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| << | < | > | >> |Pagina 5Seduto sul cesso senz'asse nel retro della cella, ero intento a lucidare le orribili scarpe dalla punta bulbiforme che venivano fornite a chi stava per uscire. Mi attraversò la mente un canto di trionfo: «Domattina sarò un uomo libero». Ma nonostante l'esultanza, la gioia di uscire dopo otto calendari sfogliati in prigione era tutt'altro che sfrenata. La lucidatura delle orrende scarpe non era tanto tesa a migliorare il loro aspetto, quanto ad alleviare la mia tensione. Ero piú nervoso nell'affrontare il rilascio sulla parola di quanto ero stato al mio ingresso, cosí tanto tempo prima. Mi aiutava un poco sapere che simili apprensioni erano comuni, anche se spesso smentite, da uomini per i quali il mondo esterno si era fatto sempre piú vago e distante a mano a mano che gli anni passavano. Fate trascorrere a un uomo un numero sufficiente di anni in prigione e lo ritroverete disorientato nell'affrontare la libertà quanto un frate trappista gettato nel bel mezzo della vorticosa New York. Se non altro il frate avrebbe la fede a sostenerlo, mentre l'ex prigioniero non possiederebbe altro che il ricordo di un passato fallimento, della galera, e la cocente consapevolezza di essere un «ex detenuto», un reietto della società.| << | < | > | >> |Pagina 62- Ascolti, ho trentun anni. In testa ho piú capelli grigi di lei. Spero di essere abbastanza maturo da poter prendere delle decisioni, se non altro su dove dormire. Se la prigione non mi ha insegnato almeno questo, significa che è stata un grande spreco di tempo.- Tenendola dentro, la prigione ha protetto la società. E proteggere la società è anche il mio lavoro, il mio primo lavoro. - Mi hanno fatto uscire. E io voglio restar fuori. Non è costretto a soffiarmi di continuo sul collo. Fa un servizio migliore se mi aiuta, no? Voglio essere una persona rispettabile. Ma potrei anche non essere in grado di capire il significato della rispettabilità nel modo in cui lo intende la maggior parte della gente. Mi fermai, sforzandomi di incanalare l'agitazione in una serie di parole sensate, mentre il sudore mi inumidiva la fronte e le ascelle. - Deve rendersi conto che sono diverso da lei. Sono deviato e intrappolato da fin troppo tempo per essere uguale a lei. Ma ciò non significa che sia una minaccia per la società. Se credessi che il mio futuro debba per forza essere uguale al mio passato, mi ucciderei. Sono stanco. Posso forzarmi quanto basta per mantenermi entro i confini della legge, ma non sarò mai l'ometto che torna dalla moglie e dai figli nel suo villino sulla San Fernando Valley. Vorrei tanto esserlo, ma non lo sono. E le sue minacce non m'aiuteranno a controllarmi. Le minacce provocano rabbia, non paura. - Nessuno la sta minacciando, - replicò Rosenthal. - Sto soltanto mettendola al corrente della realtà della situazione, di ciò a cui si dovrà adattare. - Suonano come minacce. - Sono qui per aiutarla. - Ripetendomi «dovrai» e «non dovrai». - Non ho stabilito io le condizioni per la libertà condizionata. Mi limito a farle rispettare. Non potrei darle il permesso di contravvenire alle regole neppure se volessi. Se lo facessi non continuerei a lavorare per molto. - Mi dimostri un minimo di flessibilità e io farò lo stesso. Si limiti a chiedermi di non commettere crimini, non pretenda che io viva secondo i suoi criteri morali. Se è la società che lo richiede, allora la società non avrebbe dovuto assegnarmi a decine di famiglie diverse e rinchiudermi nei riformatori, finendo per rovinarmi. E questi ultimi otto anni: cazzo, dopo un'esperienza del genere nessuno sarebbe piú normale. Cerchi di capire la mia situazione. Non conosco nessuno se non ex detenuti, malviventi e prostitute. Non riesco nemmeno a sentirmi a mio agio in compagnia della gente regolare. Mi piacciono le squillo, non le brave ragazze. Non ho bisogno di un'analisi freudiana, che in ogni caso non riuscirebbe a cambiare i fatti. Ma il fatto che preferisca andare a letto con una puttana non significa che sia sul punto di usare una torcia all'acetilene su una cassaforte. - Significa che vuole il permesso di fare il magnaccia. - No! No! Voglio solo che lei capisca che non si possono ridurre le persone a delle formule -. M'interruppi per tirare il fiato e per estrarre espressioni comprensibili dal vortice di pensieri confusi che mi aveva assalito la mente. - Fondamentalmente le sto chiedendo di non trasformare la mia libertà vigilata in un guinzaglio con cui strozzarmi. - Fondamentalmente vuole fare di testa sua, non è cosí? Lo stomaco mi si serrò in un nodo. Rosenthal era irremovibíle. Avevo tentato. Rivoli di sudore mi scendevano sotto la camicia. Un terribile pensiero esplose in superficie. E se Rosenthal avesse avuto ragione? E se davvero seguire ciecamente le regole fosse la chiave per raggiungere la felicità e la pace interiore? | << | < | > | >> |Pagina 128Gli attacchi di rabbia, tutti diretti a Rosenthal, mi facevano girare la testa. E immediatamente dopo erano seguiti dallo sconforto: all'improvviso mi sentivo come un cencio, sommerso da ondate di disperazione cosí intense da farmi pensare al suicidio come a una via di scampo. E non si trattava soltanto della situazione attuale: ciò che mi era capitato era un mero esempio di quella che era stata la mia vita. Era andata sempre cosí, e cosí sarebbe sempre andata. Perché soffrire inutilmente? La logica imponeva il suicidio: ma la logica è piú semplice da articolare che da seguire, soprattutto quando contempla la morte. Il corpo si ribella all'oblio. Lentamente arretrai dall'orlo del baratro.Il lato peggiore del mio dilemma era l'impossibilità di trovare un baluardo di fiducia con cui combattere i colpi dell'esistenza e rendere sopportabile la mia condizione. Non avevo alcun Dio a cui rivolgermi con il mio fardello. Il dolore cieco è quello piú insopportabile. I miei angosciati pensieri non avevano piú importanza del frullare di una falena contro un vetro. Ma in quell'abisso, in quel vuoto, fiorí in me una indignazione potente. Era una rabbia che andava al di là dell'odio. Coinvolgeva Dio e insieme l'uomo. Cresceva dal cadavere della mia ultima speranza di appartenere al genere umano, a quello che il genere umano professava come virtuoso. Non soltanto era morta la speranza, ma anche il desiderio. Presto i risultati delle analisi delle urine sarebbero tornati al mittente. Presto sarei uscito. E anche se fossi stato costretto a tornare in prigione per altri anni, la mia scelta sarebbe uscita rafforzata. Se è possibile che qualcosa di assoluto si rafforzi. Sarei sceso in guerra contro la società, o forse mi sarei soltanto limitato a riprendere le ostilità. Non provavo piú alcun timore. Mi dichiarai libero da ogni regola, eccetto quelle che io stesso avessi voluto accettare. E anche quelle le avrei mutate a mio piacere. Avrei afferrato tutto ciò che avessi desiderato. Avrei ripreso a essere quello che ero, ma con piú determinazione. Un criminale. La mia scelta, il mio totale abbandono delle restrizioni sociali (a patto che la società non me le avesse imposte con la forza) era anche la mia verità. Altri avrebbero scelto di accrescere il piú possibile il loro potere. Ma il crimine era il mio mondo, il luogo in cui mi sentivo a mio agio e non lacerato nel profondo. E sebbene si trattasse di una libera scelta, era anche destino. La società mi aveva reso quello che ero, e mi aveva messo al bando per paura di quanto essa stessa aveva creato; ma io andavo fiero della mia condizione. Se si rifiutavano di lasciarmi vivere in pace, non sarei stato certo io a volerlo. Nel corso di quell'ultima settimana di lotta ero stato da cani: un male psicologico. Fanculo alla società. Fanculo al suo gioco. E se anche le difficoltà erano molte, fanculo anche a quelle. Almeno avevo riconquistato l'integrità della mia anima, ero tornato a essere il solo responsabile della mia piccola zolla d'inferno, per minuta che fosse, per confinata che fosse alla mia mente. Quando fece mattino, ero tornato forte. Avevo superato ogni indecisione. | << | < | > | >> |Pagina 148Facemmo ritorno all'auto.
L'autostrada che attraversava la San Fernando Valley era
sopraelevata, cosicché oltre la rete di protezione per i
cani, i gatti e i bambini si poteva godere
di una splendida vista. Lo smog accorciava il panorama, ma
la valle appariva una regolare distesa di tetti
e di filari d'alberi lungo le strade. Case dai tenui colori
pastello, antenne televisive che deturpavano i
profili dei tetti. Spesso l'occhio registrava un istante
di azzurro pallido: una piscina. Gli edifici erano bassi,
tranne che per l'occasionale e sgraziato svettare di
un centro commerciale. Era la Mecca del Sogno Americano, il
mondo che desideravano tutti. Un mondo di eleganti, giovani
donne (grazie all'ausilio di qualche centro estetico) in
pantaloncini corti e canottiere, dirette a bordo di auto
familiari da 400 cavalli verso supermercati rinfrescati e
rallegrati da eterne musichette, di associazioni di
baby-sitter e di una cultura condensata nei dibattiti di
gruppo. Una vita di grigliate ai bordi delle piscine, di
drive-in aperti tutto l'anno. Una vita che non mi attirava.
Fanculo alle assicurazioni sulla salute e alle polizze sulla
vita. Quella gente voleva vivere senza mai lasciare il
ventre materno. Ma io mi sentivo piú vivo a giocare una
partita senza regole contro la società stessa, ed ero
preparato a giocarla fino in fondo. Un brivido quasi
sensuale mi attraversò mentre pregustavo le emozioni della
rapina ormai prossima.
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