|
|
| << | < | > | >> |IndiceIl periegeta della botanica VIII SALA I LE PIANTE NEL LORO AMBIENTE Capitolo 1 Come nasce una comunità 3 Capitolo 2 Fuoco germina con me 17 Capitolo 3 A qualcuno piace caldo 31 Capitolo 4 Ombrelli, scolabottiglie e sassolini 43 SALA 2 NOI E LE PIANTE Capitolo 5 Botanici da discarica 59 Capitolo 6 Fatto ad arte 71 Capitolo 7 La Parigi da bere 83 Capitolo 8 Arsenico e vecchi decotti 97 Capitolo 9 Rabdomanzia aurea scientifica 111 Capitolo 10 Non si spazza sotto al tappeto erboso 125 Capitolo 11 Piccole vedette muschiate 139 SALA 3 LE PIANTE E IL NOSTRO FUTURO Capitolo 12 L'erbario nell'era della sua riproducibilità tecnica 155 Capitolo 13 La fitochimica olistica 169 Capitolo 14 Questo pomodoro non sa di niente 183 Capitolo 15 Giudicare dalle apparenze: si può 199 Capitolo 16 La rivoluzione del capannone 213 Capitolo 17 L'inseguimento del grano perenne 227 Capitolo 18 Per aspera ad Aster 241 Bibliografia 254 Credit iconografia 264 Ringraziamenti 266 |
| << | < | > | >> |Pagina VIIIIl tempo con cui si cristallizzano giudizi poi difficili da scrostare corrisponde a un battito di ciglia. È il lampo euristico di un decimo di secondo con cui, secondo i neurologi, la mente fissa la prima impressione su un interlocutore o una situazione, e se non resta fotografato in quell'istante, l'affaccio sul nostro orizzonte degli eventi verrà in fretta dimenticato o ricordato in forma distorta. È forse per questo che l'incipit di un libro può farci arrivare di filato all'ultima pagina o condannarlo al polveroso girone dei mai finiti. Lo sviluppo di quella Polaroid mentale non è l'unico scoglio, perché accettarla d'acchito e seguirla a testa bassa pongono il serio rischio di dovercene pentire: il rapido processo mentale che sottende è efficace per scegliere cose semplici ma si ingarbuglia se il quadro è, come sempre nella vita e in natura, complesso. E siccome qui al bar, tra una birra e un caffè, a Vincenzo e Giovanni devo fare un'impressione perfetta, quel lampo me lo devo giocare al meglio fondendo in un battito di ciglia le loro rispettive specialità: scienza e arte. | << | < | > | >> |Pagina XIIPer molti secoli tutto ciò di cui stiamo discutendo al bar era riassunto in un vocabolo: mirabilia. Il termine riassumeva più significati: dal meraviglioso della scoperta naturale alle collezioni di reperti esotici; dalle apparizioni fantastiche fino allo stupore per opere dell'ingegno umano che apparivano irraggiungibili, quasi magiche. I mirabilia erano compensazioni per la banalità del quotidiano, opere di un vero e proprio genere letterario che ha anticipato le odierne guide turistiche, in cui un viaggiatore trasportava metaforicamente i lettori con le sue digressioni in un mondo ricco di punti di fuga mentali. I più famosi sono quelli che raccontano le meraviglie di Roma e fanno parte, come dicono quelli bravi, della cosiddetta letteratura periegetica, che secondo l'etimologia greca permette a lettori e visitatori di girare intorno a un'opera per vedere cosa sta oltre. Questa volta, dietro l'angolo, ci sarà una storia botanica.| << | < | > | >> |Pagina 5La grande zolla d'erba mostra una natura senza sovraletture, usando dettagli riconoscibili con un minimo di conoscenza botanica: un tarassaco, una margherita, una piantaggine, una veronica e piante più elusive come Cynoglossum e achillea o come le Graminacee Dactylis, Poa e Agrostis. Con la sua istantanea brulicante di biodiversità, Dürer ha inventato un nuovo soggetto artistico, una sorta di "neorealismo vegetazionale" libero dai lacci dei simboli e delle proiezioni umane con cui le piante son sempre finite in quadri e affreschi.Anche se appaiono sospese a mezz'aria, le piante della zolla non sono isolate come in una natura morta e la loro vitalità è espressa anche dall'essere ritratte formando un piccolo mondo e non in modo distinto e separato. Quasi viene voglia di spostare le foglie per vedere cosa celano mentre sgomitano per luce, acqua e spazio, tutte affastellate eppure connesse come tessere di un puzzle, e viste raso terra si comprende che la loro disposizione non è casuale. Provate a chiudere gli occhi e a immaginare un tarassaco, poi provate a fare la stessa cosa con la zolla. Se non siete affetti da afantasia, nel primo caso riuscirete a riprodurre mentalmente la pianta, anche solo il suo concetto, ma nel secondo difficilmente potrete figurare la struttura scompigliata e variegata dell'intreccio di vegetali diversi. Al massimo ricostruirete dei particolari, ma non l'insieme nella sua complessità. Questa differenza è uno dei motivi per cui le dinamiche che regolano le comunità tra piante sono di ardua comprensione: hanno bisogno di un pensiero su più livelli, mentre il solo colpo d'occhio ci restituisce un'impressione priva dell'intreccio che lega la zolla inerbita. L'insieme delle relazioni è talmente elevato da essere non solo mentalmente, ma strumentalmente, difficile tracciarle e soppesarle tutte e così anche il ragionamento umano più elaborato fino a pochi anni fa aveva issato bandiera bianca. Sebbene appaiano ferme nell'istante in cui Dürer le ha raffigurate, le piante della zolla scambiano in ogni istante migliaia di segnali con l'ambiente circostante e con gli organismi che lo popolano e al tempo stesso sono in ascolto su tutte le frequenze di Radio Prato, per anticipare qualsiasi mossa. Tutti i sistemi fisiologici sono all'erta per captare segnali di pericolo o favorevoli e per mediare e prevenire i rischi legati a parassiti, microbi, insetti, animali, altre piante, freddo, caldo, siccità, eccesso di ombra o di luce. Se avessimo antenne e sensori adatti a captare queste interazioni, stare sdraiati su un prato sarebbe più infernale che ascoltare tutte le stazioni radio del mondo contemporaneamente e al massimo volume. | << | < | > | >> |Pagina 6Nel mondo degli uomini il facilitatore promuove la cultura della partecipazione, traghettando un gruppo a posizioni condivise. È un catalizzatore di relazioni: stimola i ritrosi, illumina i sospettosi, previene i fraintendimenti e abbassa la soglia del conflitto in comunità di affetti, di coinquilini, di lavoro. La dinamica della facilitazione, abbiamo scoperto solo da pochi anni, gioca un ruolo fondamentale anche nelle comunità vegetali, riducendo in alcune condizioni la competizione e aiutando specie diverse a vivere meglio, soprattutto limando la soglia dello stress e ottimizzando la nascita di nicchie complementari. Per capire meglio conviene chiudere gli occhi e trasferirci dal prato di Dürer a un cuscino di piante del genere Azorella, posto al limitare della vegetazione in alta quota sulle Ande o in un verde materassino alpino di Arenaria polytrichoides e Silene acaulis. Oppure potremmo sederci davanti a due leguminose chiamate Prosopis glandulosa (o mesquite) e Retama sphaerocarpa in climi più caldi, ma altrettanto inospitali come i deserti dell'Arizona e le zone più aride della meseta spagnola. Tutte queste piante sponsorizzano la facilitazione come collante di complesse comunità prative in un contesto semplificato dalla scarsità di attori. Come Roma infatti, anche la zolla di Dürer non è stata costruita in un giorno e quasi tutti i prati del mondo in un momento iniziale sono stati ambienti poco ospitali e bisognosi di balie o, se come me preferite questa espressione, di piante chioccia. Le piante chioccia sono in grado di crescere in condizioni estreme, su suoli miseri, in barba ad agenti come vento forte, gelo o siccità. La somma dei loro adattamenti corrisponde a radici profonde e a chiome semisferiche, che pescano acqua dagli strati meno sensibili alla disidratazione e formano al tempo stesso una sorta di morbido cuscino vicino al suolo. Prosperano senza l'aiuto di micorrize associate alle radici e sono quindi le perfette apripista per tutti quei luoghi che le loro simili trovano del tutto inospitali e nei quali agiscono invece da benefattrici verso sorelle e cugine. Le facilitazioni offerte da queste piante sono molteplici: riparano dal vento e come una rete bloccano i semi altrui nella loro corsa, concentrandoli sotto le proprie foglie. Offrono un riparo dall'eccesso di radiazioni ultraviolette, un microclima umido e un rifugio da eventuali predatori nelle prime fasi di crescita. In più, la loro chioma determina un piccolo effetto serra, scaldando il terreno sottostante e riducendo il rischio di gelate se il clima è rigido o raffrescandolo con l'ombra nel deserto. Grazie alla sua conformazione, la chioccia permette l'accumulo di sostanze organiche sotto di sé e progressivamente arricchisce il terreno di humus e microrganismi, che possono instaurare micorrize con le nuove piante portate dal vento e fertilizzare il brullo nulla precedente. Inoltre, le loro fioriture copiose attirano gli impollinatori aumentando la probabilità di fecondare sia la chioccia sia le piante cresciute sotto le sue amorevoli ali. Nella versione semplificata, ai margini delle zone più inospitali, la facilitazione consiste quindi nell'esercizio di un effetto positivo da parte di una specie sulla germinazione, la sopravvivenza, la crescita o la capacità di adattamento di individui di altre specie. | << | < | > | >> |Pagina 14La tentazione più grande in cui cadiamo osservando queste dinamiche vegetali è quella di proiettarle su quelle umane, trasformandole in qualcosa di politico, riversandole su nostre istanze morali e sui sentimenti che viviamo quotidianamente, come si fa con le fiabe di Esopo. Si potrebbe voler comparare le facilitazioni a un sistema sociale ideale e fraterno, in cui le collaborazioni prevalgono sulle prevaricazioni e nel quale la distribuzione delle risorse avviene in modo equanime. Al contrario, la competizione e la selettività del prato verso le nuove piantine di piantaggine potrebbero diventare una conferma per chi preferirebbe una dinamica sociale opposta e l'allentamento delle interazioni tra le specie potrebbe essere portato a testimonianza della decadenza dei costumi moderni basati sull'individualismo.A turno, in funzione del preconcetto con cui ci siamo sdraiati sul prato, possiamo esaltare l'attitudine cooperativa delle facilitazioni, il pragmatismo delle complementarietà o la meritocrazia della competizione, che porta alle successioni ecologiche e ai grandi cambiamenti nelle comunità vegetali. Possiamo immedesimarci nel buonismo delle chiocce, nella solidarietà del welfare prativo o nelle specie più opportuniste e costruire su di esse una giustificazione morale alle nostre scelte, ma non faremmo altro che sovrapporre in un transfert una nostra convinzione a fenomeni il cui unico fine è la persistenza delle specie o a studi che hanno come solo obiettivo la comprensione della vita sul pianeta. Forse dovremmo invece apprezzare la complessità così com'è: in un prato tutte le dinamiche convivono in equilibrio. Scopriremmo che proiettare le dinamiche di una comunità verde su quelle umane è un'operazione innaturale: un fenomeno biologico come l'intreccio tra facilitazioni, complementarietà e competizione non va letto come "buono" e degno di essere studiato perché può corrispondere ai nostri bisogni di un'umanità più attenta al prossimo, più generosa ed equa o perché giustifica i nostri atteggiamenti opposti. Merita di essere compreso perché ci mostra come ogni contesto riesca a trovare un suo equilibrio specifico e variabile, perché indica nella pluralità l'elemento cardinale e perché funziona senza far prevalere una singola soluzione sempre valida ovunque. Non esiste una facilitazione decisiva o prevalente e non esiste alcuna versione verde dell'uomo forte: l'unico collante è dato dalla densità delle interazioni. Secondo molti l'arte vera serve a innalzare il nostro spirito, farci ridere, piangere o arrabbiare, turbarci o renderci felici. Ci mette in comunicazione con qualcosa che sta fuori dal nostro cortile, ovvero un mondo in cui noi uomini non siamo poi così importanti. In un certo senso è la stessa cosa che dovrebbe fare la scienza. In fondo, Dürer non aveva sovrapposto valori simbolici, schemi interpretativi o idealizzazioni alla sua Grande zolla e questo l'ha resa unica rispetto al panorama artistico dell'epoca. | << | < | > | >> |Pagina 30Il legame tra piante e calore si apre come un fiore, comprato durante una fresca sera d'autunno in luoghi inaspettatamente caldi, sotto ogni punto di vista. Durante la stagione fredda, i giovani adulti trascorrono buona parte delle loro serate affollando chiassosi i dehors di locali che offrono cibo, socialità e confortevole tepore anche grazie al generoso dispiegamento di funghi termici. Pur di navigare tra i rigori dell'inverno senza allentare le loro pratiche di corteggiamento, i giovani adulti in cerca di relazioni si rivolgono infatti di preferenza a chi dispone di luoghi aperti, dinamici e tiepidi. La scelta lascia intendere che il profumo delle cibarie e la qualità del vino contano senza dubbio, ma se il gestore vuole prosperare serve l'invito imprescindibile del calore che allevia il gelo e dello spazio consono al flirt. Talvolta il vociare e le schermaglie della seduzione nelle piazze, nelle vie e lungo i marciapiedi vengono interrotte da un venditore di rose, anche se un tempo e in altri luoghi l'offerta avrebbe incluso fiori meno scontati, come le sensuali e scultoree calle. Ce lo raccontano le molte venditrici ambulanti di Zantedeschia aethiopica ritratte da Diego Rivera, che dall'alto della sua storica propensione alla mondanità frequentava sia il chiasso vip che quello popolare e notoriamente non si tirava indietro nel gioco del corteggiamento.
Gli scenari in cui si muovono giovani in cerca di calore e fiori seduttivi
non sono infatti patrimonio esclusivo delle
movidas
contemporanee. Anzi, rappresentano la ripetizione quasi pedissequa di una vita
sociale e di un incontro tra domanda e offerta basata sull'
hotspot
che coleotteri e piante hanno messo a punto ben prima del rito dell'aperitivo e
che si rinnova nelle giornate di primo sole in tardo inverno, sui prati di alta
montagna e durante le sere nei sottoboschi ombreggiati e freschi. Proprio là
dove in natura cresce la calla, tanto cara al più volte marito di Frida Kahlo.
Per gli insetti, nel nostro caso coleotteri parenti stretti degli scarabei, la notte è un problema. Homeless del terriccio di foglie cadute e marcescenti, per scaldarsi hanno bisogno di trovare un riparo, pena la necessità di ricorrere al volo e al moto di ali ed elitre per produrre l'energia termica indispensabile a non ibernarsi. Volare e sbattere le ali ha un costo, brucia energia e i nostri coleotteri non sono certo leggeri come api né esili come zanzare: il dispendio è alto, fino a sedici volte più del loro normale "camminare" e pertanto si alzano in volo solo se fa caldo o se si presenta una ricompensa (o un pericolo) superiore alla fatica. Per una pianta del bosco, poi, trovare un impollinatore disponibile e fidato è difficile. Gli insetti volanti più efficienti sono eliofili, amano volteggiare tra i caldi raggi del sole nell'aperto dei prati e raramente si infilano nella penombra della macchia, dove il freddo richiederebbe un costo energetico maggiore. Portano il polline lontano e con precisione, ma non si fanno reclutare facilmente nei quartieri bassi del sottobosco: è gente da piazza e non da vicoli bui, da buffet in spiaggia e non da serata invernale. Così, durante le ore calde l'offerta di impollinatori si spreca tra piante profumate e fiori in bella vista o gocciolanti di nettare come i pantagruelici buffet all you can eat, nelle zone preposte allo struscio intensivo. Per chi non può o non vuole sedersi a quel banchetto è meglio quindi affinare le armi del corteggiamento in orari inconsueti o meglio ancora in periodi ai margini delle stagioni come la fine dell'inverno, per posizionarsi in un mercato meno saturo e con meno concorrenti. Un mercato in cui, per contro, le temperature si fanno rigide, gli insetti volanti si impigriscono e il calore diventa moneta di scambio pregiata per far girare l'economia, quasi quanto una dose di zuccheri. | << | < | > | >> |Pagina 62Pur avendo appena fatto una passeggiata attorno a una serie televisiva, questa volta non si può girare davvero intorno all'opera. In senso letterale: sta sulla parete di una grotta istoriata circa quindicimila anni fa da un lontano predecessore di Oetzi. Né c'è un vero punto di fuga da percorrere e neppure si può parlare di opera d'arte in senso stretto. Più che a celebrare una sensibilità estetica, dipingere animali sulle pareti delle caverne serviva forse a esorcizzare la paura durante le battute di caccia, oppure a celebrare gli arditi che tornavano con braciole per tutti o ancora ad augurare la buona sorte davanti a un megalocero imbizzarrito. Probabilmente anche per questo le pitture si ripetono a decine e centinaia nelle grotte: non fungevano da opere d'arte uniche e la loro azione andava rinnovata a ogni battuta. La rappresentazione mimica della caccia a fini propiziatori mescolava i totem e la magia simpatica, nella speranza di infondere al cacciatore un potere sulla cacciagione o di evocare la comparsa di animali docili, pronti a sdraiarsi da soli sul barbecue. Non ci sono quasi mai piante in queste incisioni rupestri. Per raccoglierle non serviva fortuna e non si rischiava la pelle, bastava uscire, camminare, raccogliere e tornare a casa, senza nulla da evocare: mordere una mela selvatica dall'albero in fondo al bosco aveva il brivido di un sabato pomeriggio al centro commerciale e non meritava un post sul muro della caverna. Di piante però ne abbiamo sempre consumate sia per scopi alimentari che terapeutici o tecnologici, ma oltre a non comparire nelle pitture rupestri non hanno lasciato tracce evidenti, essendo prive di parti minerali macroscopiche (leggi: ossa e denti). Oetzi, che pure era un cacciatore provetto e disponeva di armi molto raffinate, oltre alla carne e ai resti di farro monococco aveva nel suo intestino altre tracce del suo rapporto con le piante, che restano per ora irrisolti: le abbondanti spore della felce tossica Pteridium aquilinum mescolate ai pollini di primule e ranuncoli testimoniano un'ingestione volontaria, forse a scopo curativo o perché parte di un food packaging primordiale. Eppure un'idea della dieta vegetale del nostro passato ce la siamo fatta comunque, proprio grazie alla versione scientifica delle investigazioni forensi basate sulle piante. I detective di queste indagini a ritroso nel tempo meriterebbero una loro serie televisiva e si chiamano archeobotanici. Sono ricercatori che giocano a Cluedo assieme agli archeologi, agli antropologi e agli storici, per ricostruire la dieta dei nostri antenati più umili o più lontani, ma anche per tracciare la domesticazione di spezie, frutta e verdura, la produzione di miele e bevande alcoliche nonché i relativi commerci. La botanica che sposa l'archeologia è una scienza ibrida, interdisciplinare per obbligo e sconsigliata agli stomaci delicati. Il suo pane quotidiano non è farcito da amorevoli piantine e profumati fiorellini, ma da deiezioni solidificate che prendono il nome di coproliti, di tartaro dei denti rosicchiato dai molari dei cadaveri, di pozzi neri, discariche e avanzi di digestione estratti da mummie, mammut, gorilla estinti e cadaveri non decomposti. | << | < | > | >> |Pagina 79Per preparare il libro ho visitato mostre, musei ma anche giardini e parchi, incontrando di persona le metamorfosi della chimica vegetale e le loro conseguenze per l'uomo, imparando che non sempre il cambiamento è un problema da reprimere. Durante una di queste visite, inginocchiato davanti a una fila di Iris florentina abbattuti con metodo, ho osservato una serie di impronte tozze e ravvicinate in prossimità delle foglie accasciate, il cui proprietario era denunciato da un aculeo bicolore lungo e appuntito, perso da un istrice mentre pasteggiava coi rizomi. Aveva iniziato dal capo della fila sradicando una a una le piante con le zampe «e adesso Alice è un problema, perché se ci prende gusto con un paio di scorribande notturne me le fa fuori tutte», aveva commentato il curatore del giardino botanico, evidentemente affezionato tanto alle proprie piante quanto agli animali del bosco limitrofo. Mi ero chiesto se Alice, l'istrice, non fosse infastidita dall'odore dei rizomi di iris, usati in profumeria per conferire una nota di violetta alle essenze più floreali. La gradevolezza delle caramelle al gusto di violetta resta per me un mistero gaudioso e immagino che anche per l'amica dall'aculeo facile avrebbe dovuto costituire un discreto deterrente. Raccolsi un rizoma superstite e lo annusai distratto. Non aveva alcun odore, come del resto avrei dovuto ricordare: anche il profumo di violetta dell'iris dei profumi cyphre è un artefatto, un transformer chimico. Distillando il rizoma fresco di Iris pallida var dalmatica, Iris germanica o Iris florentina si ottengono infatti solo piccole quantità di un burro, costituito principalmente da un acido grasso chiamato acido miristico e da un alito di olio essenziale, che non odora affatto di violetta e se lo vendi non ti danno due lire. Se però si usano rizomi vecchi magari di un anno, la resa della distillazione cresce e la violetta spunta al naso. Nei rizomi di iris non sono presenti le sostanze chiamate ironi e in particolare mancano quelli in grado di produrre il profumo più forte e caratteristico. Al loro posto si trovano altre sostanze dette iridali, dei glicosidi accumulati soprattutto nella parte esterna dei rizomi adulti, praticamente inodori. Come hanno scoperto da qualche secolo i profumieri, conservare per un paio di anni i rizomi decorticati, macinarli e trattarli con acido solforico diluito prima di distillare, porta in ricompensa una fragranza molto elegante e piena di artefatti. Basta una piccola modifica, un atomo di carbonio e tre di idrogeno che formano un metile in più, assieme all'eliminazione dello zucchero del glicoside, per trasformare i poco pregiati iridali, inodori e privi di valore nei pregiatissimi ironi. Fa un po' specie che il processo chimico che garantisce il passaggio di rango sia chiamato "degradazione" ossidativa, perché con un solo chilo di questo materiale ci potete comprare una buona automobile. A questo punto la sento la domanda che qualcuno si sta facendo davanti al Pollaiolo: ma se chi lavora in questo campo si identifica con Apollo, perché scegliere Dafne come patrono laico? Perché come insegna la fragranza dell'iris il più delle volte abbiamo abdicato al desiderio di raggiungere l'irraggiungibile e anziché dannarci per rendere stabile ciò che per natura si trasforma abbiamo scelto di assecondare la metamorfosi, approfittandone. Oltre che nella profumeria questo è avvenuto nell'industria tintoria. Il blu indaco è associato ad almeno una decina di diversi generi diffusi in tutti i continenti: Indigofera, Isatis, Palygonum, Marsdenia, Lanchocarpus ma nessuna di queste piante è blu. Le radici sono biancastre, le foglie sono normalmente verdi, i fiori e i frutti hanno colori variabili e nulla lascia intendere che da lì si possa ottenere il pigmento che colora i blue jeans che indossate. In tutte queste piante è però presente un glicoside chiamato indicàno, uno dei composti-macedonia di prima, nel quale uno zucchero è legato a una molecola chiamata indossile. Fino a che resta nelle piante l'indicàno è stabile e tranquillo, ma anche perfettamente incolore. Se però le piante vengono immerse in acqua e lasciate fermentare, alcuni enzimi possono liberare l'indossile e questo, una volta libero ed esposto all'aria si ossida unendosi in coppie e producendo una sostanza solida intensamente colorata di blu, un artefatto che possiede una dote assente in tutti i pigmenti di questa tonalità prodotti direttamente dalla natura: a differenza degli antociani è stabile. Talmente stabile che, forse, oltre cinque secoli fa Piero e Antonio del Pollaiolo potrebbero aver mescolato dell'indaco a un minerale chiamato azzurrite per dipingere l'abito di Dafne mentre si trasforma irreversibilmente in alloro tra le braccia di Apollo. Questo avrebbe permesso al colore della veste di rimanere quasi invariato da allora, grazie all'involontario inserimento della scienza della metamorfosi nell'arte della metamorfosi. | << | < | > | >> |Pagina 186All'esordio di una storia, secondo gli studi sulle fiabe cari a Vincenzo, le presentazioni servono a introdurre personaggi ed eroi, che nel nostro caso sono gli aromi (il protagonista), il palato dei consumatori (il mandante), gli occhi di chi ha selezionato i pomodori (gli antagonisti). A un certo punto i personaggi entreranno in un conflitto (il pomodoro selezionato insapore e nemico del palato) e serviranno degli aiutanti (le conoscenze scientifiche) per ripristinare l'idillio. Il processo con cui il palato riconosce un alimento è complesso e nel pomodoro coinvolge una chimica insolita, in quanto a differenza di altri frutti manca la guida sicura di una sostanza univoca. Il suo aroma infatti non è reso riconoscibile da un singolo composto come avviene per banane, ananas o vaniglia ma è il risultato della combinazione di più molecole, che prese singolarmente non profumano di pomodoro se non di erba tagliata, di felce, di terra o di rosa e pure di calzino bagnato e di affumicato. È come un discorso articolato, fatto di molte parole corrispondenti a sostanze odorose diverse, ciascuna dotata di un peso proprio e di una posizione precisa nella fragranza: nel pomodoro noi annusiamo un discorso, perché solo quando le parole stanno tutte assieme si materializza nel nostro naso quello che ci fa dire «Questo si che è un pomodoro!» Si tratta però di una caratteristica che nei secoli ci ha complicato la vita: se sparisce la parola chiave dell'ananas anche un naso sordo come il mio se ne accorge. Se invece dal discorso del pomodoro scompare una sola parola, un naso esperto potrebbe non notarlo subito e questo ha avuto forti conseguenze nel percorso che va dai piccolissimi pomodori selvatici delle Ande all'insalata insipida di Elena. Le sostanze volatili che compongono il profumo-discorso del pomodoro sono oltre quattrocento e vengono prodotte in due modi diversi in due luoghi botanici distinti. Il primo e più importante è dato dalle foglie, dai fusti e dal calice persistente, che forma la verde stellina a cinque punte spesso agganciata ai frutti in vendita. L'epidermide di queste zone non commestibili è affollata di peli che secernono composti odorosi e ovviamente più fitte saranno queste strutture, maggiore l'intensità del profumo. Queste parti sono quelle che ci fanno dire che il pomodoro nell'orto è più profumato di quello del supermercato: mentre ci avviciniamo alla pianta, l'aria è satura del loro lavoro e percepiamo forte l'inconfondibile profumo dato dal nostro discorso di sostanze odorose. La vendita di pomodori ancora uniti al loro rametto verde risponde proprio a questo fenomeno: si mantiene la parte più profumata per rendere olfattivamente appetibile il prodotto. Le parti verdi non sono li per imbrogliare sul peso, ma servono a portare un po' di profumo di orto sugli scaffali dell'ipermercato. Solo una piccola parte della fragranza è invece generata dal frutto e segue una via del tutto diversa, coinvolgendo strutture di solito associate alla fotosintesi: organelli verde clorofilla nel pomodoro acerbo e rossi in quello maturo. Questa via passa attraverso la degradazione di carotenoidi colorati o incolori e genera sostanze considerate sia favorevoli sia deleterie per l'aroma, in base alle varietà di pomodoro.
Questa descrizione racconta una storia nella storia ed è in essa che
l'idillio tra noi e il pomodoro inizia a scricchiolare, come avviene nelle
fiabe quando i sogni dei protagonisti vacillano: costruiamo la nostra
opinione su un frutto in base a confronti e sensazioni, perché l'olfatto
non è mai traducibile in qualcosa di universalmente condiviso. Mentre
il rosso e il verde corrispondono a lunghezze d'onda luminose ben precise,
diverse e riproducibili anche artificialmente, il racconto dell'olfatto
e il suo giudizio sono assai più soggettivi e dunque figli di una cultura e
di un'epoca. Associamo gli odori a sensazioni dipendenti alla nostra storia
personale e attribuiamo loro un valore in base a quello che abbiamo
annusato e riconosciuto nel passato.
Tra i quattrocento composti prodotti dal pomodoro non tutti hanno la stessa rilevanza olfattiva e alcuni, seppure abbondanti, non influenzano le scelte in modo sensibile: sono parole grandi e ripetute, ma non danno molto senso al discorso. Altri invece, poco più di una dozzina, contribuiscono in modo fondamentale al senso anche se sono prossimi alla soglia della percezione umana. Se il nostro naso è sufficientemente allenato li discriminiamo, ma se non prestiamo particolare attenzione o se non abbiamo imparato ad associarli a un valore positivo, la loro scomparsa può passare del tutto inosservata. Cambiando a lungo termine il senso del discorso come nel gioco del telefono senza fili. Il sentire comune di Elena, Giovanni e Vincenzo durante il pranzo e l'irresistibile tentazione della bimba di montagna non sono solo aneddoti, ma evidenze confermate nelle prove sperimentali condotte su migliaia di volontari di diversa estrazione, età e propensioni a cui sono state date in pasto oltre duecento varietà di pomodoro. In questi panel test sensoriali i pomodori di piccola taglia hanno ottenuto punteggi molto alti: risultano più dolci e il loro calice verde persistente ha quel profumo che chiamiamo "di pomodoro". Li seguono alcune varietà antiche e infine i pomodori industriali sviluppati negli ultimi cinquant'anni. I pomodori di grande pezzatura hanno quasi sempre occupato le ultime posizioni di merito a prescindere dall'origine, ma una delle differenze importanti emerse è la differenza tra persone anziane e giovani. Non c'entra l'invecchiamento delle papille ma il fatto che il gusto abbia una valutazione fortemente culturale, come del resto vale anche per le opere di Warhol: per molti estimatori della definizione classica di artista, quella che lui ha prodotto senza pennelli e manualità non è vera arte, ma una sua versione culturalmente insapore. Per altri, più vicini a un vissuto di estetica e di società moderne, è genio puro. Gli anziani in particolare hanno sempre assegnato un punteggio positivo alle varietà antiche e hanno giudicato male quelle industriali. Al contrario, le persone più giovani hanno spesso attribuito un punteggio favorevole a quelli del supermercato, per due motivi: il primo è che non avendo quasi mai mangiato un pomodoro saporito non riconoscono le note olfattive come un pregio e il secondo è che il pomodoro del supermercato «ricorda quello che portava a casa la mamma una volta». Nel loro vissuto il gusto e le emozioni sono associate a sostanze aromatiche diverse e addirittura alla loro assenza: un apparente controsenso che suggerisce il valore mutevole della qualità gastronomica. Queste prove di assaggio, opportunamente affiancate da analisi chimiche e genetiche, hanno permesso di descrivere la rottura dell'equilibrio nell'idillio tra palato e pomodoro. Dei circa 400 composti volatili prodotti dai peli sull'epidermide di foglie e piccioli, solo 33 influenzano davvero la scelta dei consumatori e tra essi 13 sono presenti esclusivamente nelle varietà più apprezzate. Queste 13 sostanze sono le parole che danno senso al discorso del profumo di pomodoro e comprendono l'esenale e i suoi derivati, dalle note di erba ed erba tagliata, i pentanoni col loro profumo fruttato, la fragranza del feniletanolo, che ricorda la frutta secca, e ionone e damascenone, che danno il profumo alla violetta e alla rosa. Nessuno di questi composti "sa di pomodoro"; ma ne creano il profumo solo quando sono mescolati assieme. | << | < | > | >> |Pagina 193Per andare incontro agli occhi, le varietà moderne dotate della mutazione del colore uniforme hanno perso la parte verde vicina al picciolo, che garantiva un piccolo contributo olfattivo anche lontano dall'orto ed essendo completamente rosse emettono nell'aria maggiori quantità del composto meno gradito. Inoltre, la prematura scomparsa della fotosintesi delle zone acerbe priva il frutto di un'importante fonte di zuccheri e acidi organici, ovvero le varietà mutanti diventano più belle da vedere e ci attirano col loro rosso sfavillante, ma sono più insipide, meno dolci e meno asprigne.Quando scegliamo il rosso del pomodoro non stiamo facendo una scelta ragionata ma scegliamo un'icona, così come quando osserviamo le minestre Campbell di Warhol non apprezziamo la tecnica artistica ma l'uso di un simbolo. Simboli e icone non hanno sfumature, sono rigidi e devono essere assoluti. Questo significa che per secoli la nostra predilezione per il rosso pomodoro ha portato i selezionatori a scartare progressivamente le varietà nelle quali il colore non era totale: quelle con spalle verdi vicino al picciolo, quelle che maturano in modo non uniforme e quelle con colorazioni pallide. La nostra esigenza di riempirci gli occhi di un simbolo cromatico ci ha svuotato il naso. | << | < | > | >> |Pagina 223Quella che comprate al supermercato come insalata Iceberg fino agli anni Trenta era nota come Crisphead, testa croccante. Poi, secondo una combinazione tra leggenda e verità, un signore californiano decise di puntare sul trasporto via treno. Le cassette di verdura venivano impilate sui pianali aperti di vagoni letteralmente ricoperti di montagne di ghiaccio e rabboccate nel tragitto che li portava verso i mercati della Est Coast. Al loro arrivo pare fossero accolti al grido di «Arrivano gli iceberg!» Questa storia corrisponde all'introduzione di un'innovazione tecnologica (i frigoriferi per la produzione di ghiaccio) e ha lasciato segni non solo nel nome dell'insalata, ma anche nella letteratura. Adam Task, protagonista di La Valle dell'Eden di John Steinbeck , inizia nel 1915 la sua avventura proprio acquistando un frigorifero e decidendo di investire tutto il suo oro nella logistica del freddo, per portare insalate dalla California a New York. L'iceberg che arriva assomiglia più a quello del Titanic e il motivo, drama letterario a parte, sta nella sottovalutazione del contesto e nell'aver forzato un'idea senza aver messo sul piatto pro e contro commerciali, limiti tecnologici del momento e rischi finanziari. L'idea di Task era buona, ma i tempi non erano maturi. Nel 2016 la National Restaurant Association ha chiesto ai suoi affiliati di indicare il trend più rilevante per il futuro della ristorazione. Il 44 per cento degli intervistati ha sostenuto la fame dei consumatori per il cibo "locale". Cosa significhi locale non è chiaro eppure è fondamentale per tutti i sistemi che si propongono come alfieri dell' urban farming. Per il consumatore la parola locale significa superfresco, cresciuto-e-mangiato a pochi metri da casa? O è associato a una cultura locale, ovvero a un set di valori sociali legati alla tradizione e alla memoria più che alla distanza fisica tra campo e piatto? O ancora "locale" implica un patto di fiducia col produttore e la possibilità di vedere fisicamente quello che coltiva, senza schermi? Un impianto di vertical farming a pochi chilometri dal centro di una grande città non risponde adeguatamente a queste domande. Per esempio, una coltivazione aeroponica sterile in un capannone soddisferebbe solo alla prima definizione e risulterebbe respingere le altre: sarebbe locale nella geografia e sostenibile per l'ambiente, ma senza esserlo negli altri asset sentimentali. Visto senza veli, quello del vertical farming è un ambito in cui le parole sostenibilità e naturalità hanno un significato culturale che confligge: per avere la prima (e secondo le stime si potrebbe) dobbiamo rinunciare all'opinione che ci siamo fatti della seconda (e forse non vogliamo), proprio perché i sentimenti sono contrastanti e confusi. L'unico studio finora disponibile sulla percezione dei consumatori di fronte a queste insalate è del 2017 e pur riconoscendo il valore in termini ambientali, le persone informate sulle vertical farm non sono disponibili a spendere di più per i loro prodotti, mentre chi ne è all'oscuro ritiene che si tratti di prodotti meritevoli di un prezzo più elevato. Forse anche per questo alcuni analisti si spingono a suggerire che le aziende dovrebbero evitare di comunicare al consumatore i loro metodi di produzione, in quanto percepiti come innaturali, di qualità inferiore rispetto al campo aperto e penalizzati rispetto anche solo a una serra. Si tratta però di un suggerimento a doppio taglio, quello dell'opacità e dell'omertà: una volta svelato incrina il rapporto tra aziende e cittadini ed è già responsabile di molti problemi per le tecnologie legate al cibo. Sicuramente il futuro, tra incertezze climatiche, aumento demografico e dell'urbanizzazione (secondo l'Ontario Institute of Technology nei prossimi 35 anni avremo 100 megalopoli ad alta densità e la popolazione urbana aumenterà del 60 per cento), riserverà una nicchia sicura anche al vertical farming. Le opportunità di mercato, tuttavia, sono ancora molto ristrette: un numero limitato di piante ben precise destinate ad acquirenti ricchi, non prodotti di massa da destinare a tutti come nella Rivoluzione industriale. Al tempo stesso, il grande peso della tecnologia nel vertical farming aumenta la divisione tra capitale e lavoro tipica di un approccio industriale, perché il suo avvio richiede investimenti possibili solo a pochi, ma mette sul piatto benefici ambientali non trascurabili; e se il problema dell'illuminazione verrà risolto il suo peso sarà inferiore rispetto all'agricoltura fino a oggi conosciuta. Del resto, pensare che la sostenibilità implichi un ritorno alla natura è sbagliato: l'agricoltura è artificiale in partenza, ma il vertical farming non reinventa l'agricoltura, reinventa l'industria. In attesa che il mercato sia maturo e per limitare i costi, la rivoluzione del capannone coltivato sta nel frattempo prendendo in prestito qualcosa a quella industriale: gli spazi. Soprattutto nelle zone periurbane, dove i metri quadri si pagano a caro prezzo, le aziende riadattano vecchie fabbriche, come l'acciaieria di Aerofarm nel New Jersey o l'industria di tappeti di Urban Crops in Belgio. Le fonderie della baia di Cardiff intanto non ci sono più, altrimenti avrebbero potuto diventare un giorno fabbriche di insalate. | << | < | > | >> |Pagina 230Vincenzo ha qualche pinta di ragione. Le condizioni odierne sono, nel bene e nel male, distanti da quelle che hanno favorito la nascita dell'agricoltura nel Neolitico: abbiamo massimizzato i benefici delle coltivazioni, ma stiamo iniziando a pagare il logorio di pratiche tipiche delle colture annuali, come quelle connesse alla qualità del suolo. Possibile che le scelte fatte allora siano state giuste e non siano più del tutto adatte ora? Una risposta parte dal passato remoto, quando le icone della prosperità erano le veneri steatopigie, le piccole statuette dalle forme prosperose come quella di Willendorf, forse usate per propiziare la fecondità durante le ere precedenti l'agricoltura. La base della nostra agricoltura poggia su otto specie fondatrici, le prime a essere domesticate in luoghi distinti circa diecimila anni fa, nella Mezzaluna Fertile compresa tra Giordania, Israele, Palestina e porzioni di Siria, Turchia, Iraq e Iran. Si tratta di tre cereali (orzo, farro dicocco e monococco), quattro legumi (lenticchie, piselli, ceci e veccia) e di una oleaginosa, il lino. Sono tutte specie annuali, ovvero completano il ciclo vitale tra la primavera e l'estate, trascorrendo i periodi sfavorevoli in forma di seme. Non è escluso che il comportamento annuale, tra le caratteristiche che hanno portato i nostri antenati a scegliere queste otto, sia stato favorito da una convergenza di fattori sorta prima della vita stanziale. Per potersi comportare così le piante annuali selvatiche infatti hanno in genere semi più grossi e nutrienti delle loro omologhe perenni e secondo gli archeo-botanici i cereali selvatici sarebbero stati coltivati per secoli prima della comparsa delle varietà domesticate. Le prime fasi della selezione artificiale sarebbero state lente, ricche di fallimenti drammatici e basate sulle piante spontanee con tratti ritenuti vantaggiosi: semi grandi dai fianchi turgidi, fertilità da germinazione agevole e prosperità da spighe generose, ovvero doti da veneri di Willendorf proprie delle piante annuali, non di quelle perenni. Nelle specie perenni infatti le energie sono distribuite: una parte serve ad accumulare risorse nella cascina di rizomi, tuberi e radici, dove compongono la riserva a cui attingere coi ricacci (come fa un normale prato dopo lo sfalcio), mentre solo una piccola aliquota è investita nei semi, che sono più piccoli, smilzi e ad occhio decisamente meno prosperosi. Queste differenze corrispondono a diverse strategie ecologiche di sopravvivenza. Le annuali affidano ai semi il superamento dei periodi più aridi e possono resistere a lungo senza germinare se le condizioni sono inadatte. Una caratteristica, chiamata dormienza, che era interessante anche per i nostri antenati neolitici, perché facilita la conservazione all'asciutto, e durante le fasi di nomadismo che hanno preceduto l'agricoltura stanziale consentiva di trasportare il raccolto, di cui bastava gettare una parte a terra a ogni sosta confidando nella rapida ricrescita. Un ulteriore vantaggio è di tipo evolutivo: il ciclo vitale delle annuali è più breve, il che ha fornito ai primi agricoltori maggiori possibilità di incontrare e trattenere mutazioni svantaggiose in natura ma assai utili per l'uomo, velocizzando così la selezione artificiale. Tra questi, i frutti indeiscenti chiusi in un involucro e più facili da conservare, quelli senza glume più agevoli da lavorare, la maturazione sincrona e le spighe che trattengono le cariossidi oltre a forme sempre più simili a quelle delle veneri steatopigie. Si tratta di elementi caratteristici e comuni a qualsiasi processo di domesticazione, sia esso antico o moderno come nel caso del Kernza. Esiste infine una componente climatica che diecimila e rotti anni fa avrebbe reso i cereali e i legumi annuali più appetibili, dovuta banalmente alla loro grande abbondanza esattamente in quel luogo e in quel tempo. Durante l'epoca definita Dryas Recente, un periodo di condizioni siccitose nella Mezzaluna Fertile potrebbe aver favorito la vegetazione annuale spontanea su quella perenne grazie alla resistenza dei semi, rendendo più facile incontrare e quindi adottare queste piante proprio nel momento in cui la vita umana si faceva più stanziale. Viene chiamato "effetto del fondatore" un fenomeno ecologico secondo il quale gli individui che creano una nuova popolazione non portano con sé tutta la biodiversità possibile, limitando quindi i successivi adattamenti all'ambiente. Le pronipoti annuali degli otto fondatori hanno permesso all'uomo di compiere balzi enormi nella propria qualità di vita, producendo calorie a basso costo e generando letteralmente la base su cui si appoggia il benessere odierno. Dalla loro selezione, da incroci e altre manipolazioni abbiamo ottenuto delle "vere Willendorf": il chicco del mais è 15 volte più grande di quello selvatico, le cariossidi di grano e orzo sono cresciute del 60 per cento e parallelamente ne è aumentata la resa totale. Attualmente le piante annuali occupano il 70 per cento delle terre coltivate e fortunatamente forniscono circa l'80 per cento delle calorie necessarie all'alimentazione umana, sebbene siano minoritarie tra le loro parenti. Per esempio, i tre quarti delle specie appartenenti al genere Triticum, quello del grano, sono perenni e non annuali. Al tempo stesso però aver adottato solo piante annuali nel concepimento dell'agricoltura determina una sorta di effetto del fondatore applicato alla selezione artificiale: una volta impostato il sistema con esse ci siamo chiusi la porta alle alternative offerte da quelle perenni. La scelta delle annuali era assolutamente idonea, adatta e forse addirittura inevitabile nella Mezzaluna Fertile del Neolitico, piante annuali e uomini in fondo avevano le stesse esigenze. Tuttavia, complessivamente, il loro stile di coltivazione è uno dei determinanti dei dati sull'erosione snocciolati da Vincenzo. | << | < | > | >> |Pagina 237Quella inseguita dai ricercatori delle colture perenni è una rivoluzione agricola, che alla fine del suo percorso vorrebbe considerare i benefici ambientali delle coltivazioni al pari della resa in campo. Messa da parte la questione tecnico-scientifica, c'è un aspetto rilevante del lavoro del Land Institute, della Washington University, del CNR di Montelibretti in Italia, di canadesi, australiani e cinesi: non stimolano un clima da guerra fredda anni Cinquanta e non impostano mai il racconto del loro lavoro contrapponendo piante annuali e perenni. Al contrario spiegano sempre che pur avendo le seconde dei pregi non potranno né dovranno sostituire in toto le colture che usiamo ora, né quantitativamente né qualitativamente (è improbabile che si possa ottenere una soia perenne). Le perenni dovranno aggiungersi, integrarsi e trovare il loro posto nell'agricoltura del futuro entrando nelle rotazioni, occupando terreni che più di altri hanno bisogno di contenere l'erosione, rendendo produttive zone marginali o fornendo un'alternativa fino a che le rese e il bilancio tra limiti e benefici non le renderanno competitive dal punto di vista del sostentamento, dell'economia e dell'ambiente. Ovvero, se l'idea è sviluppata su numeri solidi si farà strada da sola mano a mano che le sue doti diventeranno più idonee alle condizioni di contorno, così come quelle delle annuali lo erano nel Neolitico.
Agronomi e genetisti ripetono che per arrivare a grani perenni stabili,
adatti a più climi ed economicamente vantaggiosi serviranno almeno cinquant'anni
di lavoro (forse dieci per il riso di montagna) fino a
ottenere perenni produttive per almeno dieci anni consecutivi: non ha
senso accelerare i tempi solo per affermare una ragione effimera. Nelle
comunicazioni dei ricercatori i termini "sostituire" ed "eliminare" sono
rimpiazzati da "integrare" e "affiancare" e si suggerisce di raccontare ciò
che di positivo apportano le varietà perenni anziché i limiti delle annuali:
contrasto dell'erosione, ricrescita, servizi ecosistemici dell'agricoltura
multifunzionale.
|