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| << | < | > | >> |IndiceVII Premessa L'Italia unificata e la questione della capitale, un racconto a puntate 3 Capitolo primo Firenze e i venerandi fantasmi del passato 3 Le mura e i boati delle mine britanniche 9 Il riverbero della città granducale 18 Ogni ventiquattrore spariva qualcosa di vecchio 22 Allorché si distrugge la circonferenza si vanifica il centro 32 Attentato al palazzo di Parte Guelfa 35 Ricevimeno a Palazzo Corsini 43 Capitolo secondo Un passo indietro, Torino «decapitalizzata» 43 La fatidica porta d'Italia 51 I risentimenti della capitale tradita 57 Ritualità e nostalgia del ritorno 61 Capitolo terzo Roma, la memoria dell'antico e i «barbari municipali» 61 La città, epidermide della storia 67 La campagna entro le mura 81 Il piccone e il gemito delle rovine 89 La capitale dalle «sparse bellezze e gagliardie italiane» 92 Il saccheggio «piemontese» e «ministeriale» 96 La città vecchia agonizza nella nuova 107 Scompaiono gli ultimi scampoli dei giardini 113 Una splendida eloquenza e le seduzioni del mito 118 Pragmatiche vacanze romane: in lode della nuova Roma 125 Note 133 Bibliografia essenziale 145 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina VIIIl viaggiatore che si fosse trovato a percorrere la penisola negli anni che seguono nell'immediato l'unificazione dell'Italia, avrebbe potuto scrivere, mutuando il titolo da Charles Dickens, il «racconto di due città», perché a partire dal 1865 due fra i più celebri centri della penisola si scrollano di dosso la polvere dei secoli per assumere in successione il volto e la funzione di capitali del Regno: Firenze e Roma. Fu un evento traumatico per entrambe, perché entrambe avevano alle spalle una lunga storia municipale la prima, ecumenica la seconda e perché erano state le mete privilegiate nella tradizione del viaggio in Italia. Icone autonome entrambe, eppure collegate fra loro, nell'immaginario degli artisti e dei viaggiatori della fine del XVIII secolo, quali condensazione visiva di altrettanti, complementari momenti della civiltà italiana e come tali accolte ed esaltate dal secolo successivo. Il notissimo dipinto Goethe nella Campagna romana di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, nel quale lo scrittore viene raffigurato seduto, a suo pieno agio, sui ruderi dinanzi all'agro romano con la tomba di Cecilia Metella e, più in lontananza, le colonne del Foro, ha un corrispettivo ideale e coevo nel quadro Allen Smith contempla Firenze di Franηois-Xavier Fabre, dove il console britannico, assiso su blocchi di pietrame squadrato, osserva i palazzi e i ponti del capoluogo toscano. Oltre all'atteggiamento sereno e contemplativo dei due personaggi allusivamente togati, elemento d'unione dei sue dipinti è un capitello ionico rovesciato che si trova ai loro piedi, quasi a sottolineare il precipuo richiamo antiquario dell'Italia. Tuttavia mentre Tischbein è attratto da un paesaggio relativamente piatto, ruinico e incolto, segnato dal pathos delle sublimi creazioni dell'uomo assediate dalla rivalsa virente della natura, Fabre raffigura una città della mente, ancorché riconoscibile dal ponte alla Carraia e da Ponte Vecchio, stilizzata alla maniera prismatica di Jean-Germain Drouais e stagliata contro coniche colline. Due modi di intendere le città in ovvia connessione con le loro specifiche configurazioni topografiche, le loro sineddochi monumentali e le rispettive civiltà quella romana connotata dal malinconico e solitario fastigio delle rovine, e quella fiorentina compresa nel suo severo ritegno ma anche un unico attestato di amore e di implicita tutela nei confronti di realtà urbane che avrebbero visto ben presto dissolversi l'atmosfera sospesa e irreale in cui erano immerse e smarrirsi lo sguardo lucido eppure estasiato dell'osservatore. Protagoniste della narrazione che segue, Firenze e Roma s'impongono sulla scena internazionale in nome di un percorso politico e di un conclusivo atto traumatico nel quale si trovano coinvolte, l'una subito dopo l'altra, a partire dal 1865, allorché sono chiamate ad accogliere, la prima in via provvisoria, la seconda in via definitiva, ed entrambe in maniera tanto perentoria quanto improvvisata, la corte, il parlamento, i ministeri, la zecca e il complesso degli apparati amministrativi, militari e burocratici della neonata nazione italiana. Questo è dunque il racconto di due antiche città-reliquiario care al mondo due autentiche teche contenenti gli esempi più alti dell'arte e della civiltà occidentale a lungo rimaste immutate per essere trasformate, in un breve lasso di tempo, in fragorosi cantieri e in imponenti macchine amministrative. Escono barocci stracolmi di detriti, si commenta esterrefatti nell'una come nell'altra città, ed entrano fiumi di denaro: con quello che ne consegue nel mercato immobiliare e nell'assetto urbano. Due città che diventano capitali in luogo di una terza, Torino, dalla quale aveva tratto impulso decisivo la stagione risorgimentale e alla quale spetta il primato morale e politico di aver puntato ogni sforzo sull'audace idea dell'unità. Una capitale, Torino, che viene inevitabilmente «tradita» per favorire una dislocazione funzionale da un punto di vista geografico e strategico, ma anche simbolico, della città capitale del nuovo Regno con i ruoli, le mansioni e la valenza rappresentativa che le spettano. Una dislocazione che, quanto alla sede romana, era stata da lungo tempo e sotto tutt'altri climi preconizzata, e comunque annunciata con lucida fermezza da Cavour dinanzi al neonato Parlamento, nel 1861. Per Firenze e per Roma si può parlare di clamorose e perfino drammatiche metamorfosi che coinvolgono la configurazione urbana e l'assetto economico e sociale; di immissione di nuovi ceti e di masse di popolo dall'incerto destino, nonché di un considerevole numero di forestieri; di demolizioni almeno in parte opinabili e di inarrestabili espansioni. Tutto questo in nome delle basilari funzioni alle quali le due capitali sono chiamate ad adempiere, dello spirito modernizzatore a cui non possono non aprirsi e della speculazione internazionale che le ha prese d'assalto e ne ha fatto il proprio campo d'azione, se non la propria riserva di caccia. Sono in molti, in Italia e fuori d'Italia, a fiutare la preda e ad attrezzarsi di conseguenza. Ne deriva una svolta radicale nella vita di queste città che porta alla nascita, o alla rinascita, di nuove realtà urbane. Per Firenze, anche in considerazione della transitorietà dell'evento, Bettino Ricasoli ebbe a dire nel settembre del 1864 che quella che veniva offerta al capoluogo toscano era una «tazza di veleno che si chiama Capitale provvisoria», e ciò nella convinzione che i danni avrebbero superato comunque i vantaggi. Poco tempo prima il deputato Ferdinando Petruccelli della Gattina, sostenitore di Napoli capitale, aveva fatto presente che Firenze non era una città che potesse essere oppressa dal peso della rappresentanza nazionale e che, stabilendovi la capitale, si sarebbe gettato nello scompiglio un luogo d'arte e di studi. La città dei papi accoglie la capitale d'Italia e si appresta a identificarsi con essa non come atto provvisorio, bensì definitivo, affrontando il passaggio epocale dalla «seconda» alla «terza» Roma, da quella dei «cesari» e da quella dei papi, alla moderna capitale degli italiani. Per Torino viceversa si può parlare, almeno in questa fase, solo per sottrazione: di drastico venir meno di occasioni d'impresa e di lavoro, da un lato, e dall'altro di perdita d'identità in una stagione di stasi e di risentimenti. Sia su Firenze sia su Roma capitale gli studi che sono stati condotti sono imponenti e abbracciano pressoché tutti gli aspetti della vita di entrambe le città politici, economici, sociali, urbanistici, letterari in rapporto allo Stato della cui immagine e rappresentanza istituzionale sono investite. Affrontando il dibattito che accompagna le fasi di crescita delle due capitali, dal trasferimento a Firenze nel 1865 e a Roma nel 1871, fino al concludersi del secolo, da più parti si citano fugacemente, fra le tantissime voci che vi intervengono, «quelle dei giornalisti e di uomini di varia cultura; quelle degli abitanti della città e dei visitatori forestieri, italiani e stranieri». Quanto ai «visitatori forestieri», lo stimolo era giunto, ironico e illuminante, già nel 1882 dalle pagine di Giovanni Faldella che si chiedeva in maniera provocatoria: «Chi non si trova a Roma? Con la qualità di doppia capitale nazionale e cattolica, e con i ricordi monumentali di tre storie, quali furono e sono la romana marmorea, la pontificia ancora calda e l'italiana fresca incollata, Roma attira un mondo di gente, provando la verità del proverbio: tutte le strade conducono a Roma». Ed elenca fra i forestieri «i toristi americani», i «pastori inglesi», i «filosofi tedeschi» e una sequela cosmopolita di «signore e signorine» che vengono a Roma per «provare un'avventura al Colosseo o fra le rovine del palazzo dei Cesari». Ma l'iniziativa che con maggiore perspicacia e ampiezza d'orizzonte ha dischiuso le porte allo sguardo degli stranieri, di passo o residenti che fossero, è stata quella elaborata da Silvio Negro il quale nel 1943 scriveva con acutezza: «Quelle loro [degli stranieri] annotazioni, buttate giù affrettatamente nei diari, o elaborate e inquadrate in volumi, sono molto importanti per coloro che cercano di rivedere la vita di quell'ultima seconda Roma, più importanti diremmo, delle memorie di casa; sono efficaci anche quando non riflettono, e capita spesso, che il luogo comune. Perché i forestieri vedono già la città con gli stessi occhi coi quali noi cerchiamo di rintracciarla oggi. La sorprendono ancora intatta nel suo pittoresco e paradossale anacronismo». La qual cosa vale tanto per la «metropoli paesana» che è la Roma di Pio IX quanto, e a maggior ragione, per la sua trasformazione in capitale del Regno d'Italia, con tutto quello che un evento del genere comporta. Si tratta di una prospettiva di affettuoso, lucido disincanto, e di un metodo di analisi di fonti particolari e spesso preziose, che si rivela altrettanto fecondo per quanto riguarda Firenze, l'altra città coinvolta nell'avvicendarsi del medesimo ruolo e anzi divenuta capitale pro tempore sulla via di Roma. Il percorso della repentina e drastica trasformazione delle due città ci è dunque giunto anche attraverso il racconto che ne hanno fatto testimoni indigeni e soprattutto forestieri, personaggi itineranti, avventurieri dell'anima avvezzi a confrontarsi, a dialogare e a scontrarsi con i luoghi, e questo ha già di per sé favorito la scelta di un registro tipicamente narrativo. Non tutti i viaggiatori hanno lasciato traccia del loro passaggio, s'intende, ma in ogni caso, le voci e le testimonianze che sino ad ora sono state riportate in vari studi si sono rivelate frammentarie, invocate più che evocate, divelte per la maggior parte dal contesto storico e culturale al quale appartengono, citate altrettanto spesso a sostegno, se non in luogo, di un controcanto, di una tesi avversa, di una diversa prospettiva che ci saremmo attesi invano da una scialba, acquiescente, o vanamente polemica cultura indigena coeva. E allora su una vasta gamma di queste voci, soprattutto su quelle dei visitatori stranieri molte delle quali, preme sottolinearlo, mai prima d'ora prese in considerazione che si basa la narrazione che segue o, se si preferisce, il racconto di due città riferito al momento forse più delicato e sicuramente traumatico della loro storia. Per quanto possibile, queste voci sono restituite nella pienezza delle loro argomentazioni e non artificiosamente ritagliate e incorniciate a sostegno di una specifica tesi e considerate nel riflesso della cultura di appartenenza. Esse infatti hanno il merito di affrontare il tema della città in rapido, talora forsennato mutamento non diceva Baudelaire che le città cambiano più in fretta del cuore degli uomini? con uno sguardo straniante, uno sguardo che è frutto di una sensibilità estetica, di una nozione di gusto e di una cultura storica diverse da quelle nostrane. In particolar modo queste voci ci permettono di inserire il lungo dibattito in una dimensione cosmopolita della quale la cultura italiana sembrava, almeno in quell'epoca, particolarmente carente. La letteratura di viaggio è sempre uno specchio prezioso per l'inedita restituzione di una data realtà ambientale italiana, e tanto più lo è per due città amate oltre ogni misura, e per motivi diversi, dai forestieri e dagli stranieri. Ma poiché lo specchio dei viaggiatori può essere, come ogni specchio, più o meno deformante, sarà opportuno accogliere le loro osservazioni calandole, come si è detto, nel momento storico in cui vennero enunciate e soprattutto rapportandole alla prospettiva desiderante di chi viene da fuori, una prospettiva che non sempre è quella che più si attaglia al destino storico dell'una o dell'altra città, alla loro vivibilità, alla loro funzione e, attraverso di esse, all'intera nazione italiana che sono chiamate a rappresentare. Prendiamo in considerazione un esempio illuminante. Chi scorra le lettere scritte da John Ruskin al padre nel corso del viaggio italiano del 1845, rimarrà stupito dell'aspro disgusto con cui commenta i pur esigui ampliamenti di strade messi in atto in un'asfittica Firenze medievale dall'amministrazione del granduca: «Ricordi la viuzza che va dall'ufficio postale alla cattedrale, o meglio al battistero, così angusta e tipicamente italiana, piena di tende cremisi e di vecchie tettoie che le davano un aspetto ancor più tenebroso? Puoi immaginarti il mio orrore quando, svoltando l'angolo, ho scorto quella che sembrava rue St Honoré di Parigi, con una serie di pasticcerie dorate di fresco e di barbierie, nonché di Parfumerie et Quincaillerie a non più di dieci metri dal capolavoro del Brunelleschi! Hanno distrutto l'antica strada e ne hanno costruito una nuova...una adatta a questi italiani d'oggi, con la bocca sempre piena di bonbon e di sigari e tutti impomatati». Come molti altri suoi contemporanei britannici, Ruskin ignora deliberatamente che, malgrado le antiche città nelle quali sembra essersi cristallizzata la storia, l'Italia è pur sempre un organismo vivente che si muove e si trasforma. Molti anni dopo, nel 1875, al tempo della «guida» Mornings in Florence, un Ruskin più che maturo non sembra aver cambiato idea e si rammarica che nelle strade fragorose della città, stravolte dagli sterratori, dai selciai, dai muratori questa volta sì, per radicali sventramenti non sia più possibile incontrare le fisionomie del tempo di Dante! Nel momento in cui una cultura nazionale ben sedimentata e salda nei propri principi, come è quella britannica di metà Ottocento, s'impegna a descrivere e a rappresentare, attraverso i suoi mentori, l'operato di culture straniere, persegue sempre lo scopo di controllarle e possibilmente di renderle conformi ai propri desideri e ai propri interessi. A queste missive, a questi fogli di taccuino, a queste voci narranti si collega il richiamo dickensiano di «racconto di due città», di due capitali che nel nostro caso si trovano coinvolte in un medesimo, consequenziale destino, di due centri di enorme rilevanza storica e artistica investiti, l'uno dopo l'altro, dal medesimo vento modernizzatore o, come lo definì Gabriele D'Annunzio, di barbarie. In maniera forsennata e perentoria, questi ne dissolve il plurisecolare letargo costringendoli a confrontarsi, nella loro torpida inanità, con le esigenze amministrative di uno stato nazionale, con la cultura positivistica dell'epoca, con l'avidità della speculazione internazionale, con l'onda lunga della civiltà industriale che ne riattiva la sopita e parassitaria vitalità, tutti fattori che in maniera drastica impongono loro nuovi ritmi, una nuova struttura e un nuovo volto. Nel 1882, reduce da due mandati di sindaco della capitale, il conte Luigi Pianigiani annotava che «Roma è il primo museo del mondo, ma non è una capitale che soddisfi ai bisogni del presente; manca delle basi del suo sviluppo nell'avvenire. Non è un Comune da amministrare, è la massima delle metropoli antiche da rispettare, una metropoli moderna da creare». Ciò dicendo, enunciava dal di dentro e con indiscutibile rigore le drammatiche contraddizioni (stimolanti da un punto di vista narrativo) dell'innesto di una capitale moderna e funzionale in un contesto antiquario considerato, almeno in via teorica, intangibile. Il termine «racconto» si applica alla narrazione delle vicende delle due improvvisate capitali inserite entrambe in un medesimo itinerario politico che ne trasforma i caratteri, le fisionomie, le popolazioni così come vengono rilevate dai visitatori occasionali e dagli stranieri stanziali o di passo; da personaggi, spesso i medesimi nell'uno e nell'altro luogo, che prendono posizione su quanto sta avvenendo in entrambe le città. Forestieri e viaggiatori stranieri vengono d'altronde evocati proprio perché raccontino, in qualità di testimoni preziosi, le loro impressioni, perché narrino in momenti diversi le metamorfosi dei luoghi. Ma il termine racconto è correlato anche all'iterazione del medesimo evento il quale, coinvolgendo realtà urbane diverse in questa singolare tautologia della storia, genera un vero e proprio percorso narrativo che prende avvio dalla spoliazione di Torino la capitale tradita? per concludersi a Roma, attraverso la tappa intermedia di Firenze. C'è infine una valenza ironicamente allusiva nel termine racconto, quasi a sottolineare per contrappasso l'inanità di una tradizione letteraria italiana che, nel complesso, è stata incapace e comunque restia a raccontare, sia in presa diretta e quindi cronachistica, sia e soprattutto in forma saggistica o con taglio narrativo, quegli eventi eccezionali nei quali si trovarono coinvolte due storiche città, eventi che favorirono colossali fortune e altrettanto clamorosi naufragi finanziari, facendo pagare il prezzo più alto ai ceti maggiormente vulnerabili di quelle popolazioni. C'è da stupirsi se la cultura letteraria italiana è rimasta sostanzialmente inerte, se non deliberatamente estranea, dinanzi a simili eventi? Se ad esclusione dello scapigliato piemontese (e poi deputato e senatore) Giovanni Faldella, della giornalista e narratrice di taglio veristico Matilde Serao, dell'esteta Gabriele D'Annunzio, e per altro verso di alcuni narratori di vocazione naturalistica, non è dato registrare, al di là della cronaca, una decisa presa di coscienza delle forze in giuoco su quanto stava avvenendo? Se i così detti «romanzi parlamentari» contribuiscono a diffondere l'ambiguo mito di una Roma grandiosa, fagocitante, corruttrice, piuttosto che mettere in luce le contraddizioni che man mano emergevano con la crescita della città? Se gli interventi che è possibile investigare mancano comunque di quell'ampio respiro narrativo, di quello sguardo a tutto campo di cui danno prova altre civiltà letterarie coeve, come quella inglese o quella francese? Questa assenza di una solida tradizione narrativa viene più volte messa in risalto fuori del nostro paese: «A venticinque anni di distanza dalla completa unificazione nazionale», annotava qualche tempo fa Dominique Fernandez, introducendo il romanzo Rome di Emile Zola, «l'Italia non aveva prodotto alcun romanzo che mostrasse come e a quale prezzo, da piccola capitale degli Stati Pontifici, Roma fosse divenuta, o credesse di essere divenuta, la mente direttiva di una grande nazione moderna». E quanto afferma Fernandez sottintende il primato che nell'Occidente ottocentesco ha assunto la narrativa e in particolar modo il romanzo nella rappresentazione delle città e degli stati moderni. Una narrativa nella quale le varie componenti della società con i loro interessi, le brame e le strategie si affrontano in campo aperto e senza esclusione di colpi. | << | < | > | >> |Pagina 3Firenze, è vero, anche a me piace per la modestia e la gradevolezza. Al mio tempo d'improvviso si cominciò a sciupare, era diventata capitale. Lev Nikolaevic Tolstoj a T.L. Tolstaja, 1 novembre 1899. Le mura e i boati delle mine britanniche In un imprecisato mattino di primavera del 1865 i fiorentini si svegliarono di soprassalto, in un misto di euforia e di timore, alle deflagrazioni delle prime mine della Florence Land and Public Works Company società ad ampia partecipazione di capitali britannici che segnavano l'avvio dell'abbattimento delle mura medievali di qua d'Arno. Boati sordi e tonitruanti, rimandati ad eco dalle chiostra dei colli, e improvvisi spasimi del terreno segnavano l'agonia del portentoso anello che per secoli aveva protetto la città antica come un talismano. Per un certo tempo molti credettero di vedere nella permanente cortina di polvere che assediava Firenze il fantasma di quei baluardi sconfitti. Senza le mura, la città sembrava avere assunto l'aspetto livido e immondo di un animale scuoiato: le strade s'arrestavano all'improvviso, smarrite nella distesa di ortacci secchi e incolti e di campi abbandonati, mentre le case davano l'idea di avere appena voltato la schiena paventando quel vuoto sconosciuto e mostravano anonimi, sordi paramenti o turpi escrescenze: pencolanti latrine, camini a fascio che arrivavano a metà delle case sulle cui mura avevano impresso fuligginosi ventagli, e putridi capanni, rimesse, stalle, letamai. Gli indigeni e i forestieri si trovavano dinanzi al primo, massiccio intervento dell'amministrazione comunale che, con il piano dell'architetto Giuseppe Poggi, a partire dal 1864 metteva in atto la trasformazione e l'ampliamento della città che era stata appena proclamata capitale del Regno d'Italia e che si apprestava ad accogliere in tempi drammaticamente stretti la corte, il parlamento, gli uffici del governo e le caserme militari. Non era soltanto questione di sistemare la corte a Palazzo Pitti e gli apparati governativi e burocratici negli edifici pubblici esistenti e nei conventi sconsacrati: il Parlamento nel palazzo della Signoria e nella galleria degli Uffizi, la presidenza del Consiglio e gli Interni a palazzo Riccardi, le Finanze nel palazzetto mediceo della Livia, í Lavori pubblici nel convento di Santa Maria Novella, l'Istruzione in quello di San Firenze e così via. Era necessario trasformare una città provinciale, raggomitolata ancora nel circuito delle mura del comune medievale, nella capitale di uno stato nazionale che aveva come interlocutori immediati gli stati europei e, in prospettiva, quelli di tutto il mondo. Una capitale del regno, per altro, che proveniva dalla sede d'origine, Torino, con la sua ordinata, razionale struttura urbanistica e la consanguineità topografica e d'immagine con le modernizzate capitali e le grandi città d'oltralpe. Si doveva demolire in fretta e furia la cinta muraria non solo come atto simbolico dunque, ma per fare posto a grandi viali, i quali a loro volta avrebbero favorito l'espansione urbana e l'osmosi con i nuovi quartieri e gli insediamenti extramurali. «Era da qualche tempo sentito il bisogno d'ingrandire il cerchio delle mura della nostra città, quando la nuova destinazione a sede di governo ha reso questo bisogno più imperioso ed urgente», recita la delibera d'incarico al Poggi, per cui «la Commissione ha creduto che il desiderato ingrandimento porti alla demolizione delle attuali mura e alla formazione di un pubblico grandioso passeggio secondante la traccia delle medesime e comprendente la larghezza della via circondaria esterna ed interna, delle ghiacciaie o altri spazi intermedi». L'imponeva il repentino incremento della popolazione con il previsto innesto dell'apparato burocratico piemontese e con l'inurbamento provocato dalle nuove funzioni alle quali era chiamata la città in trasformazione. C'erano poi l'euforia del rinnovamento che veniva inteso come vera e propria rinascita, e in molti quartieri c'era la speranza di una rigenerazione sia fisica che morale, unita al desiderio di potersi scrollare di dosso l'uggia umida e tetra del passato, di avviare un concreto programma di risanamento igienico, come se le vecchie mura, oltre che fare da barriera al nuovo, avessero tenuto lontano dai quartieri il soffio vivificante del vento. «Fate aria, fate aria!», strillavano le gazzette, qui come in tante altre città italiane ed europee ancora imprigionate nel ferreo usbergo della muraglia medievale. In contrasto con la propria rappresentanza politica nazionale, la classe media fiorentina vedeva nell'ampliamento della città una maniera per adeguarsi ai modi di vita continentali, promuovendo la separazione fra pubblico e privato, fra attività lavorative di carattere impiegatizio condensate nel centro storico e quartieri residenziali dislocati in zone periferiche. In poche parole, i fiorentini sentivano che, con l'avvento della capitale, la città stava affrontando un passaggio cruciale della sua storia recente e nella quasi totalità se ne dichiaravano entusiasti. Alcuni, da dentro e da fuori, ne approfittarono per imbastire colossali speculazioni e fare affari d'oro, specie nella compravendita di terreni di pregio: come la società anglo-italiana incaricata di abbattere le mura alla quale veniva riservata la proprietà di una duplice striscia di terreno fabbricativo, all'interno e all'esterno della cinta muraria, da edificare entro una data prescritta, e come vari gruppi finanziari e un numero cospicuo di accaparratori di edifici, di alloggi e di aree piovuti da ogni parte d'Italia e fra i quali figurano non pochi personaggi politici nazionali. Eppure le antiche mura avevano costituito per secoli un elemento protettivo ed erano diventate poi, passando attraverso fasi successive di degrado, una componente pittoresca e caratteristica della città. Guido Carocci, lo strenuo difensore, come vedremo, della Firenze antica, ci descrive il flusso viario attorno alla cerchia muraria, quale dovette svolgersi sin quasi al giorno fatidico delle esplosioni, e ci ricorda che due strade, una interna e l'altra esterna, seguivano l'andamento delle mura. Mentre quella esterna si presentava aprica, luminosa e assai animata per il transito della gente e dei carri che confluivano verso le porte e per essere costellata a tratti da piccoli agglomerati, da rustici casolari, da locande con annessi pallai, depositi, stallaggi e ghiacciaie; quella interna era ombrosa, fredda, solitaria, incassata fra gli alberi e le mura, una passeggiata melanconica insomma, «propizia soltanto per la gente misantropica e per gl'innamorati». Le ghiacciaie, sia detto per inciso, erano depositi di ghiaccio, ma anche specchi d'acqua ghiacciata adatti al pattinaggio e generati all'ombra perenne delle mura dalle acque del Mugnone che ne allagavano i fossati. Le mura d'altronde non avevano mai perso del tutto l'antica ed arcigna funzione di tutela: «Firenze ha il corsetto annodato da una cerchia di fortificazioni, e fa la difficile quando si bussa di sera alla sua porta,» annota con amabile ironia Théophile Gautier nel 1850, il quale descrive il laborioso ingresso in città: «Fummo costretti ad attendere un'ora davanti alla porta, ignoriamo per quali minuziose formalità di polizia; poi finalmente fu alzata la rastrelliera di legno, una specie di pacifica saracinesca che sbarra l'arco, e la diligenza poté prendere a sobbalzare sul selciato ciclopico di Firenze». Per quanto ridotte a polveroso fantasma, le mura rimangono pur sempre il magico, invisibile anello che suggella l'identità urbana e che garantisce all'ospite l'appartenenza alla città e alla sua storia, come ci conferma poco dopo l'abbattimento William Dean Howells in un'annotazione memorabile: «Tuttavia, una volta entro le amate mura, le chiamo ancora così, sebbene siano state rase al suolo e sostituite da bei viali, [...] mi sentivo di nuovo fiorentino». Tributo tanto più singolare e rivelatore di uno stato d'animo diffuso, questo con cui Howells anela alla protezione delle mura scomparse e al loro marchio identitario, ove si tenga presente la scarsa sensibilità per l'antico di cui fa mostra questo pragmatico narratore e giornalista americano nei suoi ritratti delle città storiche toscane e in particolare di Firenze, città nella quale soggiorna a più riprese. Simulacri di un passato ormai irrevocabile, vengono salvate alcune delle antiche porte che adesso, atterrate le mura di cui erano la cerniera passante e rimaste isolate in anonimi, moderni slarghi come totem inutili e goffi, appaiono simili a «mosche intrappolate nell'ambra della civiltà moderna», come dice un testimone oculare dell'immane sconquasso. Testimone d'eccezione, a dire il vero, poiché si tratta di Charles Richard Weld, instancabile, colto viaggiatore che a Londra svolge le mansioni di segretario e di storico della Royal Society e che ha appena pubblicato una guida della «nuova» capitale italiana per un pubblico cosmopolita. Le stesse porte residuali sono in gran parte modificate, come avviene con l'abbattimento dei loggiati laterali esterni di Porta alla Croce, usati un tempo per il mercato del bestiame e il ricetto, la notte, degli sprovveduti e dei ritardatari. Già luogo delle esecuzioni capitali, l'appellativo di Piazza Beccaria che verrà dato alla nuova piazza, a pianta radiale con al centro la porta, chiama in causa per antifrasi il fautore dell'abolizione della pena di morte. La demolizione integrale della porta successiva, Porta Pinti, provoca l'abbattimento degli alti, vetusti cipressi che coronavano il monticello del Cimitero degli Inglesi, sorto nel 1828 a ridosso della porta stessa, e quindi la violazione, come dicono le sorelle Horner, di quel pittoresco senso di solitudine consono a un luogo di mestizia, di lutto e di soavi illusioni. Va riconosciuto al Poggi il merito di aver salvato questa importante reliquia britannica, questa testimonianza perenne della componente anglo-fiorentina della città, anche se il suo destino sarà quello di diventare un'aiuola spartitraffico. Porta San Gallo o Bolognese, fronteggiata dall'arco trionfale di Francesco II di Lorena al centro della vasta piazza Cavour (l'attuale piazza della Libertà), viene liberata dei loggiati interni, mentre la successiva Porta al Prato, più o meno modificata, si affaccia su ampi spazi verdi sui quali sorgeva, inaugurata nel 1848, la stazione ferroviaria Leopolda della linea Firenze-Livorno. Privata delle cortine murarie, affacciata sui bianchi viali, la stessa Fortezza da Basso si adegua, come le porte, alla nuova funzione di pedina insulare nella scacchiera della città in divenire. Le porte che intervallavano le mura di là d'Arno si presentano meglio conservate, come Porta Romana (o di San Pier Gattolino) e quella di San Frediano. Altre, dotate un tempo di grande fascino pittoresco, come Porta San Miniato e Porta San Giorgio, vengono alterate in maniera notevole con demolizione dei modiglioni, degli archetti e della tettoia, altre ancora, come Porta Guelfa, vengono completamente abbattute, mentre Porta San Niccolò, scomparso nel 1870 il borgo circostante per far posto alle rampe del Viale dei Colli, fa dire a Guido Carocci che, quando erano complete ed intatte, l'insieme di queste opere di architettura militare dovevano apparire grandiose e di straordinaria imponenza. A nemmeno quattro anni dalla conclusione dei lavori d'atterramento delle mura siamo nel 1873 un flβneur d'eccezione, Henry James, percorre perplesso i nuovi polverosi viali, non ancora ingentiliti dagli alberi, la cui massicciata è costituita dal pietrame delle mura distrutte, facendosi portavoce dello sconcerto di quei forestieri, soprattutto di cultura inglese, che hanno contribuito negli anni a consolidare il mito di Firenze. Il «cambiamento in peggio» a cui si è votata la città, contagiata dalla mania per il moderno, è sotto gli occhi di tutti, pensa fra sé e sé lo scrittore americano, poi, derogando dalla sua proverbiale cautela, dall'abituale discrezione nel colloquiare con i luoghi, e riferendosi alla consolidata presenza cosmopolita, affronta l'argomento con una logica consequenzialità degna di un consumato urbanista. Gli ospiti della Firenze granducale che vi si sono trattenuti autentici «sopravvissuti dell'età d'oro» della città , hanno assistito all'abbattimento delle vecchie mura, e in conseguenza di ciò hanno visto la massa compatta e circoscritta della città, di cui Piazza della Signoria costituiva l'immemore centro, espandersi in un organismo illimitato sul tipo, come si dice scioccamente in giro, di Chicago. Vale a dire di uno di quei posti dei quali, non potendo ravvisare in alcun modo la grazia della circonferenza, è impossibile stabilire il centro. Dopo aver sottolineato questa similitudine con una città senza forma perché senza storia, James prosegue annotando, non a caso con termini francesi, che la moderna Firenze si perde in polverosi boulevards e in eleganti beaux quartiers come quelli di cui Napoleone III e il Barone Haussmann hanno diffuso la moda in un'Europa medievale, con effetto analogo a quello della preziosa pagina di un antico manoscritto violentata a margine da un commento moderno. | << | < | > | >> |Pagina 40Dinanzi ad una città trasformata in un immenso cantiere, stravolta dalla speculazione indigena e forestiera, minacciata dall'incontenibile foga di modernizzazione e di rinnovamento dei ceti emergenti, viene inoltre da chiederci quale posizione abbiano assunto, al di là delle polemiche giornalistiche quasi sempre becere e faziose, la cultura fiorentina e quella italiana, quali riflessioni alternative abbiano formulato sulle trasformazioni in atto e su quelle previste, e infine quali reazioni abbia avuto un'opinione pubblica costituita dagli esponenti della vecchia aristocrazia, di una borghesia compiacente e, nel complesso, di individui «così motteggiatori e anarcoidi, ma in fondo così remissivi» quali appaiono i fiorentini dell'epoca. Una risposta sconsolante ci viene nel 1870 da Carlo Collodi che ripetutamente denuncia «la malattia della capitale provvisoria» e che infine riserva una sorta di apologo burlesco all'occasionale sosta fiorentina della capitale del Regno: un'allegoria dal sapore stantio che narra di una moglie la città di Firenze che si svena pur di sostenere e accontentare un marito esigente, inaffidabile e vanesio. Un marito a tal punto provvisorio che una bella mattina, svegliandosi, dice di punto in bianco alla moglie: «Sai la notizia? Domani vado a metter casa a Roma». Dietro battute del genere sembra di cogliere l'eco della rassicurante definizione che degli abitanti della nuova capitale dava nel 1864 un'informativa diretta al ministro degli Interni: «Curiosità per gli spettacoli e indifferenza politica, ecco i due sentimenti che dominano la gran maggioranza della popolazione fiorentina». Né d'altra parte contribuiscono a creare un'opinione diffusa, o a stimolare un'organica riflessione, confidenze epistolari come quella di Carducci a Gasparo Barbera del 31 luglio 1866 dalla quale emerge una lucida sintesi della situazione: «La convenzione di settembre e le sue conseguenze han creato uno stato di cose che i piemontesi aborrono, che i toscani non si aspettavano né desideravano né l'han caro (se non gl'ingegni vani e gl'interessati), che pare anormale a chi ha fatto in buona fede il plebiscito e ha creduto sul serio al voto del parlamento del marzo 1861».C'è una neghittosità culturale di fondo nei confronti dello nuovo Stato e del ruolo di rappresentanza della città capitale la quale, al di là dell'acido bozzettismo o delle trovate burlesche, si traduce in un più o meno istintivo sottrarsi al trauma del passaggio dal vecchio al nuovo ordine delle cose, dallo stato preunitario a quello nazionale. Un passaggio segnato da una drammatica ritualità di fronte alla quale coloro che in Toscana hanno il culto della piccola patria e avvertono la nostalgia per la tradizione municipalistica, preferiscono chiudere gli occhi e sprofondare in un lungo sonno. Nella novella Maestro Domenico (1871) del pisano Narciso Feliciano Pelosini, il protagonista, un umile falegname, s'addormenta al tempo del granduca per risvegliarsi a cose fatte, in mezzo al chiasso di «gazzette, società operaie, guardie nazionali e il diavolo che lo porti». Un sonno che equivale alla fuga da ogni responsabilità personale e tanto più grave, in quanto già codificato come gesto sottrattivo dall'analogo sonno di Rip van Winkle, il protagonista dell'omonimo racconto (1819) di Washington Irving. L'indolente Rip s'era addormentato prima della rivoluzione americana, per svegliarsi in mezzo ad una folla che blaterava di «diritti dei cittadini, elezioni, membri del congresso, libertà... tutte cose che suonavano come gergo babilonese» ai suoi orecchi. Sia Irving sia Pelosini si servono delle medesime radici folkloriche e fiabesche per mettere in scena il trauma del cambiamento e il rifiuto individuale del confronto con una realtà in trasformazione. Ma c'è una sostanziale differenza fra i due: Irving usa il sonno come segno identitario di una minoranza etnica, quella olandese, destinata a comparire nel più ampio bacino anglosassone; Pelosini se ne serve come sintomo di un malessere diffuso e per così dire ampiamente condiviso. Certo è che proprio gli stravolgimenti di Firenze, come, almeno in parte, quelli susseguenti di Roma, dimostrano quanto provinciale e priva di senso civico fosse la cultura italiana, quanto riluttante a sciogliersi dall'abbraccio di un soporifero classicismo, quanto impegnata a trastullarsi con i paludamenti accademici, quanto inadeguata ad interpretare la vita nella sua dura, proteiforme complessità. E soprattutto quanto asfittico fosse il respiro narrativo della tradizione letteraria indigena, compresa quella d'ispirazione naturalistica e veristica, o almeno quanto fosse incapace a trasformare in occasione narrativa i grandi mutamenti epocali, le speculazioni, gli arricchimenti improvvisi, i drammatici fallimenti e a raffigurare con vigore gli aspetti più rivoluzionari delle grandi metamorfosi urbane, degli sventramenti, degli sbancamenti, delle voragini del progresso, e in pari tempo a sondarne quelli più sordidi e abietti. L'Italia non ha conosciuto la lunga, proficua tradizione del romanzo borghese nelle sue varie articolazioni, e questa la storia consecutiva e per altri versi parallela di Firenze e di Roma capitale è l'ennesima riprova della distanza che la separava da una cultura come quella vittoriana di Dickens, o per altri versi come quella francese di Zola, che sapevano trasfondere nel romanzo l'epica portentosa, invasiva e arrogante della rivoluzione industriale, o la protervia del capitale internazionale pronto a gettarsi sulla preda e ad accamparsi negli ultimi paradisi d'arcadia. Quella stessa cultura che in particolar modo quella britannica tutelava la «divina terra» come un mondo a parte dove sublimare una lunga tradizione di amore predatorio. | << | < | > | >> |Pagina 43Θ bene che la monarchia si diradichi dalle sue rocce native, e si comprometta trapiantandosi nel centro dell'Italia. Giosuè Carducci a Louise Grace Bartolini, 1864.
«Lasciamo agli storici di giudicare se fu savia politica il trasferimento
della capitale da Torino a Firenze consigliato da Napoleone III per conservare
possibilmente Roma al papa, ma frattanto questa ardita impresa mise a soqquadro
due delle principali città d'Italia. A Torino l'infausta notizia diede luogo a
tumulti da spargimento di sangue e tutto fu spostato a Firenze che, non
agognando a supremazie, se ne viveva economicamente tranquilla.»
Pellegrino Artusi,
Autobiografia, 1900.
La fatidica porta d'Italia Torino può vantarsi di essere stata una meta ampiamente condivisa dai viaggiatori del grand tour, la consuetudine culturale europea nata nel secondo Cinquecento proprio quando i Savoia spostavano al di qua delle Alpi il baricentro dei loro territori, elevando Torino al ruolo di capitale con le strutture e le funzioni connesse. Nell'ottica del viaggio teorizzato da Francesco Bacone , in cui nulla deve sfuggire dell'assetto politico, giuridico, economico e culturale di stati e staterelli continentali, la capitale di un piccolo regno che occupava una straordinaria posizione strategica non poteva che suscitare la viva curiosità del viaggiatore. Per di più Torino costituiva la porta d'accesso all'Italia, la meta privilegiata del «gran giro». Di qui le argute e sottili testimonianze di viaggiatori sei-settecenteschi sulla capitale sabauda la quale, per un verso, sembra incantare gli ospiti ultramontani con i suoi interni rococò (Edith Wharton avrebbe osservato un giorno con arguzia che «i gesuiti vi decoravano le cappelle ad imitazione dei boudoir delle signore»), e per l'altro confarsi al rigore prospettico della visione illuministica. Quando invece sulle osservazioni sistematiche del mondo circostante si comincia a privilegiare la risonanza che alcuni suoi aspetti provocano nell'animo del viaggiatore, quando, come dice Stendhal, non si devono descrivere città e paesaggi per come sono, ma rendere semmai le sensazioni che suscitano in noi, allora la severa Torino, la guarnita, strategica piazzaforte, la «più graziosa città d'Europa» del presidente De Brosses, la fatidica porta della penisola vede modificarsi il genere d'interesse che esercita sul viaggiatore. Non che manchino anche nella stagione romantica testimonianze di un certo fascino e valore simbolico, ma sono pur sempre voci piuttosto isolate, sollecite a sondare le proprie intime risonanze, ma poco interessate a cogliere la cifra dominante della città. Scrive nel 1824 William Hazlitt, uno dei più raffinati protagonisti del viaggio in Italia: «L'arrivo a Torino fu il primo ed unico momento d'ebrezza che ho provato in Italia. Θ una città di palazzi. Mi sono cambiato d'abito (lusso imprescindibile dopo un lungo viaggio), ho fatto una passeggiata e, dopo avere attraversato diverse strade ampie e pulite, sono giunto ad un viale fuori città dal quale ho visto le Alpi che m'ero lasciato alle spalle ergersi come una fila di colonne di marmo nel cielo della sera. Il Monviso e il Moncenisio assomigliavano ai vertici di due coni di ghiaccio che svettavano su tutto il resto. Dal lato opposto del viale potevo scorgere il Po con il suo vasto e rapido corso che serpeggiava attraverso pascoli e vigne. Gli alberi erano vestiti del denso, triste fogliame a cui la sussistenza protratta nel cuore dell'inverno aveva conferito quella tonalità calda che avevo visto solo nelle pitture. Un monaco camminava in un boschetto solitario a breve distanza dalla strada. L'aria era dolce e balsamica e mi sentivo trasportato in un altro clima, in un'altra terra, sotto un altro cielo. All'improvviso l'inverno s'era mutato in primavera. Era come se stessi per cominciare un'altra vita». Il brano registra la suggestiva nascita a nuova vita del viaggiatore che ha appena varcato la barriera delle Alpi e che per la prima volta s'immerge nell'alterità del paesaggio italiano lasciando dietro di sé le spoglie di un mondo gelido e senza vita. Del paesaggio degli occhi fatto tanto più palpitare dall'archetipo della tradizione pittorica che il viaggiatore si porta nel cuore. La «città di palazzi» e di «strade ampie e pulite» non ha alcun ruolo, e la si considera soltanto una località dalla quale evadere per cercare nel suo circondario la rigenerante empatia. Gli anni successivi, sin oltre la metà del secolo, confermano fretta e disattenzione degli ospiti illustri nei confronti della città, sia che si parli negli anni Trenta di Jules Michelet, di Alfred de Musset, di Honoré de Balzac e quindi di Jules Janin, Maxime Du Camp, Paul de Musset, Ernest Renan, solo per attenersi alla cospicua ed autorevole pattuglia francese. Nel 1875, riflettendo sul modo incongruo in cui il forestiere visita la città, Charles Du Bois Melly annota: «Si transita sempre troppo in fretta di qui e, come l'ha fatto capire trent'anni fa Valéry, nella mente del viaggiatore impaziente Torino sconta in maniera incresciosa la propria posizione ai piedi delle Alpi. Coloro che hanno iniziato il viaggio e non hanno visto ancora nulla dell'Italia, non stanno nella pelle e vogliono contemplarne le meraviglie. E d'altronde Torino non può pretendere di rispondere in maniera esaustiva ad una simile richiesta. Quelli che, al contrario, sono alla fine del pellegrinaggio nella classica terra delle belle arti e hanno visto Roma, Napoli, Venezia, Firenze... per non dire d'altro, non hanno più stimoli e si sentono sazi. Non vogliono nemmeno sentir parlare di Torino! In questa città non ci sono feroci, pittoreschi montanari, ma solo fabbriche di vermouth e cantine di vino d'Asti. Tanto vale parlar loro di Susa e di Modane! Che proseguano pure di corsa». Per il pittore svizzero, viceversa, solo una sosta protratta può svelare la natura di Torino e la sua insostituibile funzione nell'ambito del viaggio in Italia, funzione che consiste nel rendere meno brusco il passaggio dalle grigie atmosfere continentali alla luce calda e intensamente cromatica della penisola. Di qui, possiamo aggiungere, quel senso di riserbo nordico e quel gusto parigino che la caratterizzano, di qui quel margine di prosaicità che ne fa l'effettiva cerniera con le altre capitali europee, di qui infine quella gaiezza malinconica e compiaciuta che aleggia sulle sue strade e sulle piazze. Solo in un ambito simile, Torino sa svelare la sua natura più autentica, che è quella di una realtà culturale gelosa delle proprie tradizioni, della propria dinastia, del proprio antico ruolo di piccola possente capitale, di città riservata e pur sempre mossa da un soffio cosmopolita. | << | < | > | >> |Pagina 61«In nessun luogo c'è così tanto da vedere come a Roma, eppure non mi piacerebbe viverci. Tutto ingenera malinconia, senza che s'abbia, come un tempo, la profonda impressione di vivere in una città morta». Emile de Laveleye, Lettres d'Italie, 1880. La città, epidermide della storia Gli anni che vanno dalla caduta della Repubblica Romana del 1849, alla dichiarazione d'indipendenza nel 1860 e al trasferimento a Roma della capitale del Regno, nel 1871, registrano vivaci testimonianze straniere che, derogando in parte, complice il drammatico momento, dal consueto richiamo del colore locale, del pittoresco e dell'antico, s'interrogano sul destino e sul ruolo che dovrà avere la città e, da parte dei più preveggenti, sul suo inevitabile ingrandimento e sulla nuova conformazione che potrà assumere. C'è la moderna prospettiva aperta al nuovo clima politico, rappresentata dall'archeologo e pubblicista anticattolico Edmond About che mette in risalto l'atavica arretratezza economica e culturale di Roma e l'anacronismo del potere temporale dei papi, e c'è una linea ben diversa che sembra invitare la città a chiudersi in se stessa per conservare intatto, come sotto una teca salvifica, il proprio spirito originario, «il profumo di Roma», come nel 1862 lo definisce Louis Veuillot, «il fanatico e piccolo Voltaire delle tenebre». Con il protonotario apostolico Jean-Joseph Gaume si prospetta addirittura una sorta di viaggio sotterraneo, incubico, tenebroso nella città catacombale, un simbolico ritorno alle origini paleocristiane della «terza Roma» «terza» appunto, ma in senso antifrastico a quello corrente che non solo rifugge da ogni rapporto con il mondo moderno, ma che si sottrae con pervicacia alle istanze del presente. L'ultima edizione di Les trois Rome, journal d'un voyage en Italie appare nel 1864, a distanza di quindici anni dalla prima, con un'eloquente prefazione rivolta ai turisti in visita alla città, i protagonisti della nostra storia: «Dopo la diffusione del paganesimo nel cuore della vecchia Europa, il viaggio a Roma non è altro che una passeggiata mondana, spesso inutile, talvolta perfino pericolosa». Preoccupati in maniera esclusiva dei monumenti dell'antichità classica, prosegue Gaume, guidati da manuali destinati a viaggiatori di tutte le religioni il cui minor difetto è quello di lasciare in ombra il punto di vista della fede, costoro non colgono che il volto artistico e pagano dei monumenti ed il lato puramente temporale delle istituzioni romane: «Con il risultato che l'Italia cristiana resta ancora un paese da scoprire». Quella di Gaume è senza dubbio la prospettiva più conservatrice, tutta intenta all'imbalsamazione dello spirito originario della Roma cristiana, una sorta di versione religiosa ma reazionaria e proterva del conservatorismo storico e archeologico di Ferdinand Gregorovius e delle sue geremiadi per la perdita progressiva di una città «pregna dello spirito delle rovine, delle catacombe e della religione», una città nella quale le picconate dei lavori di ammodernamento risuonano come altrettanti colpi inferti alla «bara del papato». Appena un anno prima della fatidica «breccia», lo yankee Mark Twain , erede dell'umorismo greve della frontiera, ci dà l'ultimo, sarcastico ritratto della Roma papale inquadrata da un inedito punto di vista. Giunto a Roma dopo essere approdato a Civitavecchia, lo scrittore si finge un contadino della Campagna il quale, tornato dall'America dov'era emigrato, narra ai compaesani cos'è il Nuovo Mondo. Per descrivere una civiltà, quella americana, nella sua alterità, íl «contadino» Twain fa emergere come termine negativo di paragone il simulacro della città dei papi in tutta l'arretratezza che la caratterizza: «Laggiù [in America] ho visto una nazione che non ha alcuna Madre Chiesa dominante, eppure il popolo vi sopravvive lo stesso». Poi, con palese allusione alla tutela francese sulla Santa Sede, il finto emigrante aggiunge di essere vissuto in uno Stato che non si è fatto mai proteggere da soldati stranieri. In questo ritratto in controluce, l'accento cade ora sull'analfabetismo romano rispetto ad un paese in cui «uomini e donne del popolo sanno leggere e perfino scrivere»; ora sulla proprietà fondiaria concentrata, nello Stato pontificio, nelle mani della Chiesa e dell'aristocrazia nera, mentre «laggiù uomini del popolo che non erano né preti né principi possedevano la terra che coltivavano»; ora sul diritto all'informazione e sulla libera manifestazione del pensiero, diritti inconcepibili nella Roma papale, laddove in America «la gente è bene informata e ha perfino la sfrontatezza di lamentarsi se non viene governata come si deve». Né mancano ironiche allusioni ad una compiaciuta, arcaica visione di una Roma vestita dell'eterno costume pastorale, come quando racconta di non aver mai visto «trascinare capre per le loro Broadway, o Pennsylvania Avenue, o Montgomery Street e mungerle alle porte delle case», o come quando ci dice che in America «potete precipitare dalla finestra del terzo piano senza andare a sfracellarvi su un soldato, o su un prete, perché non se ne vede nemmeno l'ombra».
Anche da un punto di vista geografico, ai viaggiatori del XIX
secolo Roma doveva apparire, unica città in Europa, come una
fascinosa, spaesante anomalia. Completamente isolata a vastissimo raggio da una
campagna malinconica e selvatica, attonita nella profonda solitudine e nell'alto
silenzio in cui era immersa, lontana da cittadine e da agglomerati di una
qualche consistenza, la sua baluginante comparsa, e in particolare il profilarsi
della fatidica cupola, era attesa con grande apprensione dai viaggiatori
provenienti da nord i quali, dopo Monterosi e Baccano, interrogavano con
ossessiva insistenza l'orizzonte. Non tutti si lasciavano affascinare, come
scrive Chateaubriand nella lettera a Monsieur de Fontane, dalla visione di lande
deserte dove un'antica civiltà sembrava aver impresso con mano possente le
sagome vaghe di arene o di circhi, dove le ombre si tingevano d'azzurro e la
luminosità quasi palpabile di Claude Lorrain fondeva in un'armonia dorata gli
elementi della natura. Proprio a metà del secolo
un viaggiatore americano, James Jackson Jarves, attento conoscitore dell'arte
italiana, osservava che Roma conferma la regola
secondo la quale è dai dintorni che si legge il carattere di una
città e se ne coglie il battito più o meno vitale. Le strade che conducevano
alla città dei papi si snodavano in una pianura punteggiata di ruderi e di polle
dove s'acquattava la malaria, e la città
stessa appariva al viandante, nel gran mare della Campagna, come un glorioso
relitto aggrappato alle propaggini cretose sulle
quali sembrava aver fatto naufragio. La Campagna era la cornice
più adatta per inquadrare Roma e per tenerne desta l'attesa, ma
non la Roma della mente e delle aspettative sacre e profane, bensì quella
effettuale del governo dei papi in tutta la sua decrepita,
apparente immobilità. Il concetto dell'insularità di Roma era stato espresso in
maniera icastica, pur senza inflessioni simboliche,
da una suggestiva osservazione di Ernest Renan: «E quando ci si
avvicina alla grande città e si scorge in lontananza la cupola di
San Pietro levarsi all'orizzonte come una collina, si capisce che il
deserto era la sola cinta degna di Roma e che ogni altro paesaggio sarebbe stato
meschino dinanzi all'immensa maestà di questa rovina». C'era poi il viaggio in
sé, particolarmente scomodo e
faticoso lungo i tratturi della Campagna, dove, come dice il Belli
che li percorreva con una certa frequenza, il viaggiatore si sentiva sballottare
da una parte all'altra della carrozza e «ammaccar
dentro a le coste» da violenti scossoni, e dove, una volta sceso in
una delle locande di posta, vere stamberghe «puntigliose e nere», doveva
imbastire un alterco continuo con gli osti e i vetturali i quali, per lunga
consuetudine, erano contigui alla categoria
dei malandrini.
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