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| << | < | > | >> |Pagina 11Mia figlia arrivò a piedi, davanti alla discoteca Indianapolis, verso la mezzanotte. Venti minuti prima, era ancora in casa che si sforzava di leggere Keats per l'esame d'inglese alla scuola interpreti. Ma non riusciva a concentrarsi, e ascoltare musica rock dal mangianastri non l'aveva aiutata.Davanti all'Indianapolis trovò le solite pattuglie di universitari scocciati in preda all'eccitazione. Dovette aspettare del tempo, prima che il signore giamaicano all'ingresso le desse il via libera per entrare. Il locale traboccava di gente, come tutti i venerdì notte, e i capelli decolorati in modo aggressivo e le mosse da giaguari erano la tendenza del momento. Forse non per i giovani incazzati dei centri sociali, né per gli alternativi di buona famiglia in cappotti lunghi fino ai piedi che parevano aggiornamenti di torve divise della Wehrmacht. Ma quelli, per fortuna, erano solo una minoranza. | << | < | > | >> |Pagina 34Le prime crisi di nervi arrivarono due mesi dopo quei discorsi, ventuno anni fa. Poco a poco, Angela non voleva più andare in ufficio poiché aveva paura della gente. Poco a poco, non le riusciva di dormire per via degli attacchi d'ansia, e una cosa e l'altra.Un giorno, appena rientrato dalle otto ore in Cocel, Mario l'aveva trovata in cucina che piangeva sprofondata in un'angoscia talmente sorda e priva di contatti col mondo fuori da apparire inconsolabile. «Amore» le aveva detto, e aveva provato a baciarla e aveva voluto abbracciarla. «Amore mio» le aveva detto. «Cosa ti succede?» Le parlò cercando di rincuorarla per chissà quanto tempo, ma lei non poteva fermarle, quelle lacrime, e solo gli ripeteva «Non va niente bene, Mario. Non va niente bene». Le diede dell'acqua, ma lei non la bevve. La chiamò col nomignolo con cui era abituato, alle volte, a chiamarla. Poi. fece daccapo tutte le domande. Interrogò ogni perché. Il mattino seguente, decise che non poteva aspettare un minuto di più e si mise alla ricerca d'un medico specialista. Si consultò con la signora. Con la dovuta circospezione, domandò in ufficio e ottenne, attraverso l'amico di un amico, il nome d'un paio di specialisti abbastanza famosi. Cominciarono le visite e cominciarono i colloqui. | << | < | > | >> |Pagina 48Non sembrava stesse parlando con un padre in carne e ossa, con dei sentimenti, delle ferite e dei dolori suoi. Sembrava si stesse rivolgendo a una vecchia scarpa sfondata. «Probabilmente, a suo figlio non interessa continuare a studiare.» Così gli fu detto.E lui, Madonna come c'era rimasto, a sentire quel discorso. Perché fino a quando un ragazzo tornava a casa tardi la sera, se ne andava alla chetichella per qualche giorno, in fondo erano cose che finivano lì. Invece, abbandonare la scuola, a quale padre non sarebbe apparso un gesto talmente definitivo e irrimediabile da decidere il corso d'una vita. Uno che aveva lavorato in ditta come Mario, capiva l'importanza d'un diploma di ragioniere. Apriva più porte della laurea, alle volte.
Aveva cercato in tutti i modi di farglielo capire, al
suo ragazzo. Gli aveva spiegato per filo e per segno
i vantaggi, dal punto di vista della retribuzione e
della carriera. Ragionava con lui la sera dopo cena, e a
volte trascorrevano le mezz'ore, seduti in cucina, davanti
al televisore acceso senza volume. Ma era come parlare al
muro. A parole, Luca diceva sempre di si, ma il signor
Mario lo sentiva che non faceva breccia da nessuna parte.
Dopo, si sarebbe convinto che era stata proprio la scelta di piantare la scuola a rovinarlo del tutto, Luca. A innescare tanti altri disastri. A fargli mancare la terra sotto i piedi, quando avrebbe potuto tirarsi su. Dopo, si convinse che le cose sarebbero andate diversamente, se lui non avesse avuto da lavorare e non si fosse ritrovato solo. Lo pensava, questo. Potevi ragionare all'infinito sul ruolo della famiglia e l'influenza dei genitori sui figli e via discorrendo, ma erano solo mezze balle, alla fine. Chi aveva genitori premurosi veniva su meglio di chi aveva il padre alcolizzato o la madre prostituta. Ovvio. Ma appena mettevi da parte i casi estremi, il discorso cambiava subito. Uno era già se stesso fin dall'inizio. Bisognava avere dei figli, per capirlo. Bisognava guardarli mentre crescevano e cambiavano piano piano. Ma non dentro. Che, dentro, restavano com'erano. Non lo diceva per assolversi da niente, questo. Mario non voleva assolversi da niente. Lo diceva solo perché corrispondeva ai suoi pensieri e perché tutto era già successo. E, ormai, non esisteva più il modo di voltarsi indietro e riprovare daccapo. | << | < | > | >> |Pagina 51Pochi sfuggivano a questa ferrea legge della durata, della stabilità e dell'organizzazione, e Mario, non solo come cliente, faceva parte della pattuglia dei pochi. Lui non si preoccupava più se il tempo cambiava o no. Potreste crederlo un dettaglio senza importanza, ma, si sappia, non è affatto così. Mario aveva smesso di figurarsi come un semplice lavoratore dentro un cantiere di gru e ponteggi. In un certo modo, aveva smesso d'andare avanti e indietro. Smesso, d'organizzare la propria vita in funzione del lavoro. Intendiamoci, il lavoro continuava a riguardarlo come a chiunque altro. Solo che lui, spostato dalla solitudine, per sortilegio di questo stesso salto, era diventato il padrone di se stesso, e poteva prendere tutte le decisioni. Il dolore, lo aveva incarnato.Quando lo conobbi, la moglie se n'era già andata e la sua nuova organizzazione del tempo aveva a che fare col baule di dolore al seguito del quale proseguiva la sua vita. Rimasto solo col figliolo, i programmi da rispettare e le urgenze giravano adesso intorno a un unico adulto. Il demiurgo, era Mario. Il cantiere, era lui. | << | < | > | >> |Pagina 64«Come va con la tua nuova amica?» gli chiedevano, nei dopocena, i colleghi di lavoro che frequentavano il Palace. Palpavano le stecche da biliardo e, cinquantenni che erano, sorridevano come ragazzi. Si trattava di buoni diavoli, e il modo con cui insistevano non appariva come una rottura di scatole, ma un incitamento. L'incitamento proveniva dalla curva in miniatura d'una specie di stadio, e uno stadio non sarebbe il luogo esatto della sensibilità. Pure, era così che si parlava d'amore, dopo che la gente aveva passato tanto tempo a occuparsi di sport. «Si può sapere quand'è che concludi?» gli dicevano.Avevano le loro ragioni a incitarlo, e lui lo capiva: era rimasto solo così a lungo che una storia nuova avrebbe potuto riportarlo in vita. Mario ci ragionava, sulla questione Claudia, ma alla sua maniera, aspettando per non correre il rischio di sentirsi dire di no. Avreste dovuto vedergli la faccia, certi pomeriggi in libreria, quando raccontava di lei. E Mario aveva cinquantadue anni suonati. Cinquantadue, mica venti. Si parla tanto degli amori travolgenti dei giovani, dei ragazzi... Ma quando mai. Ci sono amori che possono nascere in modo magnifico solo dopo i quaranta o addirittura i cinquanta, se interessa il parere, poiché bisogna aver navigato un buon tratto di mare, prima di capire che la verità d'una cosa puoi coglierla solo quando ti rendi conto che la tua vita non durerà per sempre. C'è, nei confronti di questi amori, una specie di disponibilità segreta, nelle esistenze degli adulti. È un'attesa che giace nell'ombra, e Mario doveva esserne a conoscenza, credete, come nessuno. | << | < | > | >> |Pagina 67Il sottoscritto la fantascienza la vendeva, ma non crediate fossi questo grande esperto. Se importa sapere, l'esperto era mio fratello. Lui si, aveva trascorso la gioventù divorato dalla passione delle avventure ambientate nelle remote galassie.Ricordo la sua cameretta di ragazzo, Valerio che, a diciannove anni, sistemava sulle mensole, con la cura del collezionista, le annate dei Romanzi dello spazio e Oltre il cielo, un almanacco di missilistica con un inserto di futurologia. Era stata quella passione a fargli aprire, poco più che ventenne, la libreria che io ho poi ereditato. Ce l'ho ancora negli occhi, il mio fratello minore appoggiato al bancone dopo l'orario di chiusura: scrive lettere su lettere a piccolissime case editrici di Kansas City, Chicago o vattelappesca... Si dava un daffare enorme, per rintracciare impossibili pubblicazioni pulp degli anni Cinquanta e Sessanta, divorato com'era dalla passione collezionistica che dialogava tutto il tempo con le smanie d'altri collezionisti come lui. Valerio si batteva. Come una tigre. Poteva scrivere lettere e lettere, pur di procurarsi il prezioso romanzo che gli era stato richiesto. E poi, quando la pubblicazione introvabile finalmente arrivava, ci guadagnava sopra magari cento lire. Ma il guadagno non c'entrava nulla. Si trattava di battersi, lui e il cliente, contro la suprema indifferenza del mondo. Si trattava di tener vivo ciò che li affratellava in mezzo alla folla dei ciechi e dei sordi. Cercava un posto, nel suo essere buttato in mezzo alle cose. Cercava di difendersi, intanto che il mondo cominciava a svanire. Magari quelle povere difese fossero servite a qualcosa, il giorno che il destino l'aveva colpito con la sua unghia: dovette essere questione d'un istante. Io ho sempre creduto questo. Alla guida della Golf c'era un liceale ubriaco che rincasava dopo una notte di scorribande in compagnia degli amici. E Valerio, che pedalava in pace lungo il ciglio della strada, non ebbe il tempo d'accorgersi di nulla. Cinque settimane dopo la sua morte, con un ragioniere amico di famiglia, raggiungemmo il negozio. D'accordo col ragioniere, avevo in animo di verificare forniture e magazzino e mettere in vendita ogni cosa. Tuttavia, prima ancora di sfilare dalla tasca le chiavi, vidi che sull'impiantito, fra la saracinesca a maglie e la porta della libreria, giaceva una quantità di lettere. Dieci o venti, non so. Della polvere, già le copriva. Le raccolsi e le aprii una a una, intanto che il ragioniere s'occupava di mastrini e registri, beccamorto come nessuno. E potete crederlo o non crederlo, signori, ma erano lettere disperate. Chi s'angosciava per il mancato ricevimento d'un libro, chi pretendeva di conoscere le ragioni dell'improvviso silenzio telefonico del titolare, chi smaniava notizie circa un impossibile albo illustrato dato alle stampe un anno prima che io stesso nascessi. C'erano persino dei telegrammi, considerata l'urgenza delle questioni! Con quelle buste in mano, potevi solo accorgerti che al centro dell'esistenza d'un apprezzabile numero di persone c'erano la vita su Marte, e, il Signore ci perdoni tutti, su Giove. Di certo avresti potuto sorriderne, ma il nitore e - come dire - l'indiscutibilità della cosa, ti colpivano. Poteva essere il sentimento d'una grande trasformazione, il tuffo da un'altezza spettacolosa dell'ultima anima dell'uomo, intanto che i desideri di tutti s'affannavano avanti indietro, e le persone cercavano di parlarsi anche se apparentemente non c'era più nessun orizzonte, nessun obiettivo umano per gli sforzi di nessuno... | << | < | > | >> |Pagina 94Tenendo in mano il suo calice, i pensieri di Mario fecero un giro ancora più lungo, raccogliendo nell'orbita quell'altro mondo di dolore che apparentemente girava per conto suo. Gli tornò in mente che Angela, come gli aveva scritto l'avvocato nano tanto tempo prima, era riuscita a finire in Germania, Dio solo sapeva come, nel cuore organizzativo della setta dei Fratelli.Qualcuno l'aveva promossa. Faceva la semidirigente. Allora gli parve di capire in che senso, per anni e anni, era rimasto di qua dalla soglia, fermo nella convinzione che fosse stata sua moglie a lasciarlo. Avendo il calice in mano, seppe invece, con stupore, che era stato lui a voltarle le spalle, spaventato dal male. Si disse che, per certo, non era il primo uomo a cui la vita era sfuggita di mano. E poi, si disse che nel suo caso la distruzione era stata talmente estesa che nessun esploratore avrebbe accettato d'attraversare le regioni colpite. Infine, seppe che la sua colpa, se c'era colpa, era stata quella, non rimediabile, di non averla amata abbastanza. Queste cose le aveva pensate. Poiché provenivano dal dolore, lui ne provò dolore. Portò il calice alle labbra e bevve quanto restava del vino. Per un istante chiuse gli occhi, e immaginò che se voleva restare in piedi doveva appoggiarsi alla ringhiera. Quando li riaprì, si rese conto, con stupore, che non si sentiva avvilito. Sulle prime non capi, e guardò il fondo del calice vuoto come volesse interrogarlo e s'aspettasse da lì una risposta. Luca parlava. Stava dicendo qualcosa che lui, correndo dietro al suo stesso stupore come adesso correva, non riusciva a sentire. Era inverno, ma le stelle si vedevano quasi tutte. E potevano esserci dei merli, o qualcosa, vicino, che volando in agili cerchi incontro ai lampioni, proiettavano le loro minuscole schiene d'ombra accordate alla luce. I merli, o qualcosa, emisero un verso, e tutto il resto del pianeta dove lui era, era fermo. Si disse che se le colpe erano solo sue, allora sarebbe stato l'unico a sopportarne il peso, mentre il figliolo avrebbe potuto andarsene libero per la sua strada. Aver sbagliato quasi tutto, come marito e padre, era persino una specie di consolazione, ché almeno mandava assolti gli altri.
Provò a domandarsi in che senso gli altri sarebbero
stati assolti. Interrogò questa cosa, e il suo pensiero si
perse.
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