Autore Camillo Brezzi
Titolo L'ultimo viaggio
SottotitoloDalle leggi razziste alla Shoah. La storiografia, le memorie
Edizioneil Mulino, Bologna, 2021 , pag. 176, cop.fle., dim. 15,4x21,3x1,1 cm , Isbn 978-88-15-29158-5
LettoreLuca Vita, 2021
Classe storia contemporanea d'Italia , storia criminale , storia contemporanea , storia: Europa , paesi: Italia: 1940 , shoah , guerra-pace












 

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Indice


Perché questo libro                        7

I     La storia, le storie                17

      La Shoah                            17
      La politica razzista del fascismo   29
      Il nazifascismo in Italia           45
      Il Giorno della memoria             63
      Auschwitz                           72

II.   Arresto                             79

III.  Treno                              105

IV.   Judenrampe                         123

Grazie...                                167

Indice dei nomi                          171


 

 

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Pagina 7

Perché questo libro


                            Il viaggio verso Auschwitz - pochi ne parlano perché
                            pochi sono tornati - è uno dei capitoli più terribili
                            della Shoah. Il mio è durato sei giorni.
                                                                    Liliana Segre

                            Nessuno però ci aveva detto che la nostra idea di
                            peggio era uno scherzo in confronto all'inferno che
                            ci attendeva.
                                                                     Sami Modiano

                            Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo,
                            la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una
                            disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo.
                                                                       Primo Levi



È ormai noto a tutti che nei primi mesi del 2020 il nostro Paese è stato colpito dalla propagazione del covid-19. Anch'io ho seguito con una certa apprensione (alla metà di luglio avrei compiuto 78 anni) le notizie che stampa, televisione, radio ci comunicavano sugli sviluppi e sulle misure alle quali come cittadini dovevamo attenerci. In una simile grave situazione, sono rimasto stupito dal fatto che in breve la dichiarazione maggiormente ripetuta, con estrema superficialità, sulle pagine della stampa, dai teleschermi di tutte le reti, nei vibranti interventi nelle aule parlamentari era «siamo in guerra». Inizialmente pensavo a una boutade, ma in breve è diventato un coro. Per accrescere il clima di pericolo nei preoccupati ascoltatori dei talk show televisivi, quasi sempre il tuttologo di turno attirava l'attenzione con una forte dichiarazione: «siamo in guerra». Quindi, abbassando la voce e con il tono rassegnato, aggiungeva: «anzi, contro un nemico invisibile». Invisibile? Contro il quale non si può sparare, non lo si può eliminare. Quasi a sottintendere che oggi, nel 2020, si sta peggio, per esempio, dei nostri genitori o nonni, che videro attraversare il paese da eserciti ben «visibili». Mi auguro non si volesse rendere invidiabile la situazione delle popolazioni di Sant'Anna di Stazzema che, il 12 agosto 1944, avevano avuto la possibilità di vedere i soldati in divisa della Panzergrenadier-Division tedesca marciare tra le vie del loro paese e attuare un imponente rastrellamento con l'uccisione di 394 civili, tra cui donne, bambini, anziani, mitragliati senza distinzione sulla piazza davanti alla Chiesa o rinchiusi nelle case e nelle stalle che poi furono incendiate. Non credo si voglia rendere paragonabile la condizione degli abitanti di una trentina di località tra Monte Sole e Marzabotto che tra la fine di settembre e gli inizi dell'ottobre 1944 videro, chiaramente, salire il Battaglione tedesco guidato da tre SS, il generale Max Simon e i maggiori Helmut Loos e Walter Reder, che uccisero 770 persone, tra cui 392 donne, 189 bambini. Mi domandavo: possibile che l'attuale classe dirigente (giornalisti, imprenditori, rappresentati del popolo, qualche intellettuale) di un paese, quale l'Italia, sia così ignorante? È possibile essere così superficiali di fronte a una situazione, certamente, inaspettata, sicuramente preoccupante, ma che impone nella maggioranza dei casi al massimo alcune limitazioni nei nostri movimenti? Mi sfogavo in lunghe telefonate con amici carissimi (Patrizia, Stefano, Umberto, Marcello), ai quali proposi di scrivere insieme una lettera da inviare ai giornali, ma la nostra protesta rimase, anch'essa, chiusa in casa. L'attuale classe dirigente non ha mai visto una guerra (per sua fortuna), ma è sufficiente un film o una fiction televisiva (non voglio fare il saccente professore indicando un libro) per conoscere qualcosa dei bombardamenti e delle distruzioni di case che hanno contraddistinto il nostro territorio, degli arresti e delle stragi, dei paesi minati, insomma di quella «guerra totale» che irrompe nelle case di tutta Europa, che fu alla base di un dramma collettivo vissuto da donne e uomini, da giovani e anziani sia nelle città come nelle campagne.

Sono stato spinto, quindi, a riflettere sulla guerra vera, o meglio, su un preciso momento, in particolare, su una delle fasi più tragiche della seconda guerra mondiale. Ho riletto e mi sono soffermato su alcuni testi che in questi anni hanno rappresentato delle tappe, tra le più importanti, per far conoscere la Shoah. Sono ripartito dalle «memorie», per tornare alla viva voce di chi, una volta sfuggito dal campo di sterminio, poco dopo o a distanza di tanti decenni, ha avuto la forza di raccontare, di testimoniare, di far sapere a noi che viviamo nelle nostre tiepide case cosa era accaduto. Mi sono soffermato ad analizzare e ad approfondire un aspetto dell'intero fenomeno, il passaggio iniziale alla soluzione finale. Il viaggio. Per la stragrande maggioranza degli ebrei italiani trasferiti con la forza in Germania o in Polonia, è stato l'ultimo viaggio. Secondo quanto ha osservato Carlo Greppi, «non è stato dato grande spazio a questo viaggio, quasi universalmente considerato il primo, definitivo passo della trasformazione da uomini, donne, vecchi, bambini, in deportati». Nella ormai ricca memorialistica, questo passaggio «è stato relegato in un angolo della coscienza storica collettiva»; quasi che agli stessi testimoni sia «sfuggita» «l'importanza di questo tratto delle vicende tutt'altro che irrilevante». La storiografia si è limitata a poche righe. Quasi «un dettaglio», certamente un «cruciale dettaglio, evocativo ma soprattutto funzionale nei piani dei nazifascisti, tentativo pianificato - e talvolta riuscito - di precoce disumanizzazione». Un viaggio che ogni prigioniero, condotto ai campi di sterminio, compie con le medesime modalità: può apparire un'immagine sempre uguale, una reiterata azione, una ripetizione continuata. Il treno, innanzitutto. I vagoni (usati solitamente per il trasporto di animali); i prigionieri stretti, pressati uno all'altro; un bidone da utilizzare per i bisogni corporali; i giorni e le notti che si susseguono; la fame e la sete; le urla di comandi (che non si comprendono).

[...]

Ho chiesto di accompagnarmi in questo viaggio a sette testimoni, ebrei italiani, i quali furono avviati alla soluzione finale partendo da Milano, da Fossoli, da Fiume, da Roma, da Atene, da Rodi: la destinazione è la stessa, Auschwitz. Come ho già accennato, anche se il tema è uguale per tutti í deportati, differisce il modo di raccontare, gli aspetti su cui ci si sofferma, la capacità di coinvolgimento, il tacere.

[...]

La mia scelta delle fonti è stata arbitraria, ovviamente legata alle mie letture, ai vari momenti di studio, ai miei incontri con i testimoni. Ho dato alla trattazione un ordine cronologico, dall'arresto al conseguente viaggio verso Auschwitz, ho iniziato con la tredicenne Liliana Segre , seguita da Primo Levi , il più anziano dei «miei» testimoni, ha già compiuto 24 anni quando arriva al campo, le sorelle Tatiana e Andra Bucci hanno sei e quattro anni e mezzo, Shlomo Venezia ha 20 anni, Piero Terracina ne ha 15 e mezzo, Sami Modiano ne compie 14 durante il viaggio verso Auschwitz. Ho utilizzato testi noti in quanto esemplari per far conoscere e sensibilizzare l'opinione pubblica sulle sofferenze dei mesi al campo. In particolar modo ho analizzato i giorni compresi tra l'arresto da parte dei fascisti o dei nazisti, il viaggio in treno e l'arrivo alla tappa finale, la Judenrampe. Mi sono limitato a svolgere solo alcuni accenni ai mesi di permanenza nel campo di sterminio, non perché questo passaggio sia più conosciuto, ma per meglio precisare l'esperienza della prigioniera o del prigioniero, essendo ben consapevole, però, che i testimoni, così come tutti i sommersi, una volta entrati nel campo di sterminio (qualunque sia il Lager) si sentivano senza futuro.

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Pagina 79

Capitolo secondo

Arresto


1. Nei primi giorni del dicembre 1943 il padre della tredicenne Liliana Segre, va a prendere la figlia a Castellanza dove era sfollata da «amici eroici, di quelli con la A maiuscola», dopo essere stata nell'ottobre del 1942 a Inverigo, in Brianza, poi a Ballabio, in Valsassina, e le confida: «andiamo in Svizzera». Aveva contattato dei contrabbandieri che trasportavano oltre confine antifascisti, ebrei e renitenti alla leva, «in cambio di cifre altissime» (45.000 lire, più altre 1.000 «per trascorrere la notte in una catapecchia, ospiti di una megera gelida come l'aria lì intorno»). Sulle montagne sopra Varese, nella zona di Viggiù, inizia la fuga verso la Svizzera. La bambina si sentiva un'eroina, come in qualche raro film visto, già s'immaginava di scalare le vette, per poi raggiungere, come in un lieto fine, la libertà. L'8 dicembre passano attraverso il buco nella rete del confine «eravamo in suolo svizzero, ce l'avevamo fatta!». Senonché due sentinelle li fermano, li portano, senza dire una parola, al comando di polizia di Arzo, primo paese del Canton Ticino, dove, dopo ore di attesa, «l'ufficiale di turno ci condannò a morte. Ci trattò con disprezzo estremo, disse che eravamo degli imbroglioni. Ci rimandava indietro». Neppure i pianti, le suppliche di una bambina, in quel momento terrorizzata, gli fanno cambiare idea: «Lui mi scacciò come si scaccia un cane». Stava per concludersi una «infinita giornata di dicembre, cominciata all'alba tra fibrillazione e gioia, e finita in disperazione». Le sentinelle armate («sghignazzanti») riconducono padre e figlia sulla montagna, costretti a percorrere a ritroso il cammino del mattino.

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Pagina 105

Capitolo terzo

Treno


1. Quando il treno lascia la stazione di Milano Liliana comprende che lei e suo padre sono «entrati in una dimensione che ci era completamente sfuggita», «cominciava, per noi, un destino di schiavitù». Il treno procede lentissimo, con soste, dalle grate si intravedono stazioni, paesini coperti di neve; una inversione di marcia fa capire che si dirige verso Nord, verso l'Austria. «Eravamo in sessanta pressati dentro a quella scatola chiusa, fetida, fredda: puzza di urina, visi grigi, gambe anchilosate. I pianti si acquietavano in una disperazione assoluta». Liliana evidenzia tre momenti che contraddistinguono l'umanità stipata nel vagone. «All'inizio fu il tempo del pianto: piangevano tutti, lacrime che salivano al cielo mute, nessuno poteva sentirle». Dopo ci fu la preghiera (non tutti):

i più fortunati pregavano, e gli uomini ebrei avvolti nello scialle da preghiera che avevano conservato, si riunivano più di una volta al giorno nel centro del vagone e salmodiavano dondolandosi come fanno i religiosi ebrei, lodando Dio perfino in quella situazione, e lo facevano anche per noi che non sapevamo pregare.

Infine il silenzio. «Un silenzio solenne, importante, più denso di qualsiasi pianto o preghiera. Non c'è più nulla da dire. Era il silenzio delle ultime cose, quando si è soli con la propria coscienza e la sensazione che stiamo tutti per morire. Quando stai per morire non puoi che tacere». Seppure ammassati, in silenzio o raccolti in preghiera, «c'è un mondo in ognuno di noi». Ciascuno capisce che è importante pensare, anche se non hai più nulla, anzi ti hanno tolto tutto, l'orologio, un piccolo gioiello, ti hanno cominciato a umiliare, ma «non sei ancora morto, non sei arrivato all'ultima stazione».

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Pagina 123

Capitolo quarto

Judenrampe


1. Quando il 6 febbraio 1944 il treno su cui viaggiano la tredicenne Liliana e il padre si ferma, «al silenzio che aveva paralizzato l'ultima parte del nostro viaggio si sovrappone il rumore osceno degli assassini che aprivano le porte dei vagoni. Era la stazione d'arrivo degli ebrei, la Judenrampe, a meno di un chilometro dal Lager di Auschwitz II-Birkenau». In seguito, nella seconda metà di maggio, in vista dei numerosi trasporti, specie provenienti dall'Ungheria, la rampa venne denominata Bahnrampe e modificata in modo che i convogli entrassero direttamente all'interno del campo al fine di rendere più veloce l'ingresso dei prigionieri e la relativa selezione. Luciana Nissim ha ricordato come «dalle baracche vedevi arrivare i treni e la selezione. Tu li vedevi che arrivavano uno dopo l'altro, uno dopo l'altro». Appena scesa dal vagone, Liliana sente ordini precisi (seppure incomprensibili), si dovevano mettere in fila, dovevano lasciare a terra i bagagli, dovevano farlo velocemente e in maniera precisa. «La visione che si aprì davanti ai nostri occhi era tremenda: una spianata di neve nell'inverno polacco, le SS con i loro cani al guinzaglio, e poi fischi, latrati, comandi. Io non capivo nulla». Liliana ci fa conoscere un ulteriore aspetto di questo primo impatto tra gli aguzzini e le loro vittime. Gli «sguardi di ghiaccio» delle SS erano accompagnati da una specie di «sorrisetto» che sembrava dire: «Calmi: state tutti calmi. Noi vogliamo solo registrarvi. Stasera le famiglie saranno di nuovo riunite e tutti insieme andrete in un campo di lavoro». E aggiunge: «lo volevamo credere»; a chi traduceva quelle frasi «noi volevamo credere pazzamente». Nel momento in cui divisero gli uomini a sinistra e le donne a destra, Liliana fu costretta a lasciare la mano del padre (che fino ad allora l'aveva rassicurata) e, mentre ognuno si incamminava nella fila assegnata, «continuavamo a fissarci da lontano e io, con gli ultimi sguardi, lottando per non piangere, gli facevo dei sorrisi, gli mandavo dei ciao...». Non si rivedranno più.

Il passaggio immediatamente successivo è rappresentato dalla selezione dell'arrivo, la prima di una tragica sequenza, un inimmaginabile «tribunale per la vita o per la morte». Dei seicentocinque ebrei (più della metà donne) che facevano parte di quel treno partito da Milano trentuno donne e novantasette uomini furono avviati all'immatricolazione, tutti gli altri entrarono direttamente nelle camere a gas. «Entrai nel campo insieme ad altre ragazze scelte per la vita e non per il gas: ci fu risparmiata la morte istantanea senza un criterio preciso. Semplicemente "Tu sì, tu no". E io mi ritrovai viva senza merito alcuno, forse perché ero alta e dimostravo più dei miei tredici anni». Iniziano i primi interrogativi, senza risposta. «Ma perché?», guardandosi intorno sbalordite. «Dove siamo? Che posto è questo?», è un incubo o è realtà? Non c'è tempo per rendersi conto di cosa stia succedendo che già sono spinte dentro una baracca «dove ci denudarono completamente portandoci via tutto della nostra vita precedente, perfino il fazzoletto». Se nei Lager «il corpo di ogni singolo ebreo è l'oggetto totale di annientamento», Anna Rossi-Doria ha sottolineato come il ricordo delle umiliazioni e delle offese per le donne fu «in primo luogo la nudità». Il tutto avveniva, lo rammenta Liliana, sotto lo sguardo di «disprezzo», di «disgusto» delle SS. Atteggiamento che è una costante nei vari Lager da parte delle SS per

il poco conto, il disprezzo, in cui al campo erano tenuti gli italiani. All'origine di questo atteggiamento - ha scritto Boris Pahor - c'era lo spaventoso furore tedesco contro il popolo che aveva nuovamente tradito, come aveva già tradito in occasione della prima guerra mondiale. E questo disprezzo tedesco si era trasmesso a tutti quelli che, nella lotta per la sopravvivenza, avevano assunto nel campo una qualche autorità sulla folla anonima.

«Cercavamo di coprirci in qualche modo, come riuscivamo, mettendoci una davanti all'altra: impietoso era il tutto. Animalesco». L'ennesima umiliazione consiste nello spogliarle anche dei capelli, «il nostro ultimo, sottile strato di personalità».

[...]

Le ragazze francesi proseguono nelle informazioni e rendono Liliana edotta sui comportamenti utili per la sopravvivenza. «Non siamo più nessuno, siamo schiave, ragazze-nulla. Chiunque qui ha potere di vita e di morte su di noi. Imparate subito il tedesco, ubbidite ciecamente, non guardate mai in faccia le guardie perché è proibito. Cercate di vivere, di sopravvivere». Liliana (e le ultime arrivate) pensano siano pazze; che Auschwitz sia «uno sterminato manicomio». Dalla finestra della baracca vede il fumo della ciminiera. Mentre ascoltano quei discorsi piangono. «Non volevamo sentire». Nel giro di pochi giorni «smisi di piangere»: è l'inizio di un processo di «indurimento, di egoismo, di separazione dalla realtà».

[...]

2. Sulla rampa in pochi minuti si formano due file di «validi». Degli oltre cinquecento ebrei che erano arrivati nel treno in cui aveva viaggiato Primo, al campo ne entrano novantasei uomini e ventinove donne, mentre trecentosettantacinque persone saranno avviate alle camere a gas. Insieme a una trentina di uomini, Primo viene fatto salire su un camion che dopo venti minuti (in una corsa a tutta velocità) si ferma davanti a una grande porta con una scritta illuminata: «Arbeit macht frei». Vengono fatti entrare in un'ampia camera vuota; una SS, fumando, comincia pacatamente a dare ordini (tradotti da un certo Flesch); bisogna mettersi in fila per cinque; bisogna spogliarsi; fare un fagotto degli abiti; togliersi le scarpe. «Non avevo mai visto uomini anziani nudi». Poi entrano in quattro con rasoi, pennelli e tosatrici: «ci troviamo rasi e tosati. Che facce goffe abbiamo senza capelli!». Passano oltre, tutti nudi, in una sala di docce: «se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano ancora». Restano così a lungo, svestiti, senza fare la doccia, con una gran sete, e nessuno che spieghi loro qualcosa. «La mia idea è che tutto questo è una grande macchina per ridere di noi e vilipenderci, e poi è chiaro che ci uccidono». Entra di nuovo il tedesco e parla brevemente all'interprete, che riferisce: «Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché questa non è una scuola rabbinica». Ora cala il silenzio. Entra uno vestito a righe (non è un ebreo, ma un «criminale») che parla malamente l'italiano e fornisce alcune informazioni: ci troviamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz; questo è un campo di lavoro, Arbeitslager; i prigionieri sono circa diecimila e lavorano a una fabbrica di gomma, la Buna; riceverete scarpe e vestiti; ora siete nudi perché dovete fare la disinfezione, senza questa non si entra nel campo.

[...]

L'ultimo passaggio per considerarsi definitivamente un Häftling, è il venir essere «battezzato» e il nome di Primo Levi d'ora in poi sarà 174517, tatuato sul braccio, da un abile funzionario «munito di una specie di punteruolo dall'ago cortissimo». In seguito Primo ricorderà che ad Auschwitz, a partire dal 1942, oltre che sugli abiti iniziarono a tatuare il numero sull'avambraccio sinistro: «l'operazione veniva eseguita con metodica rapidità da "scrivani" specializzati». Facendo riferimento «al tipico talento tedesco per le classificazioni», la numerazione aveva un suo codice:

gli uomini dovevano essere tatuati sull'esterno del braccio e le donne sull'interno; il numero degli zingari doveva essere preceduto da una Z; quello degli ebrei, a partire dal maggio 1944 (e cioè dall'arrivo in massa degli ebrei ungheresi) doveva essere preceduto da una A, che poco dopo fu sostituita da una B.

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Pagina 134

3. La maggior parte dei bambini che arrivano sulla Judenrampe sono inviati direttamente alle camere a gas (spesso con le madri). Quando il 4 aprile 1944, dal treno proveniente da Trieste scendono i deportati, il destino di Tatiana (sei anni e mezzo) e Andra (nemmeno cinque) «è nelle mani di un ufficiale nazista». «Noi veniamo internate». «Noi scampiamo la selezione. È il momento cruciale, destinato a segnare le nostre giovani esistenze». In effetti in quel tragico e determinante momento della loro vita, per le bambine cambia poco rispetto alle ultime settimane: già come nella cella nella Risiera di San Sabba e poi nel treno sono un gruppo compatto con la madre: «la mamma ci tiene strette a lei»; «noi siamo avvinghiate alla mamma»; «avvinghiate alla mamma, camminando piano circondate da una folla di persone»; «lei ci è sempre accanto, ci precede in ogni passaggio, come per proteggerci». Dopo oltre settant'anni se lo domandano ancora per quale motivo siano sfuggite alla camera a gas, a differenza della nonna Rosa e della zia Sonia, che le hanno viste allontanarsi dalla banchina «per sempre». Una risposta univoca, certa, ancora non c'è. Secondo alcuni furono «scambiate per gemelle» e infatti assegnate alla baracca numero 1, Kinderblock, dove c'erano «bambini di diversa provenienza, la maggior parte dei quali destinati a essere vittime di sperimentazioni».

[...]

Appena arrivava, la mamma le abbracciava, le baciava, e poi ricordava, insistentemente, i loro nomi e cognome. «Mamma voleva tenerci attaccate alla nostra vita reale, quella fuori del campo. O forse già pensava al giorno della nostra liberazione, a due bambine sole nel mezzo della Polonia». Una sera, sicuramente Mira è più triste del solito, annuncia alle bambine che non verrà più a trovarle: non offre spiegazioni, ma quali spiegazioni si potevano dare in un contesto quale il campo di Birkenau nel novembre 1944?

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Pagina 145

Inizia, così, per Shlomo la discesa all'inferno con l'esperienza del Sonderkommando. La tragedia nella tragedia. Un ebreo costretto a bruciare i corpi dei suoi compagni di prigionia. «Se avessi saputo che il nostro lavoro "supplementare" consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al Crematorio, avrei preferito morire di fame piuttosto che accettare, ma quando lo compresi era troppo tardi». In maniera misurata Shlomo ci conduce dentro quei terribili luoghi: «L'inizio era il momento peggiore, quando bisognava estrarre i primi corpi: non avevamo punti d'appoggio. I corpi erano talmente intrecciati, ammassati gli uni sugli altri, le gambe da una parte, la testa dall'altra e il mucchio dei cadaveri superava il metro, il metro e mezza di altezza». In vista dei nuovi ingressi bisognava pulire completamente la sala, togliendo le tracce di sangue e le ceneri, che, «sminuzzate e passate più volte al setaccio come quello dei muratori», erano trasportate su una carriola e ammonticchiate, per essere poi recuperate da un camion che le gettava nel fiume.

L'aspetto che maggiormente lo colpisce, non è tanto il suo «lavoro» tra i cadaveri, ma vedere il percorso che quelle persone sono costrette a compiere per arrivare alla morte. «Quando arrivava un nuovo convoglio la gente entrava dal cancello del Crematorio e veniva indirizzata verso la scala sotterranea che portava allo spogliatoio». I primi a entrare erano le donne, i bambini e i vecchi che erano sfuggiti alla prima selezione della Judenrampe.

Nello spogliatoio c'erano degli attaccapanni lungo il muro, ognuno con un numero, e delle panchine in legno su cui ci si poteva sedere per svestirsi. Per ingannarli meglio i tedeschi raccomandavano di fare attenzione ai numeri, in modo da ritrovare più facilmente le proprie cose uscendo dalla «doccia». Dopo un po' di tempo aggiunsero alle istruzioni quella di allacciare tra loro le scarpe.

Per accelerare il cammino e tranquillizzare le numerose persone (evitando possibili resistenze) veniva promesso un pasto dopo la «disinfestazione». «Molte donne si affrettavano per arrivare tra i primi e farla al più presto finita con tutto questo, mentre i bambini, terrorizzati, rimanevano incollati alle proprie madri. Per loro, più ancora che per gli altri, doveva sembrare tutto strano, inquietante, buio, freddo». La vista dei rubinetti in alto confermava, ai più, di trovarsi in un locale docce. Quando la stanza era già piena venivano fatti entrare gli uomini: «per ultimi una trentina di uomini robusti in modo tale che, incalzati dalle botte, massacrati come animali, non avevano altra scelta che spingere in avanti gli altri per sottrarsi ai colpi». L'addetto all'ingresso «si divertiva a far soffrire un po' di più queste persone in punto di morte» accendendo e spegnendo la luce, creando ulteriore angoscia (quando andava via la luce) e sospiri di sollievo, «come se le persone pensassero che l'operazione era stata annullata». L'ultima operazione avveniva all'esterno con l'arrivo del tedesco con il gas. Chiamava due prigionieri del Sonderkommando per sollevare un pesante coperchio di cemento («non si sarebbe mai preso la briga di sollevarlo da solo») e introduceva lo Zyklon B: «un'operazione rapidissima». Dopo «dieci o dodici minuti non si sentiva più un rumore». Le grida, i pianti, erano finiti. Da uno spioncino sullo porta d'ingresso l'addetto controllava che tutti fossero morti, apriva la porta, azionava un ventilatore e se ne andava. Dopo una ventina di minuti «potevamo entrare e cominciare a portare i cadaveri fuori dalla camera a gas. La stanza era invasa da un odore terribile, aspro. Difficile distinguere tra il fetore del gas e quello dei cadaveri e del liquame umano». Per gli uomini del Sonderkommando era una «scena atroce, impossibile farsene un'idea»: «trovavamo persone con gli occhi fuori dalle orbite»; «altri sanguinavano dappertutto o si erano sporcati con i loro escrementi o con quelli altrui»; «li trovavamo aggrappati gli uni agli altri, ognuno alla ricerca disperata di un po' d'aria»; «erano talmente pigiati tra loro che i più piccoli, i più deboli, venivano immancabilmente soffocati». «Sotto la pressione, l'angoscia, si diventa egoisti e non si pensa che a una cosa sola: salvarsi. Questo è l'effetto del gas».

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