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| << | < | > | >> |IndiceLa febbre del viaggio di Giuseppe Culicchia 5 Un pomeriggio in India 13 Il giocatore di cricket 38 Mekong Mama 55 Tra gli sciamani 71 Il dio di Roppongi 119 Shangri-La 132 |
| << | < | > | >> |Pagina 13UN POMERIGGIO IN INDIAInfine più niente. Solo le grida dei pappagalli dalla porta aperta, come da molto lontano - quella stanza, in quel silenzio polveroso, la branda su cui giacevo. Da quanto ormai? Che ora si era fatta? I miei compagni avrebbero mantenuto la parola? Sarebbero tornati indietro? Domande che si spegnevano lentamente. La febbre mi piaceva. Mi piaceva fin da bambino. Giornate trascorse a casa da solo. Il ticchettio dell'orologio al piano inferiore, in sala da pranzo, un raspare sotto le assi del pavimento, un lavorio incessante dentro le travi, nelle pareti - come quando digrigni i denti nel sonno. Era autunno ormai. Raffiche tempestose frustavano la casa e io me ne stavo acquattato nella febbre, con l'orecchio teso alla pioggia, e sprofondavo sempre più nel libro che mi avevano dato per affrontare la giornata, un'avventura indiana. Col favore delle tenebre un mio connazionale abbandonava la nave del suo tirannico capitano. Un giovane mozzo tedesco a Calcutta. A raccoglierlo era un gruppo di artisti di strada indiani, guidato da un nano avido e astuto, assai poco raccomandabile. In compenso il ragazzo addetto all'elefante diventava suo amico. Per il momento lo salvava - ci salvava, perché ormai anch'io ero laggiù e mi inoltravo insieme a lui nel più straniero dei paesi stranieri. Quella che all'inizio era solo una sensazione sgradevole si andava stringendo come un cappio. Il nano era il monaco di un culto segreto che esigeva sacrifici umani, non solo rupie e chicchi di riso. La fuga riuscì un'altra volta grazie all'aiuto del ragazzo dell'elefante, ma il nostro salvatore veniva ferito a morte. Ormai ero all'ultima pagina e bruciavo di febbre quando mia madre mi trovò con il nome del moribondo Mahut sulle labbra. Una febbre indiana, sentii che diceva il nostro dottore. Da giovane era stato medico di bordo nei mari del Sud, adesso era curvo su di me, stranamente sorridente, mi mise una pezzuola bagnata sulla fronte e mi tastò il polso. "Ora dormi, ragazzo, fatti una bella dormita." Mi tirai su e mi guardai intorno - avevo udito distintamente il mormorio del vecchio medico, proprio come se fosse lì nella stanza seduto accanto a me sulla branda. Ma era impossibile. Questa era l'India e il dottore era morto da un pezzo. Ma il mio orologio dov'era? Non al mio polso e nemmeno a portata di mano. Sparito, insomma. Perso per strada, su qualche pista polverosa, oppure da qualche parte nella jeep. La jeep - quando mi era venuta la febbre i miei compagni mi avevano portato qui con la jeep e io ero sicuro che, se solo avessi ritrovato il mio orologio, di colpo mi sarebbe tornato in mente tutto, ogni singolo dettaglio del viaggio. Che ora era? Quando sarebbero tornati a prendermi? Dormi, uomo bianco, dormi. Il tuo sonno lo proteggono le scimmie. Scimmie e pappagalli.
A un certo punto mi sono addormentato, poi risvegliato, poi
di nuovo addormentato, la stanza era avvolta in una luce fioca,
gli oggetti proiettavano. ombre sempre più deboli mentre l'ultima traccia del
giorno filtrava dalla porta. L'ora del geco, pensai. Ma proprio in quell'istante
fece capolino un nome, un nome bello, sì, elegante, che si molleggiava da una
sillaba oscura all'altra - Jodhpur.
Era da Jodhpur che arrivavamo - il fotografo alla ricerca di immagini dell'India, un amico indiano che ci faceva da autista, un ometto anziano, quasi un nano, sul cui biglietto da visita c'era scritto "professore" ma traduceva per noi, e io con il mio taccuino aperto sulle ginocchia. Non avevamo un piano in particolare, solo l'idea di andare da nord verso sud, in un paese pieno di divinità. Evitarle sarebbe stato impossibile, l'aria era satura d'incenso e devozione; una boccata d'aria indiana conteneva più religione che le quattro settimane tedesche dell'Avvento messe insieme. Io ormai l'avevo respirata e non ero più in grado di distogliere lo sguardo dal rajput sul ciglio della strada, dall'orgoglio sconfinato di quell'uomo appartenente alla casta dei guerrieri, con quegli anelli d'argento ai piedi nudi. E quella vecchia scarna? Era sera, aveva tagliato qualche ramo per le sue bestie. Se ne stava lì, eretta, le dita dei piedi ben piantate nella polvere, un'ombra scura intorno agli occhi, le braccia più sottili dell'impugnatura della falce cui si appoggiava, come un cacciatore al giavellotto. Colpito dalla sua età ragguardevole, le domandai cosa si aspettasse ancora dalla vita. Lei mi rivolse uno sguardo in cui si leggeva stupore, ma anche derisione. "Hari Bhavan!" disse. La casa di Dio. Gli occhi le brillarono. Presto mi chiamerà a lui, via finalmente da questo corpo, da questa polvere. Il guerriero e la vecchia, illuminati, sembravano vedere qualcosa che li spingeva a disprezzare ciò che ai nostri occhi appare grande o intollerabile. | << | < | > | >> |Pagina 42Gli abitanti della nave vivevano nel cassero trasversale che dominava il ponte, anche se "cassero" non è la parola più indicata: sa troppo di castelli e relative piazze, mentre lì non c'era posto per simili armonie. Dal ponte, il piano superiore del cassero trasversale, si vedevano sempre un paio di poveri marinai affaccendati in coperta, sotto quel sole dispotico. Fin dal primo giorno il mare si era accanito sulla nave nuova di zecca e così marinai armati di secchi di vernice e pennelli erano stati spediti a combattere la ruggine. Non erano particolarmente loquaci, volevano solo finire alla svelta il lavoro e sembravano galeotti sotto stretta sorveglianza. Del resto lo erano, perché dal ponte si vedeva tutto.Io però ne avevo abbastanza di quel mondo esterno dipinto di verde circondato di onde grigie, e mi ritirai nella parte abitata della nave. Nel cassero trasversale non vivevano in molti, una dozzina di ufficiali e pochi più marinai, le loro facce mi divennero subito familiari. Ma non dipendeva tanto dal numero. In quella situazione c'era qualcosa di inquietante che ci teneva sul chi vive e non ci metteva a nostro agio - almeno così mi sembrava. Eravamo la pulce nell'orecchio del gigante. Tutti si sforzavano di assecondarne con mano ferma l'umore e i ritmi, pronti a qualunque cosa pur di non frenarlo, di non deviarlo dalla rotta. Quasi stessimo cavalcando un animale mesozoico che, per massa e forza, sovrastasse quattro volte noi che eravamo i suoi nocchieri. E, come se non bastasse, sempre in grado di disarcionarci con uno scossone improvviso e di annientarci. Un gigante che, per il momento, acconsentiva a lasciarsi guidare, arando l'Oceano Indiano a una velocità di quindici nodi. Il mare di petrolio rivestito d'acciaio su cui viaggiavamo sarebbe bastato a far saltare in aria una metropoli. L'equipaggio lo sapeva, ma non ci pensava. Pensava alle scadenze, alla manutenzione, ai controlli. Anche quando fumavano una sigaretta, preferivano usare un linguaggio tecnico. Non mi capitò mai di vedere qualcuno correre o alzare la voce. Guidavano la petroliera anche sulla terraferma (lo avrei sperimentato anch'io) e, probabilmente, anche in sogno. Erano consapevoli in prima persona, persino fisicamente, del moto di quella nave che sembrava una balena, per cui la manovra più insignificante poteva avere ripercussioni enormi. Di petrolio non ne vidi neanche una goccia, eppure lo respiravo giorno e notte. Era alla mensa e nella mia cabina, era sul ponte e lungo i corridoi. Era sulla mia pelle alla mattina mentre mi lavavo e sul palato quando mi spazzolavo i denti. E la sera era tra le mie lenzuola. Non era rimasto niente e nessuno che non fosse impregnato dell'odore del petrolio. Non se ne parlava nemmeno, rientrava tra le cose inevitabili su cui non era necessario soffermarsi. D'altronde, ciò valeva un po' per tutto a bordo: non c'era nulla che non fosse regolato. Chi doveva stare dove e quando. Quanti drink si potevano bere la sera insieme al capitano e quanti senza capitano. Chi doveva salutare chi, chi dare ordini a chi. Esistevano due nazioni e due classi. Gli ufficiali - tra i quali rientravano anche gli ingegneri - erano tutti inglesi, mentre l'equipaggio proveniva in blocco dalle Filippine. Gli ufficiali consumavano tre pasti al giorno nella mensa ufficiali, i marinai invece mangiavano al grande tavolo nella zona loro riservata. Inoltre a bordo c'erano due tempi differenti: quello libero e quello di servizio. E poi c'era St. John, il Secondo Ufficiale. | << | < | > | >> |Pagina 60Prima di atterrare, l'aereo a elica descrisse un arco sopra le rovine di Angkor. La pianura ovunque allagata rifletteva il cielo monsonico grigio scuro e ogni tanto, per qualche secondo, anche la nostra immagine. Poi l'insetto chiaro di metallo guizzò veloce sull'acqua come fanno spesso negli stagni o sulle pozzanghere i coleotteri, così leggeri da scivolare sul pelo dell'acqua. L'aeroporto di Siem Reap era un piccolo edificio spartano e un piccolo comitato spartano ci accolse in silenzio, una mezza dozzina di soldati o di persone che indossavano pur sempre un'uniforme, seduti dietro un tavolo. Il mio passaporto passò di mano in mano, ne seguivo gli spostamenti cercando di non perderlo di vista. Non ero certo che sapessero cosa fare con quel passaporto e con il suo legittimo proprietario. Da un momento all'altro mi aspettavo che un imprevisto clamoroso spazzasse via quell'assurda pantomima, quelle dignitose formalità, restituendoci alla palese irrilevanza cui noi tutti appartenevamo.L'albergo, un edificio a un piano e a due ali intorno a un cortile, era stato costruito nella speranza che - non appena le ultime mine fossero state rimosse - si sarebbe rimessa in moto la macchina del turismo verso Angkor Wat e il Bayon e le altre rovine del regno khmer sepolte nella jungla. Una ragazza sorridente in un attillato costume tradizionale era impegnata da mattina a sera a distruggere a colpi di scopa le colonne di formiche che si formavano sulla veranda in direzione della cucina e delle camere degli ospiti, nonché a omaggiare con fiori freschi la statua grigio scuro di Buddha. Ogni mattina verso le sette la porta della stanza accanto si apriva, un khmer ben piantato in costume da bagno usciva per dirigersi al fiume con la pistola infilata nello slip e farsi una nuotata. Dopodiché rientrava, le goccioline d'acqua che ancora gli brillavano sulla pelle turgida, spariva nella sua stanza e non si faceva più vedere per il resto della giornata.
In genere trascorrevo le ore prima di mezzogiorno tra le rovine, e quelle in
cui l'afa imperversava tra le poltrone del Grand
Hotel d'Angkor, dimenticandomi spesso di prendere appunti
sul taccuino, distratto dalle sensazioni sottili di quei pomeriggi torridi.
Pionieri del turismo, cinesi e americani, con camicie
colorate e abitudini immutabili. Bollicine sospese sulla ciotola
del tè. Per il momento ancora qui, ecco, non ci sono più. L'impressione di
trovarsi dentro un istante fragile, che può saltare
in aria da un momento all'altro. Come la bomba che qualche
giorno dopo sarebbe esplosa all'aeroporto di Siem Reap. Il
Grand Hotel era una scommessa arrischiata, la sua indifferenza, i boys
silenziosi e i ventilatori lievemente ronzanti, le stoviglie d'argento
luccicanti. Trattenni il fiato. Gli anni delle risaie
insanguinate si percepivano ancora in sottofondo, non avevano perso il loro
potere, lo sentivo e, a volte, potevo perfino vederlo, e non si trattava
soltanto dei teschi che venivano raccolti nei campi e ammonticchiati nelle
pagode, o degli invalidi con
una gamba sola o un occhio solo, o di coloro che saltellavano
abilmente sulle strade minate. No, era una sensazione che aleggiava nell'aria. E
anche nell'acqua, nel pane, in tutto. Qualcosa
che stava ancora sulla soglia o balenava in uno specchio - per
un attimo soltanto. Perché i tempi nuovi erano già negli schiamazzi dei bar.
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