Copertina
Autore Giordano Bruno
Titolo Opere italiane 1
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 [2002], Classici italiani 42 , pag. 746, vol. 2, cop.fle., dim. 12x19x3,7 cm , Isbn 978-88-02-07633-1
LettoreLuca Vita, 2007
Classe classici italiani
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Indice


  9 Introduzione di NUCCIO ORDINE

    I.    Tra Parigi e Londra: 1581-1585, 11
    II.   La filosofia in teatro e il teatro nella filosofia:
          il comico come conoscenza, 26
    III.  Gli inganni dell'ignoranza:
          il Candelaio tra realtà e apparenza, 42
    IV.   La cosmologia e la filosofia della natura:
          Cena, De la causa, De l'infinito, 68
    V.    La filosofia morale e la religione:
          Spaccio e Cabala, 90
    VI.   La filosofia contemplativa: i Furori, 120
    VII.  Dal Candelaio ai Furori:
          il pittore, il filosofo e l'ombra, 144
    VIII. Filosofia, pittura e poesia:
          questione di poetica, 171

191 Nota biografica di MARIA PIA ELLERO

197 Nota bibliografica di MARIA CRISTINA FIGORILLI

223 Nota filologica di GIOVANNI AQUILECCHIA


257 I. CANDELAIO

    commento di GIORGIO BARBERI SQUAROTTI

    Il libro a gli abbeverati nel fonte caballino, 259
    Alla signora Morgana B., 261
    Argumento et ordine della comedia, 265
    Antiprologo, 274
    Proprologo, 276
    Bidello, 282
    Atto primo, 283
    Atto secondo, 306
    Atto terzo, 323
    Atto quarto, 347
    Atto quinto, 374


425 II. LA CENA DE LE CENERI

    commento di GIOVANNI AQUILECCHIA

    Dedica, 427
    Al mal contento, 429
    Proemiale epistola, 431
    Dialogo primo, 441
    Dialogo secondo, 466
    Dialogo terzo, 489
    Dialogo quarto, 522
    Dialogo quinto, 544
    Appendici, 573


591 III. DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO

    commento di GIOVANNI AQUILECCHIA

    Proemiale epistola, 593
    Dialogo primo, 614
    Dialogo secondo, 645
    Dialogo terzo, 671
    Dialogo quarto, 700
    Dialogo quinto, 725


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE
di Nuccio Ordine



Il valore dell'uomo non sta nella verità che qualcuno possiede o presume di possedere, ma nella sincera fatica compiuta per raggiungerla. Perché le forze che sole aumentano la perfettibilità umana, non sono accresciute dal possesso, ma dalla ricerca della verità.

Il possesso rende quieti, indolenti, superbi.

Se Dio tenesse chiusa nella mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo desiderio sempre vivo della verità e mi dicesse: scegli! Sia pure a rischio di sbagliare per sempre e in eterno mi chinerei con umiltà sulla sua mano sinistra e direi: Padre, dammela! La verità assoluta è per te soltanto.

GOTTHOLD EPHRAIM LESSING, Eine Duplik (1778)

I.
TRA PARIGI E LONDRA: 1581-1585



Bisogna partire dalle date per comprendere l'eccezionale stagione del Bruno italiano. A Parigi, nel 1582, viene pubblicata la prima opera in volgare a noi pervenuta: il Candelaio. Poi a Londra, in rapida successione, tra il 1584 e il 1585 vedono la luce i sei dialoghi. Nel giro di pochi anni si concretizza un itinerario filosofico straordinario che testimonia in maniera esemplare gli interessi enciclopedici del Nolano.

Non si tratta, come a un primo sguardo superficiale si potrebbe pensare, di un percorso scollegato, come se i passaggi da un testo all'altro fossero dettati solo da situazioni contingenti, da repentine mutazioni, da strategie legate ad improvvisi eventi. Le opere italiane, nella struttura di fondo, sono invece il frutto di un disegno filosofico coerente, sono la testimonianza di un progetto che dalla Cena – ma, in maniera più informe, anche dal Candelaio – si estende fino ai Furori. La stessa scelta del volgare per i dialoghi non può essere considerata casuale: se, da una parte, si spiega con la volontà di illustrare la sua «nova filosofia» con una lingua viva, lontana dal latino pedantesco praticato nelle università, dall'altra, al di là del successo che l'italiano poteva godere nelle due corti, va messa soprattutto in relazione con una consuetudine già ampiamente attestata nei dibattiti filosofici e scientifici a Parigi, nel milieu vicino a Enrico III, e a Londra, nell' entourage della regina Elisabetta.


Nella corte di Enrico III: lingua, filosofia morale, filosofia della natura

In Francia, per esempio, dopo la pubblicazione de La défence et illustration de la langue franηaise (1549) di Du Bellay – in cui è possibile reperire diversi calchi del Dialogo delle lingue di Sperone Speroni, – si fa sempre più forte la necessità di usare il volgare anche nella trattatistica dedicata agli argomenti più specialistici. E non a caso, Pontus de Tyard ribadirà questa esigenza in una dedica indirizzata ad Enrico III. Rinunciare al latino, per promuovere la complessa architettura unitaria della sua «nova filosofia», significava per il Nolano operare una scelta ideologica, mettere in gioco una strategia comunicativa che lo ponesse in sintonia con i circoli che operavano attorno al Valois e alla Tudor. Anche a Londra, infatti, come ha mostrato con finezza Giovanni Aquilecchia, Bruno continuerà a trovare un ambiente fortemente favorevole nell'aristocrazia cortigiana che, oltre a vedere nell'uso del volgare una scelta polemica contro la cultura pedantesca di Oxford e di Cambridge, aspirava soprattutto a promuovere la circolazione del sapere nelle nuove classi emergenti.

Sì è vero: Bruno pubblica i dialoghi italiani a Londra, presso la tipografia di John Charlewood. Ma stampare un'opera in un luogo non significa averla interamente concepita in quel preciso momento. Del resto, le stesse date parlano chiaro: come avrebbe potuto il Nolano in solo due anni portare a termine il suo ambizioso progetto filosofico? Probabilmente, il canovaccio delle sei opere era stato in parte già concepito a Parigi. Θ qui che Bruno comincia ad abbozzare un percorso globale che dalla filosofia della natura (Cena, De la causa e Infinito), passando per la filosofia morale (Spaccio e Cabala), approda alla filosofia contemplativa (Furori). Un percorso che in gran parte coincide con l'intero arco delle questioni che erano al centro del dibattito nelle riunioni dell'Académie du Palais.

Tra il 1576 e il 1579, infatti, Enrico III si circonda di poeti e di filosofi per discutere, tra l'altro, di virtù morali e intellettuali. Purtroppo solo una parte di queste orazioni, che si tenevano nel Louvre, furono reperite nell'Ottocento da Ιdouard Fremy e poi arricchite da Robert J. Sealy con la recente scoperta di due nuovi testi. Dietro l'acceso dibattito sulla superiorità dell'azione o della contemplazione, sulla definizione delle diverse tipologie di vizi e di virtù, sul ruolo specifico della collera o dell'onore emerge un vivissimo interesse per le implicazioni di natura politica e sociale, per gli effetti positivi e negativi che le passioni possono scatenare nei singoli individui e nella collettività. Si tratta di questioni legate, direttamente o indirettamente, al forte momento di crisi che stava attraversando la Francia, e buona parte dell'Europa, a causa delle guerre di religione. Il Re, assieme agli accademici, si interroga su temi di grande attualità, esprimendo vivo interesse per la filosofia (in particolare per Platone e per i suoi commentatori: Plotino, Porfirio, Giamblico e Proclo), per la storia (soprattutto per Polibio e Tacito) e per il tanto discusso Machiavelli, di cui aveva conoscenza diretta dei Discorsi e del Principe grazie alla mediazione di Bartolomeo Del Bene.

Ma nell'Académie du Palais non si dibatte soltanto di filosofia morale (basterebbe già questo solo aspetto, come vedremo, per capire fino in fondo la genesi dello Spaccio de la bestia trionfante). Anche la filosofia naturale occupa un posto di primo piano. Diverse testimonianze alludono al grande interesse che Enrico III mostrava per la cosmologia e, più in generale, per le scienze naturali. Se Ronsard, nel Bocage royal («Il a voulu sηavoir ce que peult la Nature»), e Jacques Amyot, in una lettera indirizzata a Pontus de Tyard, ci parlano della sua curiosità per i segreti del cielo e della natura, l'ambasciatore inglese, Dale, informa la regina Elisabetta che a corte si discute «de omni re scibili».

Tra i membri delle riunioni del Louvre, infatti, non manca l'attenzione per lo sviluppo delle diverse ipotesi cosmologiche e per le teorie sull'infinità dei mondi. Nei dialoghi di Guy de Brues, Ronsard e Antoine de Baοf conversano, proprio nelle vesti di accademici, con Platone e Ficino e con altri filosofi antichi e contemporanei: mentre il principe della Pléiade esprime seri dubbi sull'esistenza di altri mondi, Baοf sembra piuttosto aperto alle tesi di Copernico sulla mobilità della Terra. Ma su questi temi interviene in maniera più esplicita Pontus de Tyard, influente animatore dell'Académie du Palais e traduttore dei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo. Riprende apertamente, infatti, la teoria copernicana nei Deux discours de la nature du monde et de ses parties, dedicati a Enrico III per la sua «tres bonne et tres certaine intelligence du subiet». Qui, sullo sfondo di un antiaristotelismo persistente, viene contestata la teoria dell'incorruttibilità delle cose celesti e viene accolta favorevolmente l'ipotesi dell'esistenza della vita in altri lontani mondi. Anche Jacques Davy Du Perron, potente accademico e «professeur du roi aux Langues, Mathématiques et Philosophie», sembra manifestare simpatie per le tesi di Copernico e per il lavoro di Tyard, come testimonia la sua prefazione ai Deux discours.

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Pagina 187

Senza cogliere questo nesso tra biografia e pensiero, tra vita e letteratura, sarebbe difficile afferrare il senso profondo della tragica morte del Nolano. Chi osa sostenere e diffondere idee che mettono in discussione dogmi religiosi e cosmologici, etici e letterari, politici ed estetici non è destinato all'ascolto ma all'emarginazione e, nei casi più estremi, alla persecuzione e al sacrificio della vita. Non a caso il filosofo infiammato dall'amore per la conoscenza conclude la sua esistenza, come la farfalla dei Furori, nella luce di un rogo. Ma proprio tra quelle fiamme, alimentate da una feroce intolleranza, Bruno scrive una delle pagine più eloquenti della sua filosofia: si possono ridurre in cenere uomini e libri, senza impedire però che il pensiero continui a circolare, che le parole possano trasudare entusiasmo e trasmettere passione. In altri termini: se biografia e filosofia coincidono, la vita non sarà sconfitta dalla morte. Anzi, la morte potrebbe diventare espressione di un amore infinito per la filosofia e per quella vita che di questa filosofia è viva testimonianza.

Purtroppo, però, la «fortuna» del Nolano ha conosciuto momenti alterni, spesso fondati più su un uso improprio della sua biografia che su una consapevole lettura delle sue opere. Proprio a partire da quell'ultima pagina, «scritta» col sangue in Campo de' Fiori, sono fioriti «miti» che hanno segnato un uso strumentale della figura di Bruno nelle direzioni più diverse. Conteso da movimenti e sette, utilizzato in riti segreti e in lotte di piazza, la poliedrica immagine del filosofo è riuscita comunque a sfuggire a ogni tentativo di cristallizzare il suo pensiero in una formula valida una volta per tutte. L'appassionato sostenitore dell'universo infinito non avrebbe potuto lasciarsi racchiudere in un solo «luogo»: il suo essere atopos, pur utilizzando il toponimo di Nolano, si manifesta in maniera coerente sia sul piano della filosofia (caratterizzato da un pensiero mobile in grado di attraversare saperi e metodi più diversi) sia su quello della biografia (segnato da continui spostamenti nell'ampio perimetro europeo).

Non c'è da meravigliarsi, quindi, se del Nolano nel corso dei secoli è stato detto tutto e il contrario di tutto. Campione della magia e dell'esoterismo, per alcuni. Precursore della scienza moderna, per altri. Fautore dell'oscurantismo o sostenitore dei grandi temi della modernità (tolleranza, unità dei saperi, relativismo, dialogo, infinitismo). Un pensiero, insomma, che per la sua complessità e per la sua capacità di usare consapevolmente in maniera «impropria» culture e filosofie, spostando continuamente i concetti in un ambito «estraneo» alla loro tradizionale appartenenza, ha finito per incoraggiare sempre nuove letture e nuovi cicli interpretativi, non senza però attirare su di sé anche insofferenze e antipatie:


ALBERTINO. — Gran mercé alla vostra cortesia, poi che pretendete d'avanzarmi e pormi in exaltazione, con farmi auditore di questo travagliato [Filoteo], ch'ogni un sa quanto sia odiato nell'academie, quanto è aversario delle dottrine comuni, lodato da pochi, approvato da nessuno, perseguitato da tutti.

ELPINO. — Da tutti sì, ma tali e quali; da pochi sì, ma ottimi et eroi. Aversario de dottrine comuni, non per esser dottrine o per esser comuni, ma perché false. Dall'academie odiato, perché dove è dissimilitudine non è amore. Travagliato, perché la moltitudine è contraria a chi si fa fuor di quella; e chi si pone in alto, si fa versaglio a moltie.


Un pensiero che ha fatto della dialogicità, della plurivocità, dell'ascolto, soprattutto una questione di metodo, «per che il suo desio consiste più in imparare che in insegnare, e si stima più atto a quello ch'a questo». Non a caso Bruno cerca di esprimersi su un piano concettuale quasi sempre usando il plurale: non parla della filosofia ma delle filosofie, non parla della lingua ma delle lingue, non parla della religione ma delle religioni.

Resta però un punto fermo nel rapporto tra biografia e sapere. Per Bruno, separare la vita dalla filosofia e la filosofia dalla vita significherebbe ridurre la filosofia a un vile mestiere e la vita a una banale rincorsa di falsi valori:

La sapienza e la giustizia cominciarono ad abbandonare la Terra allorquando i dotti, organizzati in sette, cominciarono ad usare la loro dottrina a scopo di lucro. Indi ne derivò che, come si trattasse della propria vita e di quella dei figli, combattessero fino all'annientamento degli avversari per un semplice amor di parte. Sia la religione che la filosofia giacciono annullate da simili atteggiamenti, sia gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi, ai prìncipi e ai popoli.

In un'epoca come la nostra, dove il sapere scientifico ed umanistico rischiano sempre più di essere al servizio del profitto e del mercato o al servizio di un vano esercizio di potere accademico, l'esperienza umana e intellettuale di Bruno si pone come un faro morale, come un edificante messaggio di speranza per le giovani generazioni del nuovo millennio. Non ci può essere conoscenza senza l'amore disinteressato per la conoscenza, senza la consapevolezza che l'acquisizione del sapere non è un dono, ma il frutto di una faticosa conquista.

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Pagina 357

SCENA VIII
Marta, Bonifacio
MARTA. — Ecco cqua quel pezzo d'asino, il quale volesse Dio che fusse un asino intiero, che potrebbe servire a qualche cosa. — Bonasera, messer Buon-in-faccia.

BONIFACIO. — Ben venga la cara madonna Marta. Vostro marito è filosofo, bisogna che voi siate filosofessa; però non è maraviglia se fate notomia de vocaboli: che cosa intendete per quel «Buon in faccia»? Non credete ch'io ve sia amico alle spalli et in assenzia, come in presenzia? Avete torto a darmi la berta.

MARTA. — Come vi sta la borsa?

BONIFACIO. — Come il cervello di vostro Martino (volsi dir marito), quando la non ha carlini dentro.

MARTA. — Io dico di quella di sotto.

BONIFACIO. — Gran mercé a vostra cortesia. Voi andate cercando il male come i medici: si voi vi potessivo remediare, vi farei intendere il come e quale; si volete della broda, andate a Santa Maria della Nova.

MARTA. — Volete dir ch'io son cosa da frati, ser coglione?

BONIFACIO. — Io ve dirrò d'avantaggio: voi siete cosa da cemiterio, per che una femina che passa trenta cinque anni, deve andar in pace, ideste in purgatorio ad pregar Dio per i vivi.

MARTA. — Questo niente manco doviamo dir noi femine di voi altri mariti.

BONIFACIO. — Dominedio non ha cossi ordinato, perché ha fatto le femine per gli omini e non gli uomini per le femine; e son state fatte per quel servizio: e quando non son buone a quello, fàccisen presente al povero diavolo, per ch' il mondo non le vuole. Ad altare scarrupato non s'accende candela; a scrigno sgangherato non si scrolla sacco.

MARTA. — Non è vergogna ad un uomo attempato qual voi siete, di farsi sentir parlare in questa foggia? A i giovanetti le giovanette, a giovani le giovane, e più vecchi si denno contentar delle più stantive.

BONIFACIO. — E si non, và le apicchi al fumo e falle stasonar dentro un camino. Non è questa la ricetta che ferono i medici al patriarca Davitte, e poco fa ad un certo Padre santo, il qual morse dicendo «Mene, mene: non più baser»; ma costui scaldò troppo, e lui dovea esser tettato e tettava; e però non è maraviglia, se...

MARTA. — Θ per che puose troppo pepe al cardo.

BONIFACIO. — In conclusione, madonna cara: a gatto vecchio sorece tenerello.

MARTA. — Questo, come intendete per i vecchii, perché non intendete per le vecchie?

BONIFACIO. — Per che le donne son per gli uomini, no gli omini per le donne.

MARTA. — Pur llà: il mal è per che voi uomini siete giodici e parte; ma pazze son de noi altre quelle che...

BONIFACIO. — Quelle che si lasciano patire.

MARTA. — Non voglio dir questo io, ma qualche vostro degno castigo e contra cambio.

BONIFACIO. — Ideste essi ad altre, et esse ad altri.

MARTA. — Ih, ih, ih, ih.

BONIFACIO. — Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah.

MARTA. — Come trattate la vostra moglie? credo che la lasciate morir di sete. Θ pur lei giovane e bella: ma che? sii buona la vianda quanto si voglia, l'appetito si sdegna si non si varia, ancor che si dia di botto a cose peggiori; non è vero?

BONIFACIO. — Non è vero, voi? Voi non sapete quel che volete dire: parlate per udir dire, voi? Or lasciamo le burle, madonna Marta mia. Io so che voi sapete di molti secreti: vorrei che m'agiutassi ad farmi vittorioso. Io gioco con mia moglie questa notte di qualche cosa, che farrò più di quattro poste: insegnatemi di grazia qualche droga o pozione, per che mi mantegna dritto sul destriero.

MARTA. — Recipe acqua di rene, oglio di schene, colatura di verga e manna di coglioni; ad quantom suffrica, mesceta et fiat potum; e poi vi governarete in questa foggia: videlicet, statevi su le staffe, a fin che, galoppando galoppando, l'arcione de la sella non vi rompa il culo.

BONIFACIO. — Per san Fregonio voi siete una matricolata maestra. Son costretto a lasciarvi per alcun necessario affare. A dio, m'avete satisfatto.

MARTA. — Adio. Si vedete quell'affumato di mio marito, ditegli ch'io l'ho mandato ad cercare, e ch'il cerco per cosa che importa.

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Pagina 544

DIALOGO QUINTO



TEOFILO. — Perché non son più né altramente fisse le altre stelle al cielo, che questa stella che è la terra è fissa nel medesmo firmamento che è l'aria. E non è più degno d'esser chiamato ottava sfera dove è la coda de l'Orsa, che dove è la terra, nella quale siamo noi: per che in una medesma eterea reggione, come in un medesmo gran spacio e campo, son questi corpi distinti; e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni da gli altri. Considerate la caggione per la quale son stati giudicati sette cieli de gli erranti, et uno solo di tutti gli altri. Il vario moto che si vedeva in sette, et uno regolato in tutte l'altre stelle che serbono perpetuamente la medesma equidistanza e regola, fa parer a tutte quelle convenir un moto, una fissione et un orbe; e non esser più che otto sfere sensibili per gli luminari che sono com'inchiodati in quelle. — Or se noi venemo a tanto lume e tal regolato senso, che conosciamo questa apparenza del moto mondano procedere dal giro de la terra; se dalla similitudine della consistenzia di questo corpo in mezzo l'aria, giudichiamo la consistenza di tutti gli altri corpi: potremo prima credere, e poi demostrativamente conchiudere il contrario di quel sogno e quella fantasia che è stato quel primo inconveniente che ne ha generati et è per generarne tanti altri innumerabili. Quindi accade quello errore. Come a noi che dal centro dell'orizonte voltando gli occhi da ogni parte, possiamo giudicar la maggior e minor distanza da, tra, et in quelle cose che son più vicine; ma da un certo termine in oltre, tutte ne parranno equalmente lontane: cossi alle stelle del firmamento guardando, apprendiamo la differenza de moti e distanze d'alcuni astri più vicini; ma gli più lontani e lontanissimi, ne appaiono inmobili, et equalmente distanti e lontani quanto alla longitudine. Qualmente un arbore talvolta parrà più vicino a l'altro perché si accosta al medesmo semidiametro; e perché sarà in quello indifferente, parrà tutt'uno: e pure con tutto ciò sarà più lontananza tra questi, che tra quelli che son giudicati molto più discosti, per la differenza di semidiametri. Cossì accade che tal stella è stimata molto maggiore, che è molto minore; tale molto più lontana, che è molto più vicina. Come nella seguente figura, dove ad O occhio la stella A pare la medesima con la stella B, e se pur si mostra distinta, gli parrà vicinissima; e la stella C, per essere in un semidiametro molto differente, parrà molto più lontana: et in fatto è molto più vicina. — Dumque che noi non veggiamo molti moti in quelle stelle, e non si mostrino allontanarsi et accostarsi l'une da l'altre e l'une a l'altre, non è perché non facciano cossi quelle come queste gli lor giri: atteso che non è raggione alcuna, per la quale in quelle non siano gli medesmi accidenti che in queste, per i quali medesmamente un corpo, per prendere virtù da l'altro, debba muoversi circa l'altro. E però non denno esser chiamate fisse per che veramente serbino la medesma equidistanza da noi e tra loro: ma per che il lor moto non è sensibile a noia. Questo si può veder in essempio d'una nave molto lontana: la quale se farà un giro di trenta o di quaranta passi, non meno parrà che la stii ferma, che se non si movesse punto. Cossi proporzionalmente è da considerare in distanze maggiori, in corpi grandissimi e luminosissimi, de quali è possibile che molti altri et innumerabili siino cossi grandi e cossi lucenti come il sole, e di vantaggio: i circoli e moti di quali molto più grandi non si veggono. Onde se in alcuni astri di quelli accade varietà di approssimanza, non si può conoscere se non per lunghissime osservazioni, le quali non son state cominciate né perseguite; perché tal moto nessuno l'ha creduto, né cercato, né presupposto: e sappiamo che il principio de l'inquisizione è il sapere e conoscere che la cosa sii, o sii possibile e conveniente, e da quella si cave profitto.

PRUDENZIO. — Rem acu tangis.

TEOFILO. — Or questa distinzion di corpi ne la eterea reggione l'ha conosciuta Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora, Parmenide, Melisso, come ne fan manifesto que' stracci che n'abbiamo: onde si vede, che conobbero un spacio infinito, regione infinita, selva infinita, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo; i quali cossì compiscono i lor circoli come la terra il suo: e però anticamente si chiamavano ethera, ciò è corridori, corrieri, ambasciadori, nuncii della magnificenza de l'unico Altissimo, che con musicale armonia contemprano l'ordine della constituzion della natura, vivo specchio dell'infinita deità.

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