|
|
| << | < | > | >> |Indice11 La bambina scalza 41 11152 59 Nuova vita 81 La realtà 99 La fuga 105 Uno, due, tre, uno, due, tre... 119 Lettera a Dio |
| << | < | > | >> |Pagina 11La bambina scalzaTanto tanto tempo fa c'era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c'era chi la salutava e chi no. A volte si fermava e si introduceva di soppiatto nella cantina dove era spesso confinata e legata Juja; dicevano che era pazza ma a lei sembrava appena diversa dalle altre donne giovani e, con il suo cuoricino colmo di pietà, ascoltava i suoi lamenti contro la famiglia cattiva che non le aveva fatto sposare il suo ragazzo di nome Elek. Lei avrebbe voluto farle una carezza anche se era sporca, ma quando si avvicinò, non priva di paura, Juja le strappò il nastro rosso da una delle trecce, e prima che le strappasse anche l'altro fuggì, preoccupata all'idea di essere sgridata dalla madre o dalla sorella maggiore Judit, che si atteggiava a vicemadre. Le sorelle grandi grandi erano nella capitale a fare le apprendiste sarte, anche un fratello era in una città meno importante. A casa restavano un fratello pallidino più grande e lei, la più piccola, spesso chiamata Grattina, essendo l'ultima di sei figli vivi; le avevano dato quel nome della pasta che la madre grattava dal fondo della madia. "Grattina, stai zitta" le dicevano se capiva troppo, invece di Ditke che era il suo vezzeggiativo. Nelle sue corse qualche contadino baffuto le aizzava contro il cane e quando assillava la madre con i suoi troppi "perché?" lei non aveva tempo di risponderle, al più alzava lo sguardo viola-azzurro al cielo dicendole: "Chiedi a Lui e ringrazialo che è passato un altro inverno e la legna umida non piange più nella stufa." "E il nastro, il nastro?!" le aveva urlato appena era rientrata a casa come fosse senza una gamba. "L'ho perso, l'ho perso" mentiva non potendo dire la verità, perché la madre, quando aveva scoperto che andava a trovare Juja la pazza, non aveva troppo esitato ad allungare la mano o a mandarla a letto senza cena, ben sapendo che quell'ultima mocciosa di figlia che aveva cacato al mondo (così diceva, se era esasperata) era attratta dai matti, dai vecchi seduti muti in strada al primo sole e dai bavosi balbuzienti che voleva capire. Aveva una curiosità poco sana, ma la madre riconosceva che era la prima della classe a scuola, nonostante le leggi razziali, che il villaggio non applicava pienamente. E le tre ragazze ebree, pur confinate all'ultimo banco, non subivano le leggi con la stessa severità delle città. La piccola Ditke era seduta accanto alle due correlígionaríe: Piri, figlia della merciaia Roth, Eva, figlia del bottegaio delle spezie Reisman e lei, figlia di Stein Schreiber, di un padre che in mancanza d'altro portava le bestie altrui per venderle al mercato della città più vicina per un misero guadagno. Piri la guardava di traverso, perché era troppo povera per il padre, che al contrario del suo, con la barba e i riccioli, aveva l'aspetto di un goi e frequentava poco la piccola sinagoga. Eva, la dodicesima figlia di un padre ortodosso, era un'amica. Ma quando per un tema sulla primavera Ditke risultò l'unica premiata della classe e quasi scoppiò della felicità, tutte la invidiarono. Quel giorno non camminava ma volava a casa sbandierando il premio che consisteva in una cartolina con una rondine a colori e una scritta sul retro: "Alla mia alunna più brava, più meritevole" firmato Tarpai Klara, l'insegnante. Per strada gridava di gioia: "Mamma!" La gente, i vicini si affacciavano, solo i suoi sembravano spariti, e giunta all'ingresso vide la madre e la sorella al sole nel cortile che estraevano le piume dei cuscini. "Psss, che sventoli, che sventoli? Non vedi, giù le mani, non fiatare! Raccogli subito una a una le piume che hai fatto svolazzare!" "Guardate, guardate!" agitava ancora la cartolina, mostrando la scritta sul retro e creando una nuova nuvola. "Ci mancava solo che non ti premiassero! Non fai che recitare poesie al posto delle preghiere" borbottava la madre, ma con uno sguardo benevolo e un sorriso appena accennato capace di tramutare la sua espressione severa in una dolcezza magica che le restituiva bellezza e giovinezza. "Mi dai un premio anche tu, mamma? Un bacio." Le chiese quel dono, raro, se non nei momenti di lutto, di partenze e arrivi. | << | < | > | >> |Pagina 18Una delle rare volte in cui tornavano a casa da Budapest le due sorelle maggiori, Mirjam la bruna, sposata già incinta, le aveva portato la prima bambola vera, e lei era al settimo cielo dalla gioia. Saltava come se avesse le ali e la mamma le diceva che poteva acchiappare anche un uccello al volo. Sara, la bionda primogenita, sembrava vergognarsi della povertà. Era come gonfia di rabbia, scontenta, seria, si sentiva meno bella di Mirjam, scherzosa, leggera. Per Ditke non erano solo belle, ma eleganti cittadine della capitale dove presto sarebbe andata anche lei.Il primo vero grande spavento lo avevano avvertito tutti quando Judit era tornata a casa dopo essere stata dallo zio Berti, sempre soccorrevole, che abitava vicino alla sua ex scuola, e il maestro Rinkó, che aveva incrociato, con un sorriso beffardo, l'aveva salutata con "Heil Hitler!". Con sguardo sconvolto la ascoltavano come se quello fosse il nome del demonio; la cucina, i muri bianchi si adombrarono, nell'aria aleggiava quel nome come una macchia scura. Né Ditke, né Jonas, né Judit sapevano bene di chi fosse quel nome. Solo i genitori lo sapevano, ma come dirlo ai figli e cosa dire? Con quel saluto era entrata un'ombra permanente, una nebbia nelle anime che non produceva né parole, né illuminazione. Dalla bocca del padre sfuggì una bestemmia e sputò fuori: "Non bastava quel vile di Horthy, quell'assassino di Szálasi!" e come al solito sbattendo la porta se ne era andato. "Che il buon Dio ci protegga da loro" mormorava la madre. "Hanno infettato perfino questo buco fangoso e ignorante. Il mondo è malato, figli miei, il male ha contagiato tutta l'Europa. Ma non abbiate paura, Dio non ci abbandonerà a questi cani rabbiosi che incitano anche la brava gente ai crimini più nefasti." [...] "Mamma, cosa succede, perché non ci vogliono? Anche noi siamo ungheresi, no?" "Per loro no, solo ebrei. Siamo ebrei. La nostra patria promessa è la Palestina" assumeva un tono da favola. "Oh, è il paradiso terrestre che ci attende a braccia aperte, lì si ameranno tutti, ricchi e poveri, grandi e piccoli come fossimo una sola grande famiglia..." "E quando ci andiamo, mamma?" "Verrà, verrà quell'ora, adesso calmati, di nuovo si aprirà il Mar Rosso..." "Non ti credo, non ti credo, sei una bugiarda, mamma, non mi dici la verità!" "Vuoi dare della bugiarda a tua madre? Tu! L'ultima dei miei figli, ma perché ti ho messo al mondo?" ' "Non te l'ho chiesto io. Potevi risparmiarmi." Madre e figlia evidentemente pentite per le frasi pronunciate si guardarono ammutolite. Ditke che aveva sentito cento volte le favole sulla Terra Promessa che li attendeva, in fondo al suo cuore voleva credere alla madre ma "quell'ora" era estremamente lontana anche per la sua fantasia fertile. "Mamma, non volevo..." balbettava facendo un passo verso la figura amata. E lei, alzando gli occhi, diceva qualcosa in yiddish al suo interlocutore quotidiano che Ditke tentava di decifrare e in un tono rappacificante, chissà perché, per la prima volta chiese alla madre se Dio parlava anche lo yiddish. "Certo!" esclamò convinta, e Ditke era scoppiata in una risatina mista al pianto. "Sei impazzita?" temeva davvero della sanità mentale della piccola dall'umore troppo altalenante. E l'atmosfera nella nuova casetta, anche il silenzio, l'aria stavano diventando minacciose. | << | < | > | >> |Pagina 35Un giorno è successo il miracolo! Oltre il muro apparve zio Gyula al posto del tedesco e con dei sacchi fece calare ogni ben di Dio: pane, patate, fagioli, marmellate, verdura, farina, piselli, frutta sciroppata. Tutti noi increduli piangevamo di gioia, persino papà tratteneva a fatica le lacrime. Io chiesi subito di Endre e di Lenke, di come stesse il villaggio, come fosse un malato."E la nostra casa?" Lui scosse la testa, si mise il dito sulla bocca, temeva di essere scoperto o forse non voleva dire niente, era arrivato lì con la complicità di un fascista del villaggio? Aveva una gran fretta di andarsene presto. Comunque fosse, la nostra gratitudine, meraviglia e speranza erano incontenibili. "Ricordate," ci disse la mamma, "c'è il bene, ci sono i santi e Dio, ci ha mandato Lui Gyula." "È mio amico," precisò papà, "e un uomo." Non siamo stati mai così ricchi di cibi, che sono stati divisi con le altre famiglie numerose, e c'era anche un regalo per il medico che si occupava della pancia dolente di Jonas. Per la prima volta il mio tredicesimo compleanno è stato festeggiato con una torta, ma la mamma ancora sospirava per il pane perduto. Mancava solo una settimana alla fine di maggio, che amavo con i suoi profumi di lillà che rubavo dagli alberi e, invece che dai liberatori russi che secondo mio padre stavano arrivando, il ghetto venne invaso da stormi di corvi neri, armati, con sembianze umane. Con la velocità della luce che mancava e il sole tramontato ci hanno cacciati dalle case con urli, spinte e bestemmie, ornate nella bella lingua ungherese e tedesca, maledicendo la nostra razza con tutti i nostri avi: profeti pidocchiosi, zecche, cancri, elencavano continuamente, sorvegliando la folla in cammino; sotto gli sguardi indifferenti dei pochi passanti e di chi si chiudeva nella propria casa. Non c'era tempo né per piangere, né per parlare, solo per stare attenti ai passi e ai bimbi che potevano sfuggire dalle mani tremanti dei genitori, per sostenere i più vecchi che barcollavano come ubriachi e ciechi. Sembrava l'esodo dall'Egitto senza un Mosè, senza che apparisse l'Eterno, e invece del Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per bestiame, e la mandria umana veniva spinta dentro con violenza. "Buon viaggio!" urlava con un sorrisino beffardo un soldato ungherese scaraventando dentro un secchio per i bisogni e, stendendo il braccio con la mano libera per il saluto fascista, chiuse la porta scorrevole e il rumore della sbarra esterna di ferro ci assordò i sensi. Ammassati all'interno dove c'era appena lo spazio per i piedi risuonavano i nomi dei gruppi familiari. Noi eravamo tutti insieme. "Che fortuna, grazie al cielo" ripeteva la mamma e io le stringevo la mano e non gliel'avrei lasciata neanche se me l'avessero tagliata. | << | < | > | >> |Pagina 4111152Qualcuno aveva aperto con violenza il nostro vagone, come pure gli altri, e ci siamo trovati davanti dei cani inferociti, tenuti da uomini armati che urlavano come quel Moloch nel ghetto e tra urli, spinte, selezione, Rechte, Linke! Rechte, Linke! Rechte, Linke!, abbai, colpi; ho perso mio padre, David, Jonas, Judit, ritrovandomi aggrappata alla carne di mia madre, nella fila di sinistra, con le donne anziane. "Cerca tuo padre, tuo padre!" mi supplicava la mamma. E io le ho indicato un uomo magro, già lontano, nudo tra tanti uomini. "Dove, dove sono tutti?" continuava con quel "dove", come impazzita, mentre uno dei soldati mi si era avvicinato dicendomi di andare dall'altra parte. "Destra, destra!" ripeteva piano. "No, no, no!" stringevo più forte il fianco di mia madre. "Obbedisci! Obbedisci!" ripeteva la mamma e allo stesso tempo pregava il soldato di lasciarle l'ultima dei suoi figli. Il soldato l'ha colpita con il calcio del fucile e a furia di colpi mi ha spinto dall'altra parte, tra le donne più giovani, dove ho trovato mia sorella Judit. "Judit, Judit, Judit!" urlavo stravolta. "Mi hanno separata dalla mamma, la mamma, la mamma" ripetevo mentre venni spogliata, e cadevano le mie trecce con i fiocchi e venivo rasata, disinfettata, rivestita con una lunga palandrana grigia, zoccoli di legno ai piedi e sul collo appeso un numero: 11152, da allora il mio nome. "Mamma, mamma, mamma!" ripetevo a Birkenau, dove si camminava sulle ceneri. Ad Auschwitz, dove ci spostarono nel lager C, baracca 11. Per cinque settimane ho continuato a ripetere e ho pianto per la mamma. La povera Judit disperata mi teneva tra le braccia dicendomi: "Sono qui io, Ditke, Ditke, siamo insieme, torneremo a casa insieme e ritroverai la mamma." Ma la kapò del blocco, Aliz, una polacca, stufa dei miei pianti, mi fece scendere dal letto a castello dicendomi: "Vieni, ti faccio vedere io dove è tua madre!" Scesi di corsa e la seguii fuori, all'ingresso della baracca. "Vedi quel fumo?" mi indicò un punto oltre i numerosi blocchi. "Sì..." "Senti la puzza di carne umana?" "Ma..." "Tua madre era grassa?" "Un po'..." "Allora è diventata sapone come la mia! Noi crepavamo qui nel nostro Paese da anni, mentre voi festeggiavate ancora la Pasqua! No?" "Um..." "Pensavate che i vostri cari ungheresi non vi lasciassero portar via?" "Io..." "Vai, vai e smettila di piangere, tua madre è andata a sinistra, eh? È bruciata!" Ero rimasta senza parole. Judit inutilmente mi chiese cosa mi aveva detto quella polacca. Non gliel'ho detto, né glielo avrei mai detto, né ho creduto a quello che ho sentito, e ho negato anche a me stessa ciò che avevo udito. Poteva essere impazzita, disanimata, se era da anni in quel pianeta fuori dal mondo. | << | < | > | >> |Pagina 52"Marsch! Lauffen schnell!" Ci incitavano inutilmente in uno stato di spaventapasseri, perse nei nostri stracci, con i volti smunti, lividi e i geloni che avevano scavato buchi alle ginocchia, alle caviglie e ai piedi."Camminare! Svelti! Avanti!" ci ripetevano le due guardie. "Chi non ce la fa lo deve dire e sarà ricoverato in ospedale." Quattro sorelle con la speranza di un letto alzarono subito una mano e i fucili dei soldati risposero con quattro colpi. "Avete capito? O camminare, o morire! Ja? Marsch!" Avevamo capito. Eccome se avevamo capito, la lezione sarebbe bastata per tutta la vita se fossimo sopravvissute. In quel luogo si imparava tutto sull'uomo e sul mondo. Di sera eravamo arrivati in un villaggio lindo con dei fiori sui balconi, legna perfettamente in ordine al riparo, le finestre sbarrate. I soldati entrarono in una fattoria e uscirono delusi, parlando tra di loro del "no" che avevano ricevuto dal fattore, avendo chiesto di lasciarci dormire nella stalla. Bestemmiavano e dalle loro tracolle traevano del lardo e pane e a noi indicavano la spazzatura dove frugare. Judit scoprì il trogolo dei maiali, ma ci cacciarono via anche da lì. [...] Ci siamo ritrovate di nuovo a Bergen Belsen, ma nel campo maschile! E, Dio mio! Era ricoperto di cadaveri nudi! Alcuni ancora gementi. Un'immagine che è penetrata per sempre nell'anima. Dopo una zuppa nelle baracche, forse di quei morti al gelo, e due notti di riposo, ci ordinarono il peggior lavoro immaginabile. Distribuirono due stracci bianchi a noi pochi sopravvissuti della marcia; li dovevamo attorcigliare sulle caviglie dei morti e trascinarli nel Todzelt, la tenda della morte, dove c'era già una piramide umana. Qualcuno di loro diceva, con l'ultimo sguardo, "no, no, no", qualcuno balbettava il proprio nome e l'origine, qualcuno riuscì a dire: "Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi." Soffocate dal pianto facevamo cenno di "Sì, sì, sì". Eravamo già verso la fine di marzo. Qualcuno sparse la voce che i liberatori stessero bombardando la Germania. Non potevamo crederci. Ce l'avevano già detto ad Auschwitz quasi un anno fa. Un armo! Una vita fa! "Io non voglio più vivere. Basta, basta!" ripetevo a Judit spaventata. | << | < | > | >> |Pagina 59Nuova vitaAbbiamo vissuto tra agonia, morti, freddo, fame, fino all'ultimo appello del 15 aprile, ma dall'alba alle nove non venne nessuno a contarci. La kapò che ci metteva in fila a bastonate, perché alcune di noi non riuscivano più a stare in piedi, era sparita. L'abbandono totale era la morte? Judit, l'eroina, ebbe un'idea folle: "Vado fuori, nella cucina dei tedeschi" mi disse piano e prima che potessi cercare di dissuaderla era già in corsa e di corsa tornò con una rapa gridando: "Non c'è più nessuno! Neanche un tedesco! Non ci sono i tedeschi!" Le ragazze con gli occhi di fuori la guardavano come se delirasse. E da lì non passò più di qualche minuto, quando vedemmo arrivare una jeep con dei soldati e, terrorizzate, ci mettemmo sull'attenti. I soldati avevano un'uniforme diversa, ma a noi tutte le uniformi facevano paura. Uno di loro ci avvicinò con molta cautela, con un'espressione tra stupore, incredulità, disgusto e pietà, dicendoci qualcosa, gesticolando attorno ai nostri stracci: "Away, away!" Sopraggiunse anche un camion e ci avvicinò di corsa un altro soldato, con gli occhi in cui erano visibili le lacrime trattenute. E indicando se stesso, ripeteva: "American jewish, jew, hebrew american. You are free! Liberation! Free, free, free!" Mia madre avrebbe detto che era il Messia. Noi, pazze di gioia e lacrime, urlavamo con quel poco di fiato che ci era rimasto. E obbligate a svestirci e a buttare nel falò acceso i nostri stracci, nude e tremanti, al contrario che di fronte ai tedeschi, io arrossivo dalla vergogna con quel poco di sangue che mi teneva ancora in vita. Imbiancate come fantasmi di DDT in ogni piega del nostro corpo, fatto di pelle e ossa, ci diedero un vestito rosa di cotone a fiorellini e via, tutte su dei camion, all'ospedale militare di Bergen Belsen. E incominciò la cura; ci diedero da mangiare il minimo, aumentando molto lentamente, un po' di più, un po' di più. | << | < | > | >> |Pagina 66"Lavatevi. Cerco qualcosa di pulito da mettervi, prima che vi avviciniate al bambino. Vi preparo qualcosa da mangiare. Per raccontare c'è tempo. Anche qui abbiamo sofferto molto, la fame, il terrore: il Danubio era rosso di sangue, per la gente fucilata dai fascisti, c'era il ghetto. Ah, potrei raccontare, raccontare..."Poi accennò molto confusamente a un diplomatico spagnolo che aveva salvato migliaia di ebrei a Budapest. E io scoprii solo negli anni Ottanta che il falso console spagnolo era il commerciante italiano Giorgio Perlasca di Padova, e quel sant'uomo me lo trovai accanto, alto, magro, mite, umile, con dei lampi di dolcezza sul volto e fermezza nello sguardo e mi chiesi: "Che dirgli? Grazie?" Ci sono parole che è possibile esprimere a un ex fascista che ha compiuto qualcosa di incredibile nei tempi più bui in Ungheria, alleata alla Germania nazista? Cosa si può dire a un uomo qualsiasi che non ce la faceva più a vedere i massacri dei propri simili? Fu un moto dell'anima a ispirargli l'idea geniale di spacciarsi per il console generale di Spagna, cosa che gli permise di salvare, a rischio della propria vita, migliaia di innocenti destinati all'annientamento per ragioni puramente razziali. E così fece il vero diplomatico svedese Raoul Wallenberg, che aveva agito allo stesso modo, nella stessa epoca, a Budapest, da dove, all'arrivo dell'armata sovietica, la sua vita luminosa prima finì in prigione, poi venne inghiottita nell'oscurità più fitta, senza un raggio di luce, di verità sulla sua morte a soli trentadue anni. | << | < | > | >> |Pagina 77David si era trasferito nella città di Sara. La moglie era in attesa di un bambino. I gioielli che mi aveva affidato mi erano stati rubati. Come, quando e da chi non sapevo. Nella solitudine, in quella vita promiscua e provvisoria, mi ero innamorata di un uomo che mi mangiava con un sorriso bianco, con un'ombra di cinismo e qualcosa di falso negli angoli della bocca vorace, di uno che sa di piacere alle donne e di notte era spesso assente dalla casa comune. Perché avevo scelto proprio lui, che mi aveva sverginato con un colpo che faceva venire in mente la macellazione kasher, per cui si tagliava la gola della gallina con un solo gesto e la si buttava ancora sanguinante nel cortile della sinagoga! Era disgustato dal sangue? Perché quella violenza senza una carezza? Era lui a voler punire in me le donne o ero io a voler punire me stessa? Perché l'ho lasciato fare? Mi buttavo via, io? Volevo gettare alle ortiche la mia vita inutile, la mia giovinezza in un mondo abbrutito, i miei sedici anni difesi con tutte le mie forze e mi disprezzavo. O lo amavo? Ero malata? O assetata di amore, perché c'era una persona per la quale esistevo, mi desiderava anche se aveva altre donne, e godeva del suo piacere, senza conoscere il mio. Perché? Perché?| << | < | > | >> |Pagina 78Altri mesi e mesi di attesa, fatti di canzoni ebraiche, marce, passi militari, discorsi sull'antica patria che hanno rianimato tutti noi sopravvissuti. E mi parvero così belli, come quelli che udii nel partito comunista nascente nel paesino dove era rimasto David. A chi non piacciono parole come democrazia, giustizia sociale, uguaglianza, pane per tutti, terra ai braccianti oppressi, sfruttati, schiavizzati, cultura e coscienza al popolo, ai lavoratori e agli operai, sradicare per sempre il fascismo, il potere dei signori e delle chiese, eccetera, spazzare via la nobiltà, i borghesi che si nutrono del sangue dei popoli... su la testa, popolo, viva il proletariato! Le parole degli istruttori-agenti-guerrieri non somigliavano alle favole di mia madre, delle quali sentivo il sapore nella bocca, invece le loro voci erano rudi, aspre, nuove, diverse da noi, un'altra specie anche loro, sicuri di sé, delle proprie parole nuove, di fronte a noi inermi, martiri dei ghetti e dei campi, affamati di amore e di pace."È nato! È nato! I russi sono stati í primi a firmare! La radio, la radio. Ascoltiamo! Parla Ben Gurion. L'inno, l'inno, attenti. La Ha Tikvah!" | << | < | > | >> |Pagina 105Uno, due, tre, uno, due, tre...Dall'ordinata Zurigo siamo arrivate alla soleggiata Napoli, abbiamo preso un bel sospiro di sollievo. La città stessa, la gente, l'aria, il cielo, erano sorridenti. Ci hanno avvisato subito di stare attente alle nostre borse, di non dare confidenza e mi dispiaceva il pregiudizio verso quella città vibrante, simpatica. La pensione Santa Lucia, sul lungomare, mi sembrava il paradiso, e il locale a pochi passi, Casina delle rose, un giardino dell'Eden. Dalla mia stanzetta singola vedevo e leggevo un'insegna: Zi' Teresa, un ristorante. All'interno, oltre la vetrata, gli occhi degli avventori erano ipnotizzati dal teleschermo, il totem, l'oggetto miracoloso appena giunto in Italia da cui proveniva il suono di una chitarra e una voce, che invocava una certa Maruzzella. Per la prima volta mi trovavo bene subito, dopo il mio lungo e triste pellegrinaggio; "Ecco," mi dicevo, "questo è il mio Paese." La parola patria non l'ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola "patria", come tante altre parole: "mio", "zitto", "obbedisci", "la legge è uguale per tutti", "nazionalismo", "razzismo", "guerra" e quasi anche la parola "amore", privata della sua sostanza. Ci vorrebbero parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia. La lingua di chi canta con la voce e le corde che piangono la ignoravo del tutto. La prima parola che ho imparato è stata "ciao", me l'aveva detta la ragazzina che stava pulendo la mia stanza; "ciao" le avevo risposto e lei aveva sorriso della mia pronuncia della "o". | << | < | > | >> |Pagina 115Da Otello avevo conosciuto da tempo un profugo armeno che faceva il critico letterario e per la prima volta lo trovai in compagnia di un uomo, che mi aveva presentato dicendomi che era un poeta e regista. L'uomo mi chiese subito del mio libro, ma io ero immersa nel suo volto, nei suoi occhi eruditi, fissa sulla sua bocca carnosa, bevevo la sua voce con le erre aristocratiche che avrei voluto sempre ascoltare, le mani inquiete dal palmo tenero, delicato, che volevo per sempre sentire, il volto bello marcato e fragile da non perdere mai più di vista, un uomo che è penetrato all'istante nella mia anima, mi ha svuotato dell'energia, facendomi tremare le ginocchia. Un sentire così immediato, irrazionale, misterioso, totale mi faceva paura, per uno sconosciuto di cui ignoravo anche il nome, che mi era sfuggito, perché il suo essere mi aveva reso stordita, e avvertii di sprofondare in qualcosa d'inspiegabile da cui non sarei più risalita.
Nelo, l'uomo eletto tra milioni di uomini, mi si dava e scompariva. Mi
cercava e mi abbandonava. Mi voleva e non mi voleva.
|