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| << | < | > | >> |IndiceGottfried August Bürger: la vita • profilo storico-critico dell'autore e dell'opera • guida bibliografica VII LE MERAVIGLIOSE AVVENTURE DEL BARONE DI MÜNCHHAUSEN Avventure di Russia del barone di Münchhausen 3 Avventure di mare del barone di Münchhausen 41 Prima avventura di mare 43 Seconda avventura di mare 50 Terza avventura di mare 54 Quarta avventura di mare 57 Quinta avventura di mare 60 Sesta avventura di mare 67 Settima avventura di mare 73 Seguito del racconto del barone 76 Ottava avventura di mare 89 Nona avventura di mare 94 Decima avventura di mare 97 Viaggio attraverso il mondo e altre curiose avventure 103 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Intrapresi il mio viaggio in Russia partendo di proposito in pieno inverno, giustamente congetturando che le strade che attraversano le regioni settentrionali della Germania, della Polonia, della Curlandia e della Livonia, le quali, secondo le descrizioni di tutti i viaggiatori, sono forse più miserabili delle strade che conducono al Tempio della Virtù, dovevano finalmente esser state migliorate dal gelo e dalla neve, senza spese straordinarie da parte dei molto encomiabili e paterni governi rispettivi. Viaggiavo a cavallo; e questo, quando cavallo e cavaliere siano come devono essere, è il modo migliore di viaggiare. Infatti, così non si rischia né di trovarsi sulle braccia un affare d'onore con qualche cortese mastro di posta tedesco, né d'essere trascinati davanti a ogni taverna da un assetato postiglione. Ero vestito leggermente, la quale cosa cominciava a divenirmi piuttosto spiacevole via via che m'inoltravo verso nord-est.Si può dunque immaginarsi, con un tempo così rigido, sotto quell'inclementissimo cielo, come dovesse sentirsi, in Polonia, un povero vecchio che, abbandonato e tremante in un prato deserto spazzato dal vento tagliente di nord-est, non aveva indosso se non tanto da coprire le sue vergogne. Quel povero diavolo mi fece compassione sino in fondo all'anima. Benché anche a me gelasse il cuore in petto, gli gettai addosso il mio mantello da viaggio. Ed ecco risuonar dal cielo una voce, che, lodato ampiamente questo mio atto di carità, gridò: «Il diavolo mi porti, figliolo, se non ne sarai ripagato!» "Benissimo!" mi dissi; e continuai la mia strada finché la notte e il buio non mi sorpresero. Non si udiva né scorgeva un villaggio. Tutto il paese era coperto di neve, e io non trovavo né strada né sentiero. Finalmente, stanco di cavalcare, smontai e legai il cavallo a una sorta di palo puntuto che sporgeva dalla neve. Per sicurezza, presi la mia pistola e la misi sotto il braccio, mi coricai qualche passo più in là, nella neve, e schiacciai un sonnellino tanto sodo che quando riaprii gli occhi era giorno fatto. Ma quale non fu la mia sorpresa al trovarmi disteso in un cimitero, in mezzo a un villaggio! Sulle prime non riuscii a scovare in nessun luogo il mio cavallo, ma poi lo intesi nitrire sopra la mia testa. Guardai in alto e mi accorsi che era legato al gallo del campanile e penzolava giù. Mi resi conto immediatamente di ciò che era accaduto: durante la notte il villaggio era stato sepolto dalla neve, poi il tempo era improvvisamente mutato; per cui io ero andato dolcemente calando, via via che la neve si squagliava; e ciò che nell'oscurità avevo scambiato per un troncone di albero sporgente dalla neve, sicché vi avevo legato il cavallo, era la croce e il gallo del campanile. Senza starci troppo a pensare, presi una delle mie pistole e sparai alle briglie; in questo modo tornai felicemente in possesso della mia cavalcatura e proseguii il viaggio. In seguito tutto mi andò a seconda, finché non giunsi in Russia, dove d'inverno non è propriamente di moda viaggiare a cavallo. Siccome è sempre stata mia massima seguire il detto: "Paese che vai, usanza che trovi", così presi una piccola slitta da corsa a un solo cavallo; e via allegramente verso Pietroburgo. Ora non rammento più se fosse in Estonia o in Ingria, ma ricordo benissimo che mi trovavo in una spaventosa foresta, quando scorsi un lupo terribile inseguirmi correndo con tutto il vigore della più vorace fame invernale. Ben presto la fiera mi raggiunse: assolutamente impossibile sfuggirle. Meccanicamente mi distesi nella slitta e lasciai che il cavallo facesse da solo quel che poteva per il bene suo e mio. Ciò che io pur supponevo, ma osavo appena sperare ed attendermi, si verificò tuttavia poco dopo. Il lupo non si curò affatto della mia modesta persona, ma, oltrepassandola con un salto, si gettò furibondo sul cavallo, sbranò e ingoiò d'un colpo tutta la parte posteriore della povera bestia, che, per lo spavento e il dolore, si gettò a correre tanto più presto. Cavatamela così a buon mercato e senza esser visto, levata poi cautamente la testa, mi accorsi con terrore che il lupo aveva divorato quasi tutto l'interno del cavallo. Ma non appena ci fu entrato del tutto, giudicai fosse giunto il mio momento e cominciai a menargli gagliardamente la frusta sul pelliccione. Questo intervento improvviso, che lo sorprendeva in quella sorta d'astuccio, procurò al lupo non piccolo spavento: si buttò innanzi a tutta birra, il cadavere del cavallo cadde al suolo e, to'!, nei finimenti ci rimase il mio signor lupo. Dal canto mio, mi guardai dallo smettere di menar la frusta e così arrivammo di galoppo e sani e salvi a Pietroburgo, contro ogni nostra aspettativa e con non piccola sorpresa di tutti coloro che ci videro... Non voglio tediarvi, signori, con chiacchiere intorno al governo, alle arti, alle scienze e alle altre cose notevoli di questa magnifica capitale della Russia; tanto meno voglio intrattenervi con gli intrighi e le amene avventure della società eletta, in cui la padrona di casa accoglie sempre l'ospite con un bicchierino di acquavite e un baciozzo. Mi atterrò di preferenza a oggetti maggiori e più degni della vostra attenzione e cioè a cavalli e a cani, dei quali sono sempre stato grande amico, nonché a volpi, lupi e orsi, di cui, come pure di altra selvaggina, la Russia possiede maggior copia che qualsiasi altro paese della Terra; infine vi parlerò di quelle partite di piacere, di quegli esercizi cavallereschi e di quelle encomiabili gesta che si addicono a un gentiluomo assai meglio d'un po' di ammuffito greco o latino o di tutte le carabattole odorose, i ciondoli, le capriole dei begli spiriti o dei parrucchieri francesi. | << | < | > | >> |Pagina 33Signori, un uomo che sapeva cavalcare un cavallo come il mio lituano, voi ammetterete senz'altro, spero, che fosse capace anche di un altro virtuosismo da volteggiatore e cavallerizzo, che altrimenti potrebbe apparirvi del tutto favoloso. Dovete sapere che noi assediavamo non ricordo più quale città e il feldmaresciallo aveva bisogno assoluto di conoscere con precisione come stessero le cose nella fortezza. Appariva difficilissimo, anzi, quasi impossibile passare in mezzo a tutti gli avamposti, i corpi di guardia e le opere di fortificazione; inoltre, in quel momento, non c'era sottomano nessun soggetto capace, dal quale si potesse sperare di portare a buon fine un'impresa simile. Forse un po' troppo precipitoso a causa del mio coraggio e del mio zelo per il servizio, io mi appostai accanto a uno dei più grossi cannoni e, nell'istante preciso in cui fece fuoco contro la fortezza, in un battibaleno balzai sulla palla che ne usciva, col proposito di farmi trasportare nella piazza nemica. Ma quando, in aria, a cavalcioni sulla palla, fui giunto quasi a mezza via, mi nacque in capo ogni sorta di dubbi spinosi. "Uhm," pensai "per arrivarci dentro, ci arrivi, ma poi, come tornare fuori subito? E che cosa ti potrà accadere nella fortezza? Sarai subito riconosciuto per uno spione e impiccato all'albero più vicino." E di un letto di parata di quella sorta francamente io non volevo saperne.In seguito a queste e simili considerazioni mi decisi rapidamente e, afferrando la felice occasione di una palla che, partita dalla fortezza, mi passava a pochi passi di distanza diretta al nostro accampamento, saltai dalla mia palla su quella e tornai, senza aver concluso nulla, è vero, ma sano e salvo, in mezzo ai nostri. | << | < | > | >> |Pagina 43Già il primo viaggio che io intraprendessi in vita mia (e fu alquanto tempo prima del viaggio in Russia, del quale ho narrato testé alcuni fatti notevoli) fu un viaggio per mare. Come spesso soleva brontolarmi mio zio, il colonnello degli ussari dalla barba più nera che io abbia mai visto, ero ancora in processo con le oche, ossia era ancora indeciso se la lanugine bianca del mio mento fosse germe di piume oppure di barba, quando già mia unica aspirazione era il viaggiare. Poiché, da parte sua, mio padre aveva trascorso buona parte dei suoi anni giovanili in viaggi e d'altronde gli accadeva spesso di ammazzar la noia di una lunga sera d'inverno col racconto veridico e schietto delle sue avventure, alcune delle quali vi narrerò forse in seguito, così quella mia inclinazione può essere a buon diritto considerata vuoi innata, vuoi acquisita. Insomma, io afferravo ogni occasione che si presentasse o non si presentasse, per mendicare o strappare un appagamento della mia invincibile brama; ma invano. Se pure mi riusciva una volta di far breccia nell'animo di mio padre, tanto maggiore resistenza incontravo allora in mamma e zia, e in un batter d'occhio tutto ciò che avevo conquistato con gli assalti meglio congegnati andava di nuovo perduto. Finalmente accadde che venisse a farci visita uno dei miei parenti materni. Io ne divenni ben presto il beniamino ed egli mi promise di far tutto il possibile per aiutarmi a realizzare il mio ardentissimo desiderio. La sua facondia era più efficace della mia e, dopo molte rimostranze e rifiuti, obiezioni e confutazioni, finalmente, con mia indicibile gioia, fu deciso che io accompagnassi questo mio parente in un viaggio a Ceylon, dove suo zio era stato governatore per molti anni. Facemmo vela da Amsterdam con importanti incarichi da parte degli alti e potenti Stati d'Olanda. Il nostro viaggio, a non tener conto di un'eccezionale tempesta, non presentò nulla di notevole. Ma alla tempesta sono proprio costretto a dedicare due parole, per via delle sue straordinarie conseguenze. Si levò proprio quando noi si era all'ancora davanti a un'isola per provvederci di legna e di acqua, e infuriò con tale violenza da sradicare e scagliare in aria una gran quantità di alberi di grossezza e altezza enormi. Benché alcuni di questi alberi pesassero parecchie centinaia di quintali, tuttavia, per l'altezza smisurata alla quale si trovavano (erano almeno a cinque miglia sopra il suolo) non apparivano più grandi di quelle piccole piume che qualche volta si vedono volare di qua di là nell'aria. Comunque, quando l'uragano cessò, ogni albero ricadde verticalmente al suo posto e vi rimise immediatamente radici, cosicché non si vedeva quasi traccia di devastazione. Non fece eccezione che l'albero più grosso. Quando esso era stato strappato dal suolo dalla repentina violenza della tempesta, sui suoi rami si trovavano seduti, manco a farlo apposta, un uomo e sua moglie, che stavano cogliendo cetrioli, perché dovete sapere che in quella parte del mondo questo magnifico frutto cresce appunto sugli alberi. Quella brava coppia si sobbarcò pazientemente il viaggio aereo, ma col suo peso fece sì che l'albero non solo deviasse dalla direzione in capo alla quale si trovava il suo posto, ma che inoltre cadesse orizzontale. Ora, durante la tempesta, come la maggior parte degli abitanti, anche il graziosissimo sovrano o cacicco dell'isola aveva abbandonato la sua abitazione nel timore di venir sepolto sotto le macerie, e ritornava appunto, attraverso il giardino, quando questo albero piombò giù sibilando e per fortuna lo accoppò di schianto. Per fortuna? Sissignori, per fortuna, perché dovete sapere che quel cacicco, con rispetto parlando, era il più esecrabile tiranno e i suoi favoriti le più miserabili creature che fossero sotto la Luna. Nei suoi magazzini marcivano i viveri, mentre i suoi sudditi, ai quali erano stati estorti, morivano d'inedia. Per gratitudine per il grande servigio che, per quanto involontariamente, aveva pur reso ai suoi concittadini, la coppia che coglieva cetrioli fu posta sul trono vacante. E ben vero che nel loro viaggio aereo queste due brave persone s'erano tanto avvicinate al gran lume dell'universo da rimetterci il lume degli occhi e anche un po' del lume dell'intelletto; tuttavia, essi governarono così lodevolmente che, come seppi in seguito, nessuno mangiava cetrioli senza dire: «Dio conservi il cacicco». | << | < | > | >> |Pagina 103A credere ai vostri occhi, dovrei stancarmi prima io di raccontarvi accidenti curiosi della mia vita, che voi di ascoltarli. La vostra compiacenza mi lusinga troppo perché io chiuda il mio racconto, come mi ero proposto, con la relazione del viaggio sulla Luna. Perciò, se non vi spiace, ascoltate ancora una storia che uguaglia l'ultima quanto a credibilità, ma forse la sopravanza quanto a curiosità e meravigliosità. I Viaggi in Sicilia di Brydon, che avevo letto con non comune diletto, fecero nascere in me il desiderio di visitare l'Etna. Nel viaggio per andarci a me non accadde nulla di particolare. Dico a me, perché altri avrebbero forse trovato estremamente curioso (e l'avrebbero poi minutamente raccontato al pubblico per rifarsi delle spese di viaggio) qualcosa che, per me, era un'inezia, con cui non vorrei stancare la pazienza di un onest'uomo. Una mattina partii di buon'ora da una capanna situata ai piedi del monte, fermamente deciso, anche a costo della mia vita, a esaminare e studiare la disposizione interna di questo celebre caldano. Dopo un cammino faticoso di tre ore, mi trovai sulla cima del monte. In quel torno di tempo esso era appunto in furore; era in furore già da tre settimane. Quale aspetto esso abbia in simile condizione e stato scritto tante volte che se anche le mie descrizioni fossero in grado di dipingerlo arriverei ad ogni modo in ritardo; che se poi, come lo so per esperienza, le mie descrizioni non sono in grado di raggiungere lo scopo, la cosa migliore sarà proprio di non perdere io il mio tempo in un tentativo impossibile, e voi il vostro buonumore. Girai tre volte intorno al cratere, che voi potete immaginare come un enorme imbuto, e poiché mi resi conto che in questo modo non imparavo nulla o ben poco, così presi senz'altro la decisione di saltarci dentro. Non appena l'ebbi fatto, mi trovai come in una stufa terribilmente calda, e il mio povero corpo fu pietosamente ammaccato e abbronzato in molte parti, nobili e non nobili, dai carboni ardenti che continuamente ne sprizzavano fuori. Per quanto grande fosse la violenza con cui i carboni erano proiettati in su, il peso, in forza del quale il mio corpo scendeva giù, era tuttavia notevolmente maggiore, sicché in breve giunsi felicemente al fondo. La prima cosa di cui mi resi conto fu un orrendo schiamazzo, un gran baccano, un gridare e imprecare, che parevano aver luogo intorno a me. Aprii gli occhi e che cosa vidi? Vidi che ero attorniato dal vecchio dio fabbro Vulcano e dai suoi ciclopi. Questi signori, che io, nel mio buon senso, avevo respinto da lungo tempo nel regno delle favole, da tre settimane si bisticciavano a proposito di ordine e subordinazione, e da questo appunto era derivato il disordine nel mondo superiore. La mia comparsa ricondusse d'un tratto concordia e pace in tutta la compagnia.
Zoppicando, Vulcano andò, subito a un armadio e ne
trasse cerotto e unguenti, che mi applicò di sua mano, sicché in brevi istanti
le mie ferite furono risanate. Inoltre mi
offrì rinfreschi, una bottiglia di nettare e altri vini preziosi,
quali ne bevono solo gli dei e le dee. Non appena mi fui un
poco riavuto, egli mi presentò a sua moglie Venere e le
ordinò di procurarmi ogni comodità richiesta dalle mie condizioni. La bellezza
della camera nella quale ella mi condusse, la forma voluttuosa del sofà sul
quale mi fece sedere, il divino incanto di tutto e il suo essere, l'affettuosità
del suo tenero cuore... tutto è le mille miglia superiore ad ogni possibilità di
descrizione e già il solo pensarci mi dà le vertigini.
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