Copertina
Autore Franco Brogi Taviani
Titolo Il tesoro
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005, Le maschere , pag. 296, cop.fle., dim. 135x205x20 mm , Isbn 978-88-317-8500-6
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

1.



E le due donne risero.

«È di buon augurio» disse la più grande. «Senz'altro di buon augurio.»

E ancora risero le due donne che in ginocchio a terra spazzolavano e srotolavano un lungo tappeto dal fondo blu notte avanzando, come se stessero conquistando a palmo a palmo un campo di battaglia, verso una trionfante gora di sole che precipitava sul pavimento dall'unica finestra lunga e altissima.

Guglielmo volle credere che quello fosse un gioco di fatica, tenacia e allegria inventato apposta per lui, un modo festoso per dargli il benvenuto in quel mondo tutto nuovo per tutti.

Sei anni, di un biondo che si stava già spegnendo, con una faccia tonda impiolata su un corpo mingherlino, dopo giorni di esilio in case sconosciute, sballottato tra braccia e carni estranee che, nel volerlo consolare, lo avevano fatto sentire ineluttabilmente perso e abbandonato, Guglielmo aveva fatto combaciare la sua perdita di orientamento tra le cose del mondo con il labirinto dei suoi intestini in cui si erano affollate ansiose bolle d'aria sempre alla ricerca, come lui, di una sotterranea via di fuga. E ora, lì, di fronte alla madre ritrovata e alla sorella più grande, si era finalmente permesso di lasciarsi andare a quella specie di sospiro di sollievo che si era modulato nell'aria lamentosamente: inequivocabile onomatopea di una lunga angoscia repressa. Fu dunque un piccolo indocile peto ad annunciare l'entrata di Guglielmo nella grande casa di Pardo Vidas.

Senza sollevare le braccia da terra, senza toccarlo, perché le loro mani erano grigie di polvere, le due donne, ancora ridendo, alzarono la testa come cani affettuosi e il bambino le baciò sulle guance arrossate, umide di sudore, odorose di conosciuto.

«Guarda che belle figure» disse Fiammetta indicando le pareti della stanza. Fiammetta era la sorella grande: dodici anni più grande di lui. Ma tutti erano più grandi di lui: per non dire dei fratelli maschi, quattordici anni di più, una vita. I suoi fratelli si chiamavano Attilio ed Emilio ed erano gemelli, ma poi in realtà i gemelli anziché essere due era uno solo: Attilio. L'altro, Emilio, in realtà non esisteva, anche se, a suo modo, era assolutamente presente proprio per l'assiduità della sua assenza... «Morto» aveva sentito sussurrare da qualcuno in tono cospiratorio, forse da qualche serva avventizia sfuggita all'occhiuto controllo della madre. «Morto»... ma il suono stesso di quella parola, percepita da Guglielmo come un disarmonico, disdicevole rumore, lo aveva convinto a non chiedere niente, anzi si impose di non aver sentito proprio niente al proposito.

«Hai visto, sì, che belle?»

Si guardò intorno per la prima volta; lo avevano scaricato in quella stanza in uno stato di cecità quasi totale, se non per quello che solo doveva e voleva vedere: la madre. Ora che la madre era riapparsa, anche il resto delle cose, da tempo relegate in un amorfo abbuiamento, ripresero contorno e luce e Guglielmo poté finalmente riacquistare l'uso della vista nella sua totalità.

Una stanza lunga, rettangolare, le cui pareti erano completamente coperte da affreschi rappresentanti improbabili paesaggi campestri, popolati di figurine quasi presepiali di pastori e pastorelle, pecore, asini, ponticelli, fiumiciattoli. E poi alberi di tutte le fogge, cespugli, lepri, un cervo, dei cani in corsa, cavalli, asini, suonatori di zufolo, nuvole, pescatori e relativi pesci che parevano del tutto indifferenti l'uno all'altro e di cui Guglielmo, un po' disorientato, non capiva quale fosse la storia o il disegno magico che li aveva fatti affollare lì su quelle pareti.

«Perché non vai a vedere il resto della casa?» disse la madre con tono allegro come se lo invitasse a un gioco.

Ma Guglielmo non si mosse.

«Vai, se no qui respiri tutta la polvere. Abbiamo quasi finito. Vai, vai che tra poco arrivano tutti e poi si va a tavola...»

«Ma poverino, avrà paura tutto da solo» insinuò Fiammetta.

«Ma che gli metti in testa... Ma quale paura?» si risentì pedagogicamente la madre.

Guglielmo si staccò a forza dalla stanza. No, lui non aveva paura. Lui non poteva avere paura. Troppe volte era stato detto che per fortuna lui non somigliava a Fiammetta che si era rovinata la vita ad aver paura di tutto: colpa dei gemelli, sosteneva la madre, che, per tutta l'infanzia, avevano avviluppato la sorella più piccola in una ragnatela di racconti mostruosi. Poi Emilio era morto e questo non aveva fatto altro che aggravare le sue paure paniche con l'aggiunta di un doloroso sentimento di vergogna perché le pareva che le sue paure infantili profanassero la memoria del fratello morto.

Nel timore che Guglielmo potesse subire tale menomante influenza, era stato sentenziato preventivamente da tutti che lui era proprio l'opposto della sorella e, senza alcuna prova d'appello, era stato marchiato a fuoco come "coraggioso". Così, ora, la più grande paura di Guglielmo era diventata quella di avere paura, perché non si poteva permettere di deludere tutta quella aspettativa di eroismo che gli gravava sulle spalle e poi temeva che nessuno avrebbe ormai più creduto ai suoi richiami di aiuto che, come in quella terrificante favola, si sarebbero persi per sempre in un agghiacciante silenzio lasciandolo in pasto ai lupi e ben più mostruose creature. Non si poteva permettere quindi di aver paura e per non correre rischi cimentava la sua resistenza affrontando prove sempre più pericolose: non accendeva la luce per traversare le stanze buie; affrontava sottoscala e cantine con una candela tremolante; evocava con sussurri angosciati, dal suo letto avvolto nelle tenebre, le orribili presenze malefiche che avevano popolato, per tutta una giornata, il fondo nascosto della sua mente che ora, da solo poteva affrontare e sfidare sicuro che se anche avesse dovuto soccombere, sarebbe avvenuto lontano dagli occhi di tutti, al riparo da qualsiasi svergognamento.

E così, sotto la spinta ineluttabile del suo conclamato coraggio, Guglielmo dovette affrontare la solitaria esplorazione di quella grande casa sconosciuta.

Una porticina mimetizzata tra gli affreschi attrasse subito la sua attenzione. Dovendo rischiare il tutto per tutto, quella specie di passaggio segreto era certo l'inizio più appropriato per dar corso alla sua nuova avventura.

Da lì Guglielmo sbucò proprio al centro del grande appartamento che occupava tutto il primo piano di un palazzotto della fine del settecento. Un corridoio lunghissimo senza finestre, sul quale si affacciavano, sui due lati, le piccole porte di servizio di quasi tutte le stanze, traversava il ventre scuro della casa.

Al centro del corridoio, molto in alto, tanto da sfumare e amalgamarsi all'oscurità pressoché impenetrabile del soffitto, era appesa una grandissima tela dalla quale biancheggiavano nebbiosamente le carni nude di una enorme Venere giacente. Il tempo e l'abbandono avevano spalmato su tutto il dipinto una uniforme patinatura nerastra che aveva velato anche gli occhi della Venere, accecandoli. Ma talvolta il riverbero di un filo di luce penetrato casualmente nel lungo budello veniva catturato dalle oscurità annidate lassù in alto e risvegliava guizzi minacciosi nell'ombra di quegli occhi che parevano d'un tratto inseguire chi passando aveva incautamente osato alzare lo sguardo. Guglielmo capì subito il pericolo e, ad occhi bassi, rapidamente sgattaiolò via attraverso una delle piccole porte di servizio e si trovò a percorrere una lunga fuga di stanze che comunicavano tutte tra di loro: camere dai soffitti stuccati e decorati con motivi grotteschi, sale trabeate a cassettoni, salotti abbelliti da minuscoli gigli araldici blu stinto stampati sulle pareti.

All'estremo della casa, separato da tutto il resto, scoprì, inaspettatamente, un piccolo paradiso: in una stanza perfettamente quadrata che prendeva luce da due finestre gemelle, angiolini riccioluti si affacciavano dalla volta bombata per lanciare rose e sorrisi sul mondo sottostante. Rapito da rutta quella amorevole frivolezza, di ogni angelo Guglielmo spiò, per un tempo interminabile, fattezze, atteggiamento e personalità costringendosi a torcere il collo e a forzarlo all'indietro tanto da farsi girare la testa, perdendosi, quasi anche lui si fosse fatto putto con le ali, in una sensazione simile ad una ebbrezza di volo. Si riprese prima di rovinare a terra.

Abbinata ad un bagno tutto marmi e ad uno spogliatoio affrescato con pergole e fiorami, quella era la camera della madre, il sancta sanctorum, un regno esclusivo nel quale il padre pareva avesse un qualche diritto d'accesso temporaneo ogniqualvolta tornava dal paese d'origine dove risiedeva e lavorava per quasi tutta la settimana.

Altra bella sorpresa, forse la più entusiasmante, gli era riservata al lato diametralmente opposto della casa. Il corridoio oscuro, scampata la minaccia dello sguardo cieco della Venere nuda, si incuneava tra le stanze della servitù per approdare alla fine ad una lunga veranda che sfociava dirompente sulla veduta di un grande giardino arruffato e selvaggio pieno di promesse di libertà e mistero, in cui, all'improvviso, con la coda dell'occhio Guglielmo captò un guizzo svirgolante tra le cime del boschetto che chiudeva, a ridosso di un altissimo muro di cinta, il lato più lontano del giardino. Ma per quanto aguzzasse lo sguardo non vide altro che un dondolio di rami mossi dal vento. Un uccello? Un animale magari. Si fece ancora più attento perché sentì zampettargli elettricamente su per la schiena il noto brivido di quando, netto, era il presagio che qualcosa stava per rivelarsi. Infatti, poco dopo, a qualche distanza dal punto di prima, altri rami ondeggiarono in un movimento anomalo.

Le orecchie gli si riempirono dei tonfi sordi dell'attesa.

Un altro movimento.

Era così spasmodicamente attento che gli sembrava di non riuscire più a vedere niente.

E invece qualcosa vide: una figurina indistinta passava da un albero all'altro, apparendo e scomparendo tra i rami più alti. Fu un attimo. Poi sembrò calare verso terra. E scomparve. E non riapparve più.

Ma Guglielmo non si mosse, rimase ad aspettare un qualche ulteriore magico segnale.

Che puntualmente arrivò: un filo di acciaio, che correva sopra la sua testa lungo tutto il soffitto, iniziò a poco a poco a vibrare emettendo un ronzio che mano a mano diventava sempre più forte; finché la campanella alla quale il filo era collegato non si mise a sbatacchiare riempiendo il silenzio di tutto il suo suono. Quando tacque, la casa si era già animata di voci: «Sono arrivati! Apro io! Guglielmo dove sei?»

Porte che si aprivano, passi che si avvicinavano.

"Ancora un attimo, ancora un attimo..." implorava dentro di sé Guglielmo che aveva disperatamente riappuntato gli occhi sul verde degli alberi. Ma qualcuno stava già entrando nella stanza. Chiunque fosse, certamente non sarebbe stata la persona con cui poter condividere la rivelazione che, poco prima, stava per compiersi sotto i suoi occhi.

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I gatti parvero capire l'antifona e scomparvero, da un giorno all'altro, come se si fossero passata la voce. Solo il loro capo, il maschio rosso, corazzato dalla sua rogna repellente, rimase a vagolare sui muri e tra le piante, manifestandosi in fuggevoli apparizioni che parevano voler sfidare le scellerate mire dei due ragazzi. Ma il cacciatore innato che era in Aldemaro ebbe la meglio sulle pur sofisticate astuzie elusive del randagio che, un giorno, superato in felinità, fu preda di un guizzo ghermente del suo persecutore.

Guglielmo aveva partecipato alla caccia da gregario, con incarichi di avvistatore e battitore e vi si era dedicato con entusiasmo anche perché, in fondo, era sicuro che il gatto rosso sarebbe sempre sfuggito a tutti i loro agguati.

Ma ora il gatto catturato era lì a dondolare, sospeso a mezz'aria per la collottola che Aldemaro teneva agguantata in una presa senza scampo e la leggenda delle sue sette vite pareva ormai a forte repentaglio anche se la sua immobilità, la sua apparente resa, appariva più minacciosa di qualsiasi ribellione miagolante e unghiante.

Poi, i tempi, improvvisamente si accelerarono e tutto stava avvenendo troppo rapidamente per poter pensare di cambiare il corso degli eventi.

Aldemaro concitato cupo, esigette ed ottenne la cintura di canapa che stringeva i pantaloni troppo larghi di Guglielmo. Rapidamente vi cinse il collo del gatto, si mise alla ricerca di un ramo adatto alla bisogna, lo trovò. Impose a Guglielmo di porgere la spalla per sostener il peso della bestia mentre lui avvolgeva l'altro capo della cintura al ramo.

Guglielmo sentì quel peso che gli calcava leggero e morbido la spalla, sentiva il velluto dei polpastrelli delle zampe posteriori che cercavano, senza unghiare, un appoggio di salvezza.

«Ora levati» gli sibilò Aldemaro e Guglielmo, come se dovesse tuffarsi in un abisso, si scostò.

Il gatto ebbe un piccolo rimbalzo di ritorno al tendersi del cappio e ora dondolava senza scalciare, come fosse già morto, ma gli occhi aperti erano ancora mobili.

«Non muore» si preoccupò Aldemaro. «Fatti sotto che rifaccio il nodo.»

Guglielmo si rifece sotto e subito il gatto gli polpastrellò la spalla.

Una voce lontana echeggiò al di là delle mura del giardino.

«È il tuo babbo» si trovò immediatamente a dire Guglielmo.

Aldemaro mollò subito la cinta e porse orecchio; il gatto rotolò a terra e vi rimase accucciato, immobile, con ancora la cintura di Guglielmo attorno al collo.

I tre, gatto rosso, Aldemaro e Guglielmo, stettero lì, fermi, tutti tesi all'ascolto di qualcosa che era solo silenzio.

Il gatto non fuggiva, sembrava indugiare a sprezzo dei due, come se li volesse tristemente sfidare a trovare il coraggio di andare fino in fondo alla loro losca faccenda.

Aldemaro guardò il gatto e gli sputò addosso. E disse: «È morto, ma fa finta di essere vivo.»

Il gatto, in risposta, lentamente si alzò e accennò a muoversi, ma poi si fermò e si voltò a guardare, in attesa. Aldemaro avanzò di un passo e il gatto si allontanò di quel tanto che Aldemaro era avanzato e si fermò. Aldemaro fece la mossa di saltargli addosso e il gatto si discostò, ma di poco; e poi si voltò di nuovo a guardarli. Aldemaro non si mosse più e allora, dopo qualche tempo, il gatto decise di rimettersi in movimento, ma per subito fermarsi e ancora guardare e ancora attendere. E così per innumerevoli volte, finché, lentamente, scomparve tra i cespugli trascinandosi dietro la cintura di Guglielmo.

«Tanto lo richiappo» concluse Aldemaro.

Guglielmo, nauseato da quella turpe faccenda, nel tornare verso casa reggendosi i pantaloni, si scaraventò attraverso certi cespugli spinosi che gli lacerarono la camicia contaminata dal contatto con la bestia rognosa, in modo tale che neppure il più sofisticato dei rammendi avrebbe mai più potuto rabberciarla.

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E lui, come ammaliato, senza niente vedere, si inoltrò tra quelle aiuole, in quel boschetto, s'infilò nella "Casina" fronzuta, ritrovò i passaggi occulti nel fittume delle siepi, guidato solo dall'antica, amorosa, intimità; e si mise a correre sfidando mutamente gli altri, sicuro della invulnerabilità che il giardino e Pardo sembravano, in quella notte odorosa, volergli ancora per una volta concedere.

Poi si mise a chiappare le lucciole perché ognuna di loro, gli era chiaro finalmente, era come una delle tante pietre preziose del tesoro nascosto.

Nel chiuso del suo pugno sentiva la rigida fragilità delle elitre sotto cui fremevano ali friabili come la pellicina che ricopre i pinoli e gli pareva che il palpitare della fosforescenza ne facesse vibrare il minuscolo corpo che seppure quasi inconsistente al tatto, sapeva opporre alle sue dita una molle resistenza.

Poi, umiliate dalla cattura, le lucciole perdevano molto del loro splendore e la luce pulsava più fiaccamente nel chiuso del barattolo di vetro che Fiammetta gli aveva amorosamente imposto di portare con sé come tutti gli altri. I messaggi da lì dentro giungevano agli occhi di Guglielmo come sommessi addii alla vita. Ma quella era la loro sorte, almeno per alcune di loro. L'indomani mattina, come sempre una volta l'anno, sotto il bicchiere posato sul comodino, al posto di quegli insetti morti, tali sarebbero apparsi alla luce del giorno, e del loro luccichio, Guglielmo avrebbe trovato quello meno splendente, ma non per questo meno desiderato, della loro metamorfosi in monete. Di cui lui ormai, e da tempo, sapeva l'esatta provenienza, ma che importava: quello che avveniva sotto il bicchiere non l'aveva mai visto, finché l'inganno veniva mandato a effetto senza che il suo sonno fosse turbato, la realtà non poteva prevalere sul sogno.

A mano a mano che il barattolo si riempiva, Guglielmo senza rendersene conto, prese a mescolarsi con gli altri che all'improvviso cominciarono a sembrargli simpatici, amabili, entusiasticamente divertenti, tanto da fargli desiderare che non andassero più via e nel caso se ne fossero andati, lui li avrebbe seguiti per vivere per sempre con loro.

Poi, alla fine di una sfrenata corsa cieca, si trovò, ansante ed eccitato, a ridosso della spalliera di arance e, un po' per gioco, un po' per nascondersi, quasi senza interrompere lo slancio della corsa, prese ad arrampicarsi su lungo il muro, per ritrovarsi sul tetto della rimessa dove si apriva la finestra dei suoi giochi passati.

Si sdraiò a guardare le stelle che parevano rimbalzargli da lassù le voci dei ragazzi che echeggiavano chiare e squillanti come sotto una cupola di vetro.

Poi ebbe il coraggio di guardare verso la finestra, ebbe il coraggio di alzarsi, di avvicinarsi, di frugare con gli occhi al di là delle sbarre, in quel buio che era di una qualità più oscura e fitta della notte stessa e il cui morbido odore di muffa riusciva a coprire quello profumato del giardino sotto le stelle.

Guglielmo si rese conto per la prima volta che Miriam non c'era veramente più e allora aprì il barattolo e fece volare le sue lucciole a riempire quel vuoto che sembrava voler risucchiare anche il mondo di fuori.

Alcune lucciole caddero senza più rialzarsi, altre invece svolazzarono curiose per lo stanzino, ma neppure loro riuscirono a trovare Miriam.

I cugini e i loro amici stavano tornando in casa e Guglielmo, divertito, si domandava quando si sarebbero accorti che lui non c'era.

Il silenzio si adagiò su tutto il mondo intorno a lui come un uccello che, senza batter d'ali, mutamente plana.

Lì con lui c'era qualcuno ora, Guglielmo lo sentiva.

Pardo era tornato e Guglielmo aveva paura, come giusto. Bisogna avere paura se si vuole essere prescelti, aveva detto Pardo quando era venuto a trovarlo durante la malattia. Forse la paura fa vedere le cose che non ci sono, pensò Guglielmo, o quelle che non si possono vedere.

E aspettò che qualcosa accadesse.

La sua paura gli faceva compagnia.

Aspettava in realtà che qualcuno in casa si accorgesse che non era rientrato.

«E sicuro che qualcuno tra poco mi chiamerà» si disse.

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Pagina 165

15.



Lunghe assenze caratterizzavano ormai la carriera scolastica di Guglielmo.

Non era solo l'odiosità dei professori che lo teneva lontano dalle aule, anche se una di loro, quella di lettere, soprannominata Orapronobis, aveva contribuito non poco al disgusto di Guglielmo. La professoressa Orapronobis, infatti, sottoponeva quei ragazzi, di cui alcuni già erano passati dai calzoni alla zuava ai calzoni lunghi, a vessazioni chiesastico-puritane i cui punti di forza erano la preghiera mattutina e le mani sul banco. Per quanto riguardava la preghiera mattutina, alla sua entrata, sempre affrettata, l'Orapronobis esigeva un sull'attenti di slancio, quindi il segno della croce, il biascicamento di un paternoster in latino, il segno della croce, e poi seduti.

Guglielmo, pur avendo fatto comunione e cresima, non senza una cospicua serie di dovuti rapimenti mistici, aveva però da tempo abbandonato la religione poiché, quando era diventato "soldato di Cristo" ben presto si era accorto che, nonostante tutto il suo impegno da piccolo martire, il suo pensiero e il suo corpo, quasi indipendentemente, continuavano a peccare costringendolo a un disagevole e opprimente andirivieni al confessionale per sfardellarsi di quel montare continuo di peccatoni e peccatucci, per lui tutti ugualmente terribili – e se no che gusto c'era - che si ritrovava appiccicati addosso senza neanche accorgersene: fardelli inesauribili di gole, lussurie, invidie, menzogne, blasfemie, senza poi contare che spesso e volentieri non onorava, del suo giusto, il padre e la madre, desiderava la roba altrui e quant'altro.

Non c'era niente da fare, il peccato era più forte di lui e il numero dei confessori disponibili, di cui era stato costretto a una ovvia rotazione perché facili a spazientirsi, si andava esaurendo e lui certo non si contentava di quelli distratti, pronti a liquidarti con i soliti frettolosi, annoiati, paternoster, avemarie, gloriapatris. E siccome Guglielmo prendeva tutto molto sul serio, il suo rigido senso etico da cavaliere senza macchia e paura gli rese ben presto insopportabile quella pusillanime e inutile lotta e scelse definitivamente l'altro campo: il peccato. Guglielmo si sentiva confortato anche dal fatto che suo padre fosse notoriamente un laico e un mangiapreti, pur pretendendo dai figli grandi, nel passato, e al presente anche dal figlio minore, un ortodosso comportamento religioso che rientrava, secondo lui, nelle regole di una generale buona creanza — per le ribellioni e il libero pensiero ci sarebbe stato tutto il tempo: dall'università in poi. E coerentemente, ma in funzione di mero accompagnatore, scortava qualche volta la famiglia alla messa della domenica, anche se la Signora Margherita, per parte sua, pur condividendo le regole disciplinari imposte dal marito ai figli, difficilmente trovava il tempo di frequentare la Casa del Signore che senza dubbio comprendeva benissimo il troppo daffare casalingo di quella ammirevole donna.

Guglielmo, inoltre, trovò sostegno alle sue scelte miscredenti nel fatto che il fratello Attilio si fosse messo a professare un accanito ateismo, derivatogli dalla sua recente adesione al partito comunista, cosa che faceva imbestialire il padre che percepiva nell'infatuazione del figlio maggiore il tentativo di surclassare la sua signorile laicità con volgari mezzucci estremistici.

Guglielmo, una volta deciso di rinunciare ai benefici della fede, si scoprì abbandonato a se stesso: era necessario mettersi immediatamente alla ricerca di un nuovo riferimento morale e il suo animo sgomento trovò subito di gramde conforto le nuove idee di Attilio che gli parvero uno straordinario appiglio etico al quale agganciare la sua eroica concezione del mondo.

Non era neanche lontanamente pensabile fare trasparire nell'ambito scolastico tali blasfeme inclinazioni, ma era ovvio che Guglielmo, ancora più degli altri compagni — anche loro, in ogni caso, avviliti d'essere trattati come bimbi di primo catechismo — avvertisse l'imposizione dell'orazione come un terribile sopruso. Ma peggio ancora era il dover tenere, se non impegnate in lavori di routine scolastica, le mani sul banco: lì, a disposizione delle ispezioni dell'Orapronobis che voleva aver l'agio di controllare, ogni qualvolta le saltasse l'uzzolo, tutte quelle unghie irrequietamente smozzicate, la cui pulizia, a suo dire, corrispondeva direttamente al nitore dell'animo che, ahimè, nel caso di quella scolaresca, pareva oscenamente lordato dalla preponderanza di unghie listate a lutto la cui percentuale risultava talmente alta da infangare, travolgendo e annullando le rarissime eccezioni, la credibilità morale di tutta la classe.

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Pagina 223

20.



Era ancora buio quando giunse davanti alla scuola la mattina della grande serrata. Ma trovò solo un altro in attesa. Quasi lo avrebbe voluto abbracciare quel coraggioso e solerte compagno che lo aveva addirittura preceduto nell'ansia di rendersi utile. Ma il Gozzi, così si chiamava, spiegò che lui era lì a quell'ora tutte le mattine perché veniva dalla campagna. Dopo una bella camminata di quattro chilometri per viottoli e prode, raggiungeva la statale e lì sfruttava un passaggio che gli davano alcuni operai il cui turno in fabbrica iniziava alle sei. Poi aspettava le donne delle pulizie che lo facevano entrare di straforo. Era per questo che gli altri lo trovavano sempre in classe quando suonava la campanella, spiegava con un sorriso di scusa. Ed era per quello, pensava Guglielmo, che sotto il suo banco, specialmente nelle giornate di pioggia, si accumulava il fango secco che si staccava a scaglie durante il trascorrere delle ore e per cui il Gozzi veniva a volte dileggiato dai suoi compagni che lo avevano soprannominato "Palude", ma lui pareva non offendersi, quasi fosse grato di quelle attenzioni che ratificavano in ogni caso l'accettazione della sua persona in quel luogo in cui si riteneva eternamente fuori posto, ed anzi faceva fiorire su quel raggrinzito faccino, marezzato da intrichi di venature violacee di genetica malnutrizione contadina, una larva di sorriso di riconoscenza. Si saperva fra l'altro che era il parroco del suo paese, quattro aie disposte intorno a una chiesa, che racimolati i mezzi necessari, aveva convinto i suoi a mandarlo al Liceo e, non per meriti speciali – infatti, nonostante tutto l'impegno che ci metteva, il Gozzi a mala pena "sfangava", mai termine fu più adatto, una pietosa media del sei scarso – ma perché di costituzione gracile e malaticcia che gli avrebbe impedito di lavorare la terra se non a rischio della buccia.

Il cancello della scuola si spiragliò per quel tanto che bastava a farlo sgusciare dentro e il Gozzi disse mitemente: «Io devo entrare.»

A Guglielmo non era neanche passato per la testa il pensiero di catechizzarlo: come si faceva a chiedere a uno che veniva da una famiglia dove i termosifoni si erano visti forse solo negli ospedali e dove si ragionava ancora a fascine e staia di legna, cara infame, di aderire ad uno sciopero come quello?

La donna delle pulizie chiese pietosamente a Guglielmo se voleva entrare anche lui, ma Guglielmo replicò a bassa voce un po' vergognoso: «No, grazie, oggi c'è sciopero.»

«E meno male» commentò la donna, «meno gente fra i "cordoni" c'è e meno c'è da rompersi la schiena.»

Guglielmo guardò con rammarico i due che scomparivano dentro la scuola: forse, fra tutti, quelli erano gli unici veri "compagni" per cui valeva la pena di lottare e proprio loro non sarebbero stati con lui quel giorno. E si amareggiava di non avere avuto la presenza di spirito di stringere in un abbraccio di comprensione e solidarietà il gracile Gozzi che certo, però, ragionò ulteriormente Guglielmo, non avrebbe capito il suo gesto che lo avrebbe vieppiù messo in imbarazzo. Ma anche se loro non capivano, "è per voi che lotto, soprattutto per voi" formulò nella sua mente Guglielmo, che subito vergognatosi della spropositatezza della sua presunzione, pensò che era meglio andarsene di lì ché tutto improvvisamente gli appariva terribilmente inadeguato.

Ma l'arrivo dei primi sparuti gruppi di studenti fece subito svaporare quell'idea vigliacca e anzi, per rimediare, prese immediatamente ad arringhare il suo popolo cercando di convincere i dubitosi e mettere in opera i picchetti.

Più da festa goliardica che da sommossa popolare, il vocio degli studenti che si ammassavano intorno ai cancelli ancora serrati, si trasformò in un improvviso silenzio colpevole, all'apparire dei professori che non arrivarono alla spicciolata, com'era d'abitudine, ma in formazione compatta, essendosi evidentemente accordati di affrontare la massa dei facinorosi protetti dalla forza del gruppo.

La piccola folla si spartì come le acque del Mar Rosso e i professori passarono a testa bassa. La maggior parte degli studenti distolse lo sguardo e ci furono perfino delle spinte per defilarsi il più velocemente possibile dalle prime file e chi non ci riuscì, abbassò il capo come al passaggio di un corteo funebre. Solo pochi ebbero l'impudenza di tenere alto lo sguardo e fra questi Guglielmo che, da parte sua, cercava di incontrare gli occhi di qualche professore, non a mo' di provocazione, ma per poter scambiare un saluto che servisse a rassicurarli sulle buone intenzioni di quel consesso perché quello era uno sciopero che difendeva i diritti di tutti, professori inclusi; o che forse, per il fatto di essere laureati, loro avevano acquisito una speciale immunità ai geloni?

Neanche il professore di matematica, che si diceva in odore di sinistra, ebbe a dare un qualche cenno d'intesa e Guglielmo ci rimase male perché si sentì tradito, ma allo stesso tempo capì quale potere di intimidazione potesse esercitare un gruppo, pur anche composto di ragazzotti pavidi e innocui come loro, nel momento in cui trovava un ideale comune di lotta, fosse anche per dei termosifoni diacci. E questo bastò e fu d'avanzo per risarcire la sua delusione.

Poi i cancelli si aprirono e subito si vide come si separava il grano dal loglio.

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