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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 1. Allacciare le cinture! 11 2. Il bernoccolo della matematica 15 3. I limiti del cervello 21 4. Polemiche 27 5. La miglior ricetta per fabbricare l'Universo 31 6. Spionaggio scientifico 37 7. Amnesia cosmica e farmaci consigliati 39 8. Il tempo è spazio 43 9. L'Universo spiegazzato 51 10. «It from bit» 59 11. La donna misteriosa 65 12. Spedizione in terra nemica 67 13. A ciascuno il suo sistema 71 14. Un po' più a Est 79 15. Attenti al gorilla! 85 16. Dimostrazioni sperimentali 91 17. Per un'ecologia dei saperi 93 18. Il prezzo da pagare 99 19. Vi ordino di capire! 107 20. La temibile parapsicologia fa capolino 117 21. Soluzione di un enigma 123 22. Conoscenza e religione: il caso del giudaismo 125 23. Giudizio universale 129 24. E ora, fate i vostri giochi 137 Lista degli oratori 139 |
| << | < | > | >> |Pagina 7IntroduzioneUn giorno passeggiavo per strada con un amico, Alexandre, che lavora come giornalista scientifico, ed è un uomo straordinario. Nel bel mezzo di una conversazione animata, incrociammo qualcuno che aveva recentemente intervistato: uno scienziato, ricercatore universitario. Costui ricordò al mio amico un certo simposio che si sarebbe tenuto la settimana successiva, esortandolo a contattare la tal persona se avesse voluto assistervi. Mio malgrado, tesi l'orecchio. Non so perché, ma i dibattiti mi attirano. Le parole che riuscivo a cogliere suggerivano temi importanti e segreti, attività per iniziati. Quando il ricercatore si fu allontanato, domandai spiegazioni ad Alexandre. Si tratta di un congresso sull'unità della conoscenza. Hanno invitato scienziati di discipline diverse. Ma chi lo organizza? France Culture credo, in collaborazione con l'Università di Bruxelles. Aspetta, devo avere il programma qui da qualche parte. Alexandre frugò nella massa di carte che gonfiavano la sua ventiquattrore. Mi resi conto di invidiarlo: soltanto chi gravita nelle alte sfere poteva considerare quell'invito semplicemente come uno fra i tanti. Infine, mi mostrò un documento, che scorsi con avidità. Vi si leggeva, ad esempio: «Cosmologia e vuoto quantistico», «Esiste un'unità della conoscenza?», «I limiti della conoscenza scientifica», «L'unità nella costruzione del sé»... Riconobbi diversi nomi di scienziati di fama, autori di svariati libri. Wow! Ovviamente ci vai? Non ho ancora deciso. Mi piacerebbe, ma il dibattito prosegue per quattro giorni, e io ho già preso degli appuntamenti che non posso rinviare. Forse ascolterò soltanto l'inizio. Io mi sentivo sulle spine. Alexandre, forse penserai che queste faccende non mi riguardano, ma... la settimana prossima sono libera. Non avresti bisogno di un'assistente? Perché, davvero ti interessa? Terribilmente. Bene, allora provvediamo subito. Alexandre telefonò immediatamente alla persona che lo aveva invitato alla conferenza. «Sì, mi piacerebbe moltissimo partecipare... sì... certo... ma... per impegni precedenti... la mia assistente potrebbe darmi il cambio... Nessun problema? Perfetto. Mille grazie. Allora, a martedì». Affare fatto, amica mia. Gli saltai al collo, letteralmente, perché Alexandre è una delle rare persone che mi sorpassano di 15 cm buoni in altezza. Il martedì mattina, armata del mio bloc-notes più bello, con il mio miglior look da giornalista, attraversai il parco Solvay, a La Hulpe, convinta che sarei riuscita a individuare la sede precisa della conferenza semplicemente seguendo il flusso delle automobili. Ma il parco era deserto. Scorgevo solo scoiattoli e gente che faceva jogging. Nessuna freccia segnaletica per indicarmi la strada. Se è così che sperano di riunire le loro pecorelle! Vidi infine apparire in lontananza un castello. Doveva certamente trattarsi del luogo che cercavo. Davanti al castello, erano parcheggiate quattro vetture. Alcune persone prendevano il fresco sulla scalinata. Riuscivo a immaginare solo due possibilità: o mi ero sbagliata, e avevo capito «castello Solvay a La Hulpe» invece di «Palazzo dei Congressi a Bruxelles», oppure il simposio si stava per rivelare il peggior fiasco nella storia delle scienze. Quando mi avvicinai per chiedere informazioni, mi imbattei in Alexandre che usciva dalla porta principale. Dunque, con mia grande sorpresa, la seconda ipotesi sembrava quella più probabile, malgrado i bei nomi della lista di oratori. Domandai ad Alexandre: Sai come mai non è venuto nessuno? I partecipanti alloggiano tutti nello stesso albergo. Arriveranno in minibus a momenti. D'accordo, ma dov'è il pubblico? Non c'è nessun pubblico. Che? Non è straordinario? L'ho scoperto soltanto ora. Si tratterà di un dibattito a porte chiuse. Gli organizzatori desiderano incoraggiare la discussione tra studiosi e vogliono evitare che qualcuno dei partecipanti dia spettacolo solo per impressionare il pubblico. Mi segui? Ciò significa che noi due saremo gli unici spettatori? Pare proprio di sì. Sono l'unico tra i giornalisti invitati ad aver risposto, oltre a te naturalmente. E oggi pomeriggio sarai tutta sola! E io che pensavo di potermi sedere in ultima fila e passare inosservata! Giunto il minibus, gli eruditi, dopo averci salutato trattandoci come colleghi, si fermarono ad ammirare il parco. Alexandre, perfettamente a suo agio, aveva l'atteggiamento del giornalista consumato. Mentre io, paralizzata dalla timidezza, avrei voluto correre a nascondermi dietro un albero. Obbligata mio malgrado a stringere le mani tese, cercavo disperatamente di farmi passare per l'assistente del giornalista consumato. Quando entrammo nella grande sala del castello, fui letteralmente sopraffatta dall'emozione. Un lungo tavolo a U troneggiava al centro del salone, circondato da una ventina di sedie. Contro il muro, due sedie più piccole erano destinate a me e Alexandre. Ammutoliti come due sposi in chiesa, procedemmo verso i nostri posti. Alexandre, sono davvero fortunata a conoscerti! Aspetta a dirlo. Magari non riusciremo a capire nulla di ciò che raccontano. Non m'importa. Mi sento comunque onorata. | << | < | > | >> |Pagina 111 Allacciare le cinture!All'inizio del XX secolo, i più eminenti cervelli si davano appuntamento in Belgio una volta l'anno. Agli storici congressi Solvay intervenivano scienziati del calibro di Albert Einstein, Niels Bohr, Paul Langevin, Erwin Schrφdinger, Werner Heisenberg, e molti altri. L'evento attuale mi pareva della stessa portata, ma con una differenza significativa: invece di limitarsi al campo della fisica, gli organizzatori avevano deciso di invitare anche filosofi, psicoanalisti, matematici e teologi. Fenomeno di moda, desiderio di sperimentare tutto, mossa decisiva per assicurare il progresso della scienza? Al giorno d'oggi soffia aria di multidisciplinarità. Ma di cosa potranno mai discutere professionisti provenienti da campi così lontani? Precisamente della possibilità di trovare un punto in comune, un concetto teorico unificante, quel principio di «unità della conoscenza» citato nel titolo della conferenza. Che cosa ci si attendeva da tale confronto? Nessuno era in grado di prevederne l'esito. Secondo gli organizzatori, lo scambio dei punti di vista più improbabili poteva condurre all'«illuminazione». Come descrivere l'atmosfera di un tale simposio? Venti individui la cui attività principale consiste nel pensare si trovavano riuniti nella stessa stanza, pronti a ragionare tutti insieme, come una sorta di «fronte comune del neurone». Ma, appartenendo a discipline così diverse, non potevano attenersi al loro oggetto abituale, come il bosone, il sintomo o l'orangutan. Altrimenti, rischiavano di parlare al vento. Sarebbero stati perciò costretti a riflettere sulla scienza nel suo insieme, sulla possibilità di conoscere il mondo, su ciò che accomuna i diversi interrogativi. Un compito che dava le vertigini! Seduta in disparte nel grande salone di gala, avevo la netta impressione di poter condividere i segreti degli déi, o di chi più si avvicina alla divinità qui sulla terra. Quei campioni della materia grigia riuniti stavano per tentare una grandiosa unificazione della scienza, senza pubblico né uditorio che potesse indurli a bleffare. Ognuno di loro aveva accettato di partecipare alla discussione per lavorare seriamente e con impegno, non per mettere in mostra il proprio genio. Io e Alexandre eravamo eccitati all'idea di assistere a un tale spettacolo. Avevamo la sensazione di essere stati catapultati indietro nel XVII secolo, nel cuore di un dibattito tra Cartesio, Pascal, Fermat, Hobbes, Newton, Leibniz, Huygens, e altri ancora.
A nome di France Culture, Michel Cazenave prende la parola
per accogliere e ringraziare i presenti. Spiega che il ruolo di una
radio dedicata alla cultura è anche quello di partecipare al dibattito delle
idee. Invece di limitarsi a testimoniare la produzione intellettuale dell'epoca,
è chiamata a contribuire a tale produzione,
suscitando la discussione e organizzando le occasioni di incontro. A quali
risultati sarebbero giunti i saggi del XVII secolo se
avessero potuto contare su strumenti come la radio, con Madame
de Maintenon e Madame da Staλl ai microfoni nei loro salotti trasformati in
studi di registrazione?
A proposito del problema dell'unità della conoscenza, dobbiamo innanzi tutto
risolvere una questione spinosa: si tratta di
un processo di scoperta o di costruzione? Saremo chiamati a lavorare su un
concetto già esistente o a inventarne di sana pianta
uno nuovo? Forse finiremo per stabilire che i due processi coincidono, che la
scoperta implica sempre una costruzione. Oppure
saremo costretti ad ammettere l'insolubilità del problema. Ma tale
riconoscimento costituisce in un certo senso una soluzione, perché implica
comunque una scoperta: quella dei nostri limiti. Il dibattito potrebbe rivelarsi
sterile, perché alcune questioni fanno avanzare la conoscenza, mentre altre la
insabbiano. In tal caso, andremo a berci un bicchierino tutti insieme.
L'ordine delle esposizioni è disparato, ma si comincia con le scienze «dure», che studiano il mondo fisico e naturale. E la più dura di tutte, priva di legami con il mondo materiale, pura costruzione dello spirito, fondamento di tutte le altre scienze, è senza dubbio la matematica. Θ dunque legittimo cominciare interrogandosi sulla «irragionevole efficacia della matematica», secondo la celebre formula di Eugene Wigner. Il filosofo della scienza Dominique Lambert prende la parola. | << | < | > | >> |Pagina 152 Il bernoccolo della matematicaUna constatazione si impone innanzi tutto: oggi non è più soltanto la fisica ad affidarsi a strumenti matematici, ma anche gli altri rami della scienza, come la biologia, la biochimica e persino le scienze umane. In un mondo che pensa, tendiamo a pensare che la matematica si applichi a qualsiasi cosa. Ma è davvero così? Questa importante questione merita un approfondimento.
Quando diciamo che la matematica è «efficace», intendiamo
principalmente tre cose. In primo luogo, la matematica permette
spesso di prevedere i fenomeni. Talvolta, ci consente anche di
spiegarli. Non pensiate che si tratti della stessa cosa. Lo studioso
può calcolare la traiettoria di un proiettile, ma ciò non spiega le ragioni di
tale movimento. Spetta al professore di fisica chiarire il
ruolo della gravità e dell'inerzia. In altri campi della fisica, le
equazioni funzionano malgrado i calcoli in quanto tali non svelino
la struttura dei fenomeni. Dobbiamo dire anche che, in alcune circostanze, la
matematica ispira idee nuove, destinate a rivoluzionare il nostro modo di
pensare. La recente teoria delle corde o la geometria non commutativa, malgrado
i loro legami con il reale non siano stati ancora stabiliti, possiedono una
fecondità teorica incredibile e aprono nuove strade nella rappresentazione del
mondo.
Non tutte le scienze matematiche si equivalgono sul piano qualitativo. Alcuni formalismi risolvono problemi e unificano campi della conoscenza, altri restano puri esercizi teorici su assiomi arbitrari. Ci sono teorie utili e altre semplicemente decorative. Tra le cosiddette «matematiche profonde» e le «matematiche vuote» intercorre la stessa distanza che c'è tra un martello classico (strumento universale) e un oggetto capace di conficcare un solo chiodo. Ma che cosa caratterizza le matematiche profonde? Sono ricche di invarianti, cioè di simmetrie. Un invariante è una caratteristica che si conserva a seguito di una trasformazione. Come la forma di una figura dopo una traslazione o il risultato di una somma dopo la permutazione dei termini. Una caratteristica che si conserva non può che svolgere un ruolo fondamentale. Si tratta del concetto di energia per la fisica, del gene per la genetica, del sé in psicologia, della pioggia per il Belgio... Dunque, un sistema matematico profondo comprende operazioni ricche di invarianti, che ne determinano la capacità di unificazione, perché la natura della realtà consiste precisamente nel presentare invarianti e simmetrie. Per questo motivo, la matematica è un candidato ideale per la descrizione del reale. Le scoperte matematiche non compaiono per magia nella mente degli studiosi, né si applicano ex nihilo a una situazione osservata in natura. Non possiamo ignorare lo spessore storico del processo, il carattere progressivo della costruzione a partire da formalismi efficaci. Nessuno è in grado di tirar fuori formule come conigli da un cappello. Θ spesso necessario un lungo lavoro di adattamento del linguaggio matematico alle realtà fisiche. Generalmente, si parte dai formalismi che hanno già funzionato, modificandoli gradualmente, esattamente come nel processo di trasformazione della carrozza in automobile, avvenuto passando per una dozzina di tappe intermedie e non certo con un colpo di bacchetta magica. Per cogliere appieno l'importanza della matematica, conviene dunque risalire alle origini, ripercorrere il cammino a ritroso per ricostruire il percorso compiuto da ciascun matematico. Così facendo, giungeremo a due corpus teorici di base: l'aritmetica e la geometria. Le due discipline sono paragonabili ai seni marmorei delle statue greche (per inciso, il fascino della Grecia verrà evocato più volte nel corso del dibattito). Su cosa si fondano a loro volta l'aritmetica e la geometria? Semplicemente sulla percezione elementare. Contare, classificare in categorie, distinguere la sostanza e la forma, misurare, localizzare, stabilire dei legami di causalità, elaborare delle analogie, in breve tutti i meccanismi imprescindibili che caratterizzano il nostro rapporto con il mondo reale costituiscono le radici ultime della matematica, che i cacciatori del paleolitico già utilizzavano per garantirsi la sopravvivenza. In termini darwiniani, la matematica rappresenta un vantaggio comparativo.
La matematica si presenta perciò come l'amplificazione della
capacità elementare di distinguere gli invarianti della natura: invarianti
spaziali (la preda che scappa, la selce che si trasforma in
strumento...), invarianti temporali (il grano che germoglia, l'alternarsi delle
stagioni...). Tali osservazioni costituiscono la base
del processo di formazione dei concetti e delle categorie astratte.
Il mistero dell'efficacia della matematica si chiarisce all'improvviso,
permettendoci di cogliere la logica della sua struttura interna. Dire che la
matematica funziona significa riconoscere la
nostra capacità di comprendere il mondo che ci ha permesso di
giungere dove ci troviamo oggi. La matematica non è una costruzione astratta
nata da cervelli surriscaldati, applicabile per
puro caso agli elementi della natura. Costituisce piuttosto la ragione stessa
del nostro successo come specie e riflette fedelmente
le proprietà del mondo reale nel quale ci siamo evoluti. Le regole
matematiche non sono piovute dal cielo, ma sono piuttosto radicate nella terra.
L'efficacia dei concetti matematici nei diversi
campi della conoscenza deriva dalla base cognitiva comune che
permette a ciascun essere umano di cavarsela nel mondo.
Questo primo intervento mi aveva entusiasmata. Il ragionamento presentato non faceva una piega. Ma, nella successiva discussione, un filosofo aveva ribattuto: non è attraverso la matematica che possiamo cogliere tutti gli aspetti del reale. Prodotto delle nostre percezioni elementari, la matematica ne resta in qualche modo prigioniera, perciò non può aiutarci a comprendere i sistemi che definiamo «non comprimibili», cioè non riducibili mediante semplificazioni. | << | < | > | >> |Pagina 315 La miglior ricetta per fabbricare l'Universo
I cosmologi entrano in scena. Straordinario oratore, Edgard
Gunzig fabbrica per noi, nel giro di una mezz'ora, la totalità dell'Universo
fatto di materia, spazio e tempo, con una maestria tale
da indurci a sospettare che sia imparentato con il Creatore. Non
contento, ci presenta un secondo scenario, fondato su teorie differenti. La
nostra ammirazione si trasforma in sgomento, perché
facciamo fatica a concepire l'idea di un Creatore burlone, che si
trastulla con giochi differenti utilizzando la stessa scacchiera.
La prima ipotesi chiama in causa la teoria quantistica dei campi (che prevale nell'infinitamente piccolo, a livello delle particelle elementari), confrontandola alla relatività generale (che regola l'infinitamente grande, le galassie, i buchi neri e compagnia bella). In linea di principio, queste due teorie sono incompatibili, perché regnano su scale differenti. Ma proviamo a considerare la situazione particolare dell'origine dell'Universo: tutte le scale risultano confuse. Il piccolo e il grande fanno ancora parte dello stesso uovo che in realtà, secondo Edgard Gunzig, non somigliava affatto a un uovo, ma era costituito da un substrato molto particolare: il vuoto quantistico. Gunzig ha l'ardire di proporci il vuoto come origine e matrice dell'Universo. Perché no? prosegue il fisico; l'idea di partire da un Big Bang iniziale dalle oscure premesse mi pare altrettanto azzardata. Cos'è e da dove viene questa cosa che fa bang? Su quale base ipotizzare l'esistenza di una pressione e di una temperatura infinite? Il vuoto, per lo meno, è un concetto più chiaro. Chiaro sì, ma non necessariamente semplice, perché se si ammette la teoria quantistica (e non vedo perché dovremmo rifiutare una teoria perfettamente verificata come questa), il vuoto non coincide esattamente con il significato comunemente attribuito alla parola. Il vuoto è in realtà pieno di energia latente. Inutile cercare un perché. Dobbiamo farcene una ragione e accettare ciò che una teoria, per ogni altro verso impeccabile, afferma nero su bianco: una volta eliminata qualsiasi materia o qualsiasi radiazione da uno spazio dato, resta comunque un «campo». Il campo quantistico, inamovibile e incancellabile, costituisce la trama dell'essere. E questo campo «vibra». Interviene a questo punto la teoria della relatività generale, che fornisce una teoria della gravitazione. Anch'essa è una teoria perfettamente affidabile, mai colta in fallo dai tempi di Einstein. Cosa dice? Sotto l'effetto di fluttuazioni di energia, lo spazio-tempo si curva, entra in espansione. La combinazione tra le fluttuazioni del vuoto quantistico e questa proprietà dello spazio-tempo determina il colpo di scena della creazione della materia. Perché l'espansione dà una «spintarella energetica» al vuoto quantistico, grazie alla quale le sue fluttuazioni virtuali si amplificano, creando particelle reali. Tutto solo, il vuoto non è in grado di produrre niente, ma «dopato» da un'energia, genera particelle. Questo processo implica un'amplificazione dell'espansione, che a sua volta stimola la produzione di particelle. In questo modo, di amplificazione in amplificazione, un effetto valanga conduce alla creazione dell'Universo.
Incredibilmente, l'Universo può essere nato dal nulla! Non
solo: l'Universo, espandendosi, è in grado di creare il suo stesso
contenuto. Questa soluzione miracolosa, e matematicamente rigorosa, fa venire in
mente l'esercizio di sollevare da soli la sedia
sulla quale si è seduti. Ora non abbiamo più bisogno di postulare
un colpo di bacchetta magica, né di ricorrere a un espediente
ad hoc
come il Big Bang. In ogni caso, si tratta di una possibilità
compatibile con i dati dell'osservazione, spiega con modestia Edgard Gunzig,
dopo aver creato l'Universo dal nulla. Non da un atomo primitivo, ma proprio dal
nulla assoluto, il vuoto con niente intorno, prodezza improbabile sulla quale
meditano i filosofi dalla notte dei tempi. Senza nemmeno darsi il tempo di
riprendere fiato, Edgard Gunzig ci presenta un secondo scenario.
Questa volta, fa appello alla teoria unificata di tre interazioni fondamentali: l'interazione forte, l'interazione debole e l'elettromagnetismo (la quarta forza, la gravitazione, fino ad oggi rifiuta di lasciarsi assimilare alle altre). Queste forze hanno dimostrato la loro fondamentale e intrinseca unità, per lo meno in condizioni estreme. Alla nostra scala, si presentano come tre forze differenti ma, in condizioni di energie colossali, si fondono in una sola forza. In altre parole, questa forza che ha solo un volto quando fa caldo, ne assume tre quando fa freddo. Il concetto può essere chiarito ricorrendo a un'analogia con un volume d'acqua. A temperatura ambiente, l'acqua appare limpida, a prescindere dalla direzione dalla quale la guardate. Quando l'acqua congela, le sue molecole si trasformano in cristalli, che assumono una forma differente a seconda dell'angolo di osservazione. La loro simmetria è rotta. Per descriverle con precisione, è necessario fornire molte più informazioni rispetto alla forma libera. Eppure si tratta delle stesse molecole, e la simmetria iniziale sarà ristabilita non appena la temperatura risalirà sopra lo zero. Partendo da questa immagine, ipotizziamo di vivere in un mondo «cristallizzato», fissato in alcune direzioni; se potessimo «aumentare la temperatura», vedremmo queste divergenze sparire, a vantaggio di una fondamentale unità. Nelle condizioni ottenute all'interno di un acceleratore di particelle, è stato possibile osservare che l'interazione debole e l'elettromagnetismo si confondono in una sola interazione, dotata di una simmetria superiore. L'acceleratore svolge la stessa funzione di un forno, grazie al quale esseri che conoscono soltanto il ghiaccio potrebbero scoprire l'aspetto dell'acqua liquida, nella quale la simmetria delle molecole è più elevata. L'unificazione delle interazioni fondamentali implica una conseguenza sconcertante: le particelle elementari si presentano con più volti di quanti ne possiedano in realtà. L'elettrone e il neutrino, apparentemente così diversi, costituiscono le due facce di una stessa medaglia. Ciò vale forse per tutte le particelle che oggi compongono una giungla esotica: opportunamente riscaldate, è probabile che si riducano a due o tre tipi di entità fondamentali.
Cosa ha a che fare questo concetto con la formazione dell'Universo? Nello
scenario ancor oggi prevalente, quello del Big Bang, la formazione dell'Universo
parte da una fase infinitamente calda, seguita da un progressivo raffreddamento.
Θ dunque logico riscontrare, durante tale processo di raffreddamento, diverse
fasi critiche di «cristallizzazione» che, di volta in volta, infrangono la
simmetria, determinando una differenziazione delle forze e delle
particelle. Tali cristallizzazioni successive conferiscono all'Universo la sua
fisionomia attuale, multipla e diversificata. Noi siamo
«bloccati» in questa fase particolare, in questo «stadio» energetico,
che ci costringe a interpretare una quantità di fenomeni apparentemente
divergenti. Ma sarebbe sufficiente «riscaldare» il mondo per
veder sparire tale eterogeneità sotto i nostri occhi. Poiché l'unificazione tra
elettromagnetismo e interazione debole si realizza a un
livello energetico dato, e l'unificazione di tale interazione elettrodebole con
l'interazione forte si realizza a un livello energetico superiore, nulla ci
impedisce di immaginare che l'unificazione finale
di questa tripla interazione con la quarta e ultima forza della fisica,
la gravitazione, possa realizzarsi a un livello ancor più elevato.
Ci ritroviamo dunque con due scenari per la creazione dell'Universo. Secondo
il primo, l'Universo ha origine da un'instabilità del vuoto quantistico,
responsabile di un effetto valanga, grazie
al quale il reale si autogenera e si accumula. In base al secondo scenario,
l'Universo nasce dal graduale raffreddamento di un substrato
originariamente indifferenziato. Le particelle e le forze distinte sarebbero
prodotte nel corso di tale raffreddamento, dando vita a particolari simmetrie e
«invarianti» (termine già introdotto da Dominique Lambert nella sua esposizione
sul tema della matematica).
Questa seconda ipotesi fornisce uno schema di pensiero particolarmente adatto al tema della conferenza, incentrata sull'unità della conoscenza, spingendo fino all'estremo un'ossessione della fisica, che ha sempre tentato di ridurre la molteplicità del reale a qualche legge fondamentale. Quel mostro sacro di Newton, per esempio, è divenuto celebre per aver osato affermare che una sola legge (la gravitazione universale) spiega il comportamento della mela che cade dall'albero e della Luna che ruota intorno alla Terra. In questo modo progredisce la scienza. Oggi, dopo secoli di sforzi, riusciamo a interpretare il mondo osservabile sulla base di un numero esiguo di forze e particelle, ma ben sappiamo che questo modesto alfabeto potrebbe ridursi ulteriormente. Le particelle potrebbero essere riconducibili tutte a un unico tipo, e così pure le interazioni. Il fisico Richard Feynman, con audacia ancor maggiore, ha ipotizzato che tutti gli esemplari di uno stesso tipo di particelle, per esempio gli elettroni osservabili, costituiscano in realtà un unico elettrone, impegnato a fare la spola miliardi di volte nello spazio-tempo. Tutto il contrario della tartaruga della favola, che faceva credere alla lepre di riuscire a precederla, ma in realtà non si trattava di un'unica tartaruga, bensì di quindici complici. La folla di elettroni potrebbe ridursi a un unico esemplare, che corre avanti e indietro nello spazio-tempo per ingannarci. Chissà che capogiri! | << | < | > | >> |Pagina 397 Amnesia cosmica e farmaci consigliatiEntra in scena Michel Cassé, il poeta della cosmologia, in grado di forgiare immagini che rendono le scienze magiche e fiabesche. Si propone di illustrarci uno dei misteri più profondi della cosmologia contemporanea. Tutto parte da una scoperta recente che ha stupefatto i professionisti del settore: nel 1998, misurazioni effettuate su supernove hanno stabilito che l'espansione dell'Universo è accelerata, mentre in precedenza la si credeva decelerata. Non soltanto le galassie si allontanano le une dalle altre, ma lo fanno sempre più velocemente. Se le cose stanno così (e stanno così), l'Universo deve necessariamente contenere qualcos'altro oltre alla materia che già conosciamo, perché quest'ultima dovrebbe rallentare l'espansione (grazie alla forza di gravità, universalmente attrattiva). Dobbiamo dunque postulare la presenza di una gravitazione repulsiva, esercitata da un substrato esteso e uniforme, che alcuni (e l'oratore fa l'occhiolino a Edgard Gunzig) chiamano «vuoto quantistico», altri definiscono «quintessenza», termine che denota un ritorno alla terminologia alchemica, e gli amanti della matematica chiamano «campo scalare». Secondo i calcoli, l'Universo dovrebbe essere costituito per circa il 70 per cento da questo substrato, e per il resto dalla materia ordinaria. Quest'ultima è a sua volta composta per la maggior parte da materia invisibile, definita «oscura», e da un pizzico di materia visibile, la nostra, di cui siamo costituiti voi e io, ma anche Mefisto il gatto dei vicini! In altre parole, ciò che noi chiamiamo «materia» non rappresenta che il residuo infinitesimale dell'Universo. Terribile rivelazione.
Dopo essere stato costretto ad ammettere che la Terra non è al
centro del sistema solare, che il sistema solare non è al centro della
galassia, e che la nostra galassia non è al centro dell'Universo,
l'uomo deve subire oggi un'ultima umiliazione: gli atomi che compongono il suo
corpo e il mondo materiale conosciuto non rappresentano che un elemento
marginale dell'Universo, dominato piuttosto dall'invisibile e dall'impalpabile.
Constata Michel Cassé:
«Grazie a noi, l'atomo riconosce la sua insignificanza cosmica».
Dunque gli atomi in realtà sono merce rara! Chi l'avrebbe mai detto? Che ci crediate o no, questo mondo che scalpita e si agita intorno a noi, questa baraonda permanente, non è che la spuma di un gigantesco oceano sconosciuto. Della «materia oscura» non sappiamo nulla, soltanto che deve essere composta da particelle dotate di massa a noi sconosciute, poiché finora mai rivelate. Dell'«energia oscura», chiamata anche quintessenza, non sappiamo assolutamente niente. Ci limitiamo a osservarne gli effetti. In sintesi, l'atomo, questo campione della fisica moderna di cui andiamo tanto fieri, mattone fondamentale delle nostre costruzioni mentali, conta poco più di niente nel bilancio dell'Universo. Il «materiocentrismo» costituisce una visione distorta di cui dobbiamo sbarazzarci.
L'idea che la composizione dell'Universo sia così stravagante
è sufficiente a sconvolgerci, ma le conseguenze che ne derivano
sono ancora più traumatizzanti. Perché a questi ingredienti è necessario
aggiungere una cucina molto particolare: l'espansione
dell'Universo. Cosa succede alla materia quando l'Universo si
espande? Si diluisce. E diluendosi si perde di vista, nel senso gravitazionale
del termine. La coesione della materia svanisce di pari
passo con l'aumento delle distanze. Un bel giorno, l'attrazione
universale non riuscirà più ad attrarre un bel niente, perché ciascuna galassia
sarà fuori dalla portata di quella vicina. Al contrario, la quintessenza non è
influenzata dall'espansione. Il potere
repulsivo di questo campo immateriale resta costante. Ecco perché rileviamo
un'accelerazione dell'espansione. Fino a una certa
soglia, la materia era sufficientemente densa da esercitare un effetto di
attrazione non trascurabile, che frenava la diluizione. Ma,
dopo circa dieci miliardi di anni, la quintessenza ha preso il sopravvento sulla
materia. Ben presto, quest'ultima avrà la stessa
importanza di una malattia giovanile dell'Universo ormai superata. Dopo dieci
miliardi di anni dominati dalle convulsioni della
materia, siamo entrati ora nell'èra della quintessenza, che durerà
per sempre, diluendo l'Universo fino al vuoto perfetto.
Un brivido percorre l'uditorio. Per la prima volta nella storia
dell'umanità, il destino dell'Universo è suggellato da uno scenario scientifico.
Considerando le forze in atto, dobbiamo scartare
la possibilità di un
big crunch
(ritorno al punto di origine) e di un
Universo ciclico, ma anche quella di un Universo statico. Le misurazioni e le
equazioni parlano chiaro: assisteremo a una diluizione perpetua nel gelo degli
spazi infiniti. Suona come una punizione. Ma per fortuna ci rimane qualche
miliardo di anni.
Se lo spazio-tempo è in espansione infinita, è ipotizzabile che
costituisca una «bolla», forse una tra le tante. Per non peccare di
arroganza, la cosmologia moderna ammette la possibile esistenza
di un numero infinito di bolle che non comunicano tra loro. In
questo «universo-champagne», le bolle potrebbero essere governate da leggi
fisiche diverse e non si esclude una variazione anche
nel numero delle dimensioni. Il nostro pensiero, aggiunge Michel
Cassé, si sta orientando verso la tolleranza più assoluta. Ma in
questa nuova visione, la strada verso le origini, dunque verso
l'unità, sembra ancor più difficile da individuare perché non sapremo mai cosa
accade nelle bolle vicine, ammesso che esistano.
Ma poco importa, è l'intenzione che conta. L'amnesia cosmica,
dal punto di vista dell'uomo, può essere compensata dalla scienza.
Parliamoci chiaro. Se l'Universo è composto per il 70 per
cento d'impalpabile, e per il 26 per cento di invisibile, senza contare gli
universi annessi del tutto inaccessibili, chi pretende ancora di parlare di
leggi universali è un gran bel presuntuoso! La questione dell'unità non consiste
più nel tentare di riunire ciò che vediamo, ma nel comprendere come mai vediamo
così poco. Il dibattito sembrerebbe rientrare più nel campo della filosofia.
Θ precisamente un filosofo a sollevare il problema nella discussione che segue all'esposizione. Dominique Lambert domanda quale senso attribuire all'esistenza di universi di cui non possiamo sapere quasi nulla. Forse sarà il caso di riflettere in negativo riconoscendo che, se non esistessero, la natura di alcuni fenomeni qui e ora sarebbe modificata. Comunque sia, stiamo cercando di unificare le nostre conoscenze su di un'entità che ha ben poco di unico ed è sconosciuta per il 96 per cento. Teniamo bene a mente questi limiti. | << | < | > | >> |Pagina 9317 Per un 'ecologia dei saperiDopo una parentesi che ci ha condotti molto lontano dalle scienze della natura, la filosofa Isabelle Stengers ci parlerà dell'unità del sapere, più in particolare della possibilità di dialogo tra scienze esatte e scienze umane.
Ascoltare Isabelle Stengers è come volare ad alta quota, e volerla
riassumere è arduo come qualsiasi tentativo di sintetizzare
Voltaire: tutte le pagine sono belle e necessarie, articolate alla
perfezione, come dragoni cinesi capaci di effettuare più di una virata alla
volta, sferzanti nei confronti di alcune categorie di persone o della povertà di
pensiero. I miei appunti, sporadici dall'inizio della conferenza, con qualche
pagina bianca in coincidenza con il volo pindarico di Michel Cazenave, si fanno
frenetici. Come captare tante idee? Tentiamo coraggiosamente questa
missione impossibile.
La filosofa esordisce con una domanda provocatoria: cosa dobbiamo fare affinché le scienze sociali diventino altrettanto interessanti delle scienze fisiche? Comprendiamo bene il sottointeso: la fisica si crede il centro della conoscenza. Notiamo in effetti la tendenza dei fisici a utilizzare indifferentemente due espressioni: «realtà» e «realtà fisica», come se si trattasse della stessa cosa. Ciò preclude il diritto di esistere a qualsiasi elemento che non sia fisico. La realtà fisica è la realtà tout court, quella che rimane dopo aver sradicato tutte le illusioni. Θ dunque la sola cosa che ci accomuna tutti, non soltanto noi umani, ma la totalità degli esseri intelligenti, perché sicuramente non sarà sfuggito agli extraterrestri che E = mc^2 e che un corpo immerso in un liquido sposta un volume d'acqua, ecc., ecc. Ma cosa possiamo dire della realtà sociale? Possiamo esaminarla così come si studia l'elettrone? Certamente no, perché noi ci troviamo all'interno, inglobati da tale realtà.
L'unità della conoscenza è in effetti scissa tra scienze fisiche,
che si presentano come lo studio della realtà oggettiva, e scienze
sociali che, per definizione, sono incatenate al loro oggetto, feti
ossessionati dal desiderio acrobatico di conoscere il proprio utero.
Per ripensare la scienza dal punto di vista dell'unità, Isabelle Stengers
propone di non parlare più di «conoscenza» ma di «pratica
del sapere». Questa presa di distanza consiste nel non dissertare
più sulla sola conoscenza, ma nel considerare anche i mezzi che
la producono. Perché i mezzi non sono dei semplici intermediari
neutri, ma veicolano valori anche nelle scienze esatte. Qualsiasi
dispositivo sperimentale implica sempre una visione del mondo.
In questa nuova prospettiva, l'unità, se possibile, deve essere creata mediante una relazione ecologica tra le pratiche che, ciascuna a modo proprio, contribuiscono alle altre. L'ecologia è infatti la scienza delle relazioni tra unità di uno stesso sistema. Niente impedisce di considerare l'arena scientifica come un biotopo (talvolta altrettanto competitivo della savana africana!). In linea con questo punto di vista, Michel Bitbol proponeva di prendere in esame non un corpus di conoscenza, ma la logica che lo produce.
Attualmente, sperimentiamo una sorta di ecologia per difetto:
un biotopo di discipline le cui relazioni reciproche non sono state
pensate, ma si sono create in maniera spontanea e anarchica, sfociando in una
vera «catastrofe ecologica».
Proviamo a sviluppare i due concetti principali del ragionamento: l'unità infranta e le pratiche del sapere.
Quando esistono, le relazioni tra discipline scientifiche sono
generalmente conflittuali. Nessuno si preoccupa di stabilire un
dialogo. Nelle scienze, i giudizi sono gerarchici: la fisica, regina
delle scienze come il leone è il re degli animali, disprezza la chimica, che
a sua volta snobba la biologia, che guarda dall'alto in
basso la psicologia, che disdegna la sociologia... Persino nel
campo della sociologia, più l'umano è sminuito, più la ricerca è
ritenuta scientifica, perché il prestigio deriva sempre dall'essere
stati capaci di sbarazzarsi delle illusioni, delle opinioni e delle
credenze, a vantaggio di concetti unificanti come l'equilibrio,
l'energia, il sistema, l'informazione, ecc. Capiamo come mai alcune discipline
siano meglio attrezzate rispetto ad altre. Ci troviamo in una situazione
oggettiva di guerra delle scienze, che si
è instaurata come semplice conseguenza di una lotta per la sopravvivenza (per il
denaro, il potere, il prestigio, lo spazio...).
Le pratiche del sapere sono multiple. L'approccio scientifico è caratterizzato dall'esperimento (una moda lanciata da Galileo). Siamo obbligati a dimostrare gli enunciati che formuliamo. Qualsiasi nuova ambiguità è risolta mediante nuovi congegni di laboratorio, elaborati con l'obiettivo di far parlare gli oggetti. Tale accanimento inventivo senza precedenti, evidenziando qualsiasi differenza tra due interpretazioni possibili, consente eclatanti successi. Ma questo procedimento non impedisce che gli oggetti non siano equivalenti nella loro capacità di essere interrogati. Non possiamo certo pretendere che un essere vivente risponda alle stesse esigenze di un oggetto fisico, perché, per esempio, c'è la possibilità che muoia, o che diventi pazzo. La questione dell'unità si pone allora su di un piano puramente pratico. Cosa possiamo fare e non fare con i diversi oggetti? Questa esigenza condizionerà la pratica in maniera profonda, determinando una scissione tra le discipline, senza che le loro scelte, gli obiettivi e la posta in gioco vengano mai realmente discussi ed esplicitati. Nell'ambito di ciascuna pratica, tali presupposti appaiono come mattoni di base, un insieme di vincoli talmente evidenti da divenire invisibili, che non devono in alcun caso intaccare la robustezza dei risultati. Nella sua comunicazione verso l'esterno, ciascuna disciplina pone in primo piano, non la propria singolarità («ecco in che modo particolare osservo il mondo»), ma la propria ortodossia rispetto a un metodo («ecco le verità che ho dimostrato mediante A + B»). Questa logica, propria del metodo sperimentale, è ritenuta estendibile per via naturale ai vari campi della conoscenza, che cercano di farsi valere a discapito delle altre discipline, instaurando quei rapporti di arroganza che caratterizzano il dialogo tra le scienze, dominato dal desiderio di dimostrare la «verità» più degli altri.
Questo atteggiamento è responsabile di uno scarto drammatico.
Lo scienziato che, nell'ambito della sua disciplina, possiede un'intelligenza
propria (un sapere e una modalità di produzione del sapere che non somigliano a
quelli degli altri) manifesta, nelle sue relazioni con i colleghi di discipline
diverse, un'ottusità e un conformismo desolanti. Per comunicare utilizza non il
proprio sapere, ma ciò a cui il linguaggio comune della sperimentazione ha
ridotto il suo sapere, e che serve da metro di paragone per stabilire chi ha
lavorato meglio, chi è riuscito a fare a pezzi gli altri. Le relazioni
all'interno della comunità scientifica si collocano allo stesso livello di una
guerra tribale. L'ecologia per difetto non coltiva affatto
le relazioni tra le diverse pratiche, esacerba al contrario le polemiche e
alimenta il disprezzo o, nel migliore dei casi, la mancanza
di interesse per il discorso degli altri: «I biologi non hanno niente
da insegnarmi»; «I sociologi sono degli imbroglioni»...
Ma come siamo giunti fino a questo punto? Prima di tentare di rispondere, soffermiamoci per un istante sulla formulazione della domanda, perché in molti casi il problema è proprio questo: bisogna saper porre gli interrogativi giusti. Nuova formulazione: che tipo di società ha interesse a produrre il tipo di ricercatore che abbiamo descritto? Secondo Isabelle Stengers, i comportamenti citati sono incoraggiati da una società in cui la divisione dei ruoli assicura che i ricercatori si collochino al di fuori del campo politico. La questione non è in discussione: gli scienziati fanno avanzare la scienza, correndo sul tapis roulant del progresso, senza lasciarsi influenzare dagli stati d'animo. Sono i politici, chiamati a prendere le decisioni, a utilizzare a loro piacimento i risultati della ricerca. Ciò che manca, nell'ecologia per difetto, è la possibilità delle pratiche scientifiche di svolgere una funzione attiva nella società rispetto a scelte tecnologiche, industriali, sociali e ambientali. La strutturazione disciplinare e gerarchica dei saperi sembra concepita per scoraggiare qualsiasi interesse che esula dalla propria disciplina. Gli scienziati restano trincerati nei loro fortini, senza mai mettere fuori il naso.
In contrasto con questa deconnessione istituzionalizzata,
gruppi di pressione, costituiti da «semplici» cittadini, stanno cominciando a
organizzarsi, nel tentativo di contrastare l'utilizzo di
alcuni prodotti del progresso (come il nucleare o gli OGM). Anche
se nessuno ha domandato la loro opinione, questi gruppi di cittadini non hanno
intenzione di restarsene zitti. A modo loro, realizzano l'unità, l'integrazione
di saperi di cui non sono esperti, mentre le scienze risultano totalmente
scollegate dalla politica.
Per uscire dall'ecologia per difetto, è necessario più lavoro ed energia rispetto allo scenario in cui ciascuno resta rintanato nel proprio guscio. Ma soprattutto, bisogna provare curiosità per l'altro, precisamente come accade intorno a questo tavolo. Θ necessaria una volontà di incontrarsi, di interagire, di coordinare gli sforzi. Affinché il sapere e le competenze di ciascuno contribuiscano al progresso, è indispensabile riconoscere, e persino incoraggiare, la singolarità delle pratiche.
Com'è noto, la fisica è in grado di interrogare i suoi oggetti. Lo
sappiamo fin troppo bene. La sua tendenza a farne un modello ha
ridotto gli altri al silenzio. Ovviamente, non è nostra intenzione
bandire i fisici e le loro meravigliose scoperte. Ma ci piacerebbe
che se ne stessero al posto loro. Vorremmo che riconoscessero la
singolarità della loro pratica nell'ambito di una galassia di altre pratiche.
Per esempio, discipline come la medicina o la politica, lontanissime dalla
fisica e dai suoi laboratori, creano legami tra esseri
umani. Il loro obiettivo non è la produzione di un sapere ma il successo di una
relazione, attestato dalla capacità del cittadino o del
paziente di comprendere il senso di una proposizione e di farla propria. Queste
discipline possono perfino coltivare la finzione: se
l'obiettivo è la guarigione, anche la magia può rivelarsi utile.
Ho l'impressione di sognare! La filosofa delle scienze osa scagliare una
pietra contro la comunità scientifica? Con estrema serenità, la Stengers
prosegue. Abbiamo bisogno di una metascienza, o meglio di una scienza dei
legami, che si occupi di gestire i rapporti tra le diverse scienze. Ma, finora,
nessuno scienziato ne ha sentito la necessità.
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