazione e della sua realizzazione sociale, in effetti, esiste un abisso ad esempio tra il secolo VIII della nostra era - in cui le vie di comunicazione fisiche sono chiuse quasi ovunque, in cui i servi sono legati alla terra e in cui le idee contenute nei libri rimangono accantonate nelle biblioteche - e il periodo sfarzoso di Cicerone, talmente ricco e intenso dal punto di vista della riflessione sulla funzione comunicativa e argomentativa del linguaggio che probabilmente nessun periodo storico, neppure il nostro, può sostenerne il confronto.

Perché alcune epoche sono "comunicative" e altre no? La domanda potrebbe essere l'oggetto di un altro libro, che dovrebbe avere una prospettiva più vasta. Questo risponde solamente - in modo del resto imperfetto - alla domanda relativa al XX secolo, in cui è chiaro che s'è stabilito un rapporto tra la crisi del legame sociale e dei sistemi di rappresentazione da un lato e la crescita della comunicazione come utopia, dall'altro.

Al momento di concludere è senza dubbio opportuno insistere su due idee utili a collocare in modo migliore l'analisi, piuttosto critica, che è stata proposta. In primo luogo non bisognerebbe evitare, come si suol dire, di "gettare il bambino con l'acqua sporca"? Non si deve cercare di distinguere nel modo più chiaro possibile tra la comunicazione, come dato importante ma parziale dell'attività umana, e gli sconfinamenti utopici di cui costituisce attualmente l'occasione e che ne fanno l'unico punto di vista sul mondo? Inoltre - cosa che concerne il discorso che attualmente l'accompagna più che la comunicazione stessa - non dovremmo cogliere quest'occasione per riflettere più in generale sul nostro rapporto moderno con l'utopia?

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