Copertina
Autore Davide Brullo
Titolo Il mio nome è Nessuno
SottotitoloIncantamento, stupore e bellezza nell'arte dei semplici
EdizioneAllemandi, Torino, 2008 , pag. 156, bilingue, ill., cop.fle., dim. 24x33,5x1,5 cm , Isbn 978-88-422-1651-3
CuratoreMarcovinicio
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe arte
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Indice


 17 Apologia di Mowgli, l'artista selvaggio
    DAVIDE BRULLO

 29 The Apology of Mowgli, the Savage Artist
    DAVIDE BRULLO

 41 «Questa è la verità». Ipotesi sul pittore «semplice»
    SILVIA PACCASSONI

 43 "This is the Truth." A Theory of the 'Simple' Painter
    SILVIA PACCASSONI

 45 Nota biografica / Biographical note

 47 Catalogo / Catalogue


 

 

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Pagina 17

Apologia di Mowgli, l'artista selvaggio

DAVIDE BRULLO

«Nessuno. Il mio nome è Nessuno. Così risponde Ulizze, l'ardito e l'astuto, alla domanda del Ciclope. Siamo nel libro nono dell'Odissea. Sappiamo come va a finire. Ulisse l'avventuriero acceca il Ciclope, il quale si lancia delirante per l'isola gridando ai compagni che Nessuno lo vuole uccidere. L'episodio, emblematico, si squarcia in un finale obliquo. Ulisse si salva, e con sé salva alcuni dei propri compagni, ma pecca di vanità. Quando svela il suo nome, in mare, già imbarcato e sulla via di casa, si slega l'incanto, principiano ulteriori, drammatiche peripezie. Dopo tutto, i confratelli - essenze mute, spettrali e senza volto - lo avevano avvisato: «Pazzo, perché vuoi provocare un selvaggio?». Nel mondo del mostro, perciò del meraviglioso, si accede non soltanto mascherandosi, ma annullandosi. Si partecipa allo stupefacente svuotati di sé, in stato sonnambulico. L'Odissea, trapaniamocelo in testa, è il libro del sogno e della meraviglia, degli incontri favolosi e delle imprese oniriche, impreviste. È la soffitta dove il bambino si ritira per inventare mondi consecutivi, suggellati e plausibili. A dispetto dell'Iliade, statuaria e immobile, per nulla romanzesca, il libro dell'ira luminosa e della guerra onniavvolgente. Eppure, è papale, Ulisse non è certo il prototipo dell'ingenuo. Quando affronta il mostro selvaggio, sottraendogli la vista e forse marchiando sulla sua fronte quel «terzo occhio», usa uno stratagemma sottile - nel rovinare e perforare la bestia c'è una stordente assonanza con l'episodio di san Giorgio e il drago? Ulisse, in questo senso, è l'uomo che dirada le proprie ossessioni, le sconfigge, perché desidera la casa, la patria, la famiglia. In qualche modo, il prezzo che gli è richiesto per ottenere queste banali sicurezze terrestri è il sacrificio dei propri sogni. Ma Ulisse, bambino avido e totale, è l'uomo che rischia per il solo gusto di conoscere. Prima di abdicare ai propri sogni, prima di scavalcare le proprie fobie, vuole conquistarle, dominarle, divorarle. Chi gli ha ordinato di approdare nell'isola dei Ciclopi, chi gli ha chiesto di sfidare il mostro? Ulisse, il catalogatore dei sogni. L'impossibile, il rischioso e il tremendo, il mondo del sogno e dell'incubo, incarnato dal Ciclope, li può affrontare soltanto un signor «nessuno». Solo Nessuno penetra l'origine simbolica, mostruosa, affascinante dell'uomo, e perciò dell'arte. Perché la conoscenza è un atto gratuito e irragionevole, e l'arte è un gesto di per sé infantile, fallimentare. Segno qualcosa su una tela, capitalizzando il mio destino, gettandolo oltre i secoli. Come il barbaglio di un astro, che ci giunge fiocinando la notte, ma che forse, in questo istante, non esiste più. Avvertiamo il fiato giallo e lucente di una cosa morta. L'arte di Nessuno non parla al mondo degli umani, dei viventi, ma a quello dei sogni.

Il primitivo è la somma di due tensioni: l'«ingenuità» e la «ferocia». Scartiamo subito il giardino edenico, profumato, superbo. L'uomo non è mai ingenuo, il male lo mina fin dalle origini. È ingenuo perché privo di storia, è semplice, manca di tridimensionalità, è un uomo bidimensionale. È feroce, in fondo, proprio perché ingenuo. In qualche modo, condizionato da strutture piuttosto nette, indiscutibili, quest'uomo vive la ferocia come uno dei criteri comuni di un'esistenza. Eppure, già laggiù, nell'alba del mondo, la vita è scissa, definitivamente. Al desiderio non corrisponde l'atto, perché bisogna rendere conto al clan, al sacerdote, al dio. Così, il cielo si colma di terrificanti moti astrali, la speranza in un tempo migliore, nuovo, spacca il cuore dell'uomo dei primordi. Non si vive ma si spera, non si agisce ma si compie un rito. In realtà, feroce e ingenuo, come può esserlo soltanto un dio geloso e vendicativo, perentorio e maresciallo, è il bambino. Il bambino, coerentemente, è semplice perfino nel male, è ingenuo. Odia il proprio compagno e ne desidera la morte. Nel 1954 William Golding pubblica il suo libro più alto e tremendo, Il signore delle mosche. In epoca di postprimitivismo, di implosa età dell'oro e delle favole dell'infanzia, uno scrittore dal possente impeto morale ci dice questa cosa: se un gruppo di bimbi capita su un'isola deserta non fonda un asilo, ma un inferno. I bambini di Golding si riducono a semiselvaggi capaci delle violenze più estreme, ingenue e feroci (non è casuale che nel 1955 Golding pubblichi un romanzo, Uomini nudi, che unico nel suo genere, narra l'epopea di un clan dei primordi). Questo per dire che al primitivo, all'ingenuo, non corrisponde una innocenza dello spirito. Nel pennello e nella penna dell'artista ingenuo non vigila l'Adamo ricostruito, bensì l'Adamo caduto, con ancora i segni radicali della caduta, e la spina dorsale che scodinzola come una corda spessa, cruda. Semmai, l'innocenza - ristabilita, riequilibrata, frutto di studio e pratica matti e disperanti - è nello sguardo. Sgombro dalle celie e dalle menzogne moderne, dalla quadridimensione dei palazzi di cristallo, delle esposizioni da mercanti d'arte e di carne. Allora, sì, il pittore, quello attrezzato a puntino, decide con coscienza di appiattire le forme, tornare al segno primo e inciso, definitivo. Come a dire, non è più il tempo di giocare con l'arte, d'intrattenere il palato dei committenti, ma di centrare il marchio, singolo, indelebile, che cambierà il mondo, che resisterà per millenni. Proprio come il graffio sempiterno dell'ominide che ha raffigurato la mascella del sauro, il profilo dell'arco, il torso smembrato, cannibalizzato, del bue.

Eppure, il bambino bestia esiste. Quello che ci è necessario per comprendere il tratto di questi «innocenti» della domenica. I libri della giungla vengono pubblicati tra il 1894 e il 1895, negli anni in cui Rousseau il Doganiere è in pieno fulgore e si scoprono, inopinatamente, le grotte superbe dei nostri ancestrali antenati - nel 1869 un cacciatore svela l'ingresso di Altamira, proprio nel 1895 Rivière scoprì alcuni graffiti di rilievo nella grotta di La Mouthe, in Dordogna. Mowgli, il bambino cresciuto tra i lupi, denudato dal frac disneyano, è ingenuo e feroce. Ancor più, è vendicativo. Peraltro, vive in una modernissima condizione di esilio. È poco più - o poco meno - di una fiera, e poco meno - o poco più - di un uomo. Né di qui né di là, come il pittore neoprimitivo, come l'ingenuo della domenica, che non appartiene ai club degli artisti da caccia alla volpe, né a quello dei cittadini comuni. Nessun animale riesce a sostenere lo sguardo inquisitorio, profondissimo, umano di Mowgli, eppure per il mondo degli uomini costui non è che uno stregone. Nel racconto, terrificante e cupo, da danza ebbra, La giungla alla riscossa, Mowgli guida l'elefante Hathi e tutte le bestie della foresta contro il villaggio degli uomini. I demoni eretti hanno fustigato Messua, la donna che ha ricoverato Mowgli, per questo debbono pagare. Mowgli, impietosamente, guida la riscossa della foresta finché «là dove meno di sei mesi prima si era arato, la Giungla ruggiva a tutta lena». La piaga è biblica, e sul devastato non si ricostruirà più nulla. In quel racconto la pantera Bagheera celebra Mowgli, il dio bambino ingenuo e tremendo, il figlio del vento, astuto come un uomo ma feroce come una belva, verso cui nutrire un cauto, corretto terrore: «E tu saresti la creatura inerme in favore della quale ho interceduto presso il Branco, quando il mondo era giovane? Signore della Giungla, quando le forze mi abbandoneranno, intercedi per me... intercedi per Baloo... per tutti noi intercedi! Di fronte aste noi siamo cuccioli! Ramoscelli infranti sotto il piede! Cerbiatti che hanno perso mamma cerva!».

Per André Malraux, scrittore piuttosto estremo, amante - e ladro gentiluomo - dell'arte estrema e primordiale, la questione stava in questi termini: «Il bambino artista è come Kim, che sognando conquista le città». Ancora Kipling. Kim viene pubblicato nel 1901, e racconta, dickensianamente, le avventure di Kimball O'Hara, fanciullo inglese fattosi forte in India. Anche in questo caso, come in quello di Mowgli, un bambino sul confine. Astuto e polimorfico, proprio perché non appartiene ad alcuna gabbia. Sta comodamente tra gli indù e i cristiani, al braccio di un guru o di un maresciallo dell'esercito, le sue origini e il suo destino sono estremamente ambigue. Metto altri ceppi nel fuoco. Un anno dopo la comparsa da folletto e da istrione di Kim, nel 1902, barbaglia dalle fornite librerie d'Albione un volume di racconti. S'intitola Youth: A Narrative, and Two Other Stories, lo stampa l'editore Blackwood, porta marchiato un esergo che è quasi una dichiarazione d'intenti, fulminea e radicale («Ma il Nano rispose: "No, qualcosa di urmano è più caro per me che tutta la ricchezza del mondo», cavato da un racconto dei fratelli Grimm) ed è dedicato «to my Wife». Lo scrittore, manco a rimarcarlo, è Joseph Conrad. Tra i tre racconti spicca, sulfureo, infernale, demoniaco, il celebre Cuore di tenebra, compilato e compiuto qualche anno prima, nel 1899, cioè prima che Kim nascesse. In questo racconto, onirico e perfetto, non ci sono bambini ma due uomini, Marlow e Kurtz. Il primo, che narra la sua storia spettrale, sperimenta le tenebre dei primordi risalendo il fiume Congo. Ne è travolto, sbigottito, ma non smarrito. Il secondo - reso leggendario da Marlon Brando in Apocalypse Now - è il campione disumano perduto nella foresta vergine, in cui instaura un dominio basato sulla violenza e l'orrore. Perlomeno, ci pare. Già, perché Kurtz è un genio ambiguo. Di lui si sa tutto e nulla. Per alcuni è un ottimo capopopolo, per altri un farabutto. Per altri ancora è un sagace giornalista, oppure un grande musicista. Per la donna lontana era un uomo superbo, un amante perfetto. Non si sa con precisione dove sia nato e dove sia vissuto, Marlow ipotizza che l'intera Europa abbia congiurato per creare un simile satanasso. Dalla vigorosa possanza profetica. Sì, eppure, quando lo incontriamo, e di sfuggita, di sguincio, nel pieno della tragedia, Kurtz non ci lascia nulla se non la sigla del suo testamento, il flebile sussurro: «The horror! The horror!». Cosa fa tanto orrore? La morte, la giungla, la vita? È il delirio di un folle o il proverbio di un saggio?

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Pagina 155


Mi piacevano i dipinti idioti, soprapporte, addobbi,
tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari;
la letteratura fuori moda, latino di chiesa,
libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisnonne,
racconti di fate, libretti per bambini, vecchie opere,
ritornelli insulsi, ritmi ingenui.

ARTHUR RIMBAUD, 1873

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