|
|
| << | < | > | >> |Indice
|
| << | < | > | >> |Pagina 11Un giorno mi tuffai nel freddo RenoSi dice che sul corso inferiore del Reno aleggi una luce mistica, una specie di caligine azzurrina. Anche la nebbia è sempre rischiarata dall'interno, persino in un giorno d'autunno come quello, con tutti i colori risucchiati dal cielo quasi fossero veleno. L'orizzonte, i prati lungo il Reno, le chiatte sul fiume – tutto sembrava fluttuare in quell'antiluce lattiginosa. L'alto ponte a valle era solo un'idea vaga nella foschia, la città sull'altra sponda uno schizzo a matita da un libro dimenticato. Mi ero proprio appisolato. Aprii gli occhi. Ero sulla riva a due passi dal confine con l'Olanda, al chilometro 852 del Reno, e me ne stavo seduto su una pietra a guardare il fiume e i barconi che passavano in rapida successione, piatti e lunghi. Rimasi lì l'intera giornata in attesa del segnale – che il convoglio finalmente s'interrompesse. Era il primo giorno del mio viaggio. Sul prato c'ero soltanto io, a parte un paio di mucche. A un certo punto, la più coraggiosa si allontanò dalla compagna per andare a bere dal Reno. Il fiume la lasciò fare. Aveva perso ogni interesse per quanto accadeva a riva e scorreva incontro alla propria dissoluzione, allargandosi come un lago. Finalmente il convoglio si interruppe. Niente più barconi dopo questo. Ecco la breccia che aspettavo, ampia abbastanza per evitare di essere preso in pieno dalla chiatta successiva che, immancabile, sarebbe sopraggiunta. Venti minuti mi concesse il Reno, o forse poco più. Mi spogliai in fretta. Camicia, calzoni, scarpe... mentre correvo sulla ghiaia e sui frammenti di conchiglie, vidi con la coda dell'occhio la mucca che aveva bevuto dal Reno sobbalzare spaventata e, in un galoppo grottesco, tornare verso l'altra. L'acqua mi mozzò il respiro. Non avevo mai nuotato in un fiume così grande e freddo. Sentivo la sua potenza. Non quella meccanica del mare, che scaglia un'onda dietro l'altra con la cieca ostinazione di una fabbrica. Era una trazione gorgogliante, leggera, ma inesorabile. Stavo andando alla deriva. L'acqua mi portava con sé. I flutti gelidi mi trascinavano via, come se fossi sulla schiena di un animaletto dal pelo liscio che correva a perdifiato. Le onde fiutavano già il sale. E non potevano aspettare. Mi imposi di non avere paura. No, non nel senso della corrente, dall'altra parte! Cercai sulla riva un punto di riferimento. Una delle tre torri della cittadina: il campanile ottagonale a destra, quello senza punta davanti a me, oppure la ciminiera alta e stretta, all'estrema sinistra. "Frantoio Germania" c'era scritto. A ogni boccata mi accorgevo che le braccia si facevano sempre più pesanti, come se un perfido magnete mi paralizzasse gli arti in sogno. Il tempo passa, mi sovvenne. Adesso la breccia si richiude e la corrente ti spinge contro la prossima chiatta. Fine della commedia. Non so per quanto tempo mi agitai così, diventando sempre più freddo e rigido. Forse fu questione di un minuto. Ma a me sembrò durare un'eternità. Poi di colpo sentii caldo. Anzi, caldissimo. Il temibile magnete mi aveva abbandonato. Il freddo rimaneva, ma ormai era fuori di me, all'esterno. Adesso il Reno era malleabile, quasi oleoso, docile. Una bracciata dopo l'altra immergevo la testa, scivolavo via, tornavo su: nuotavo. Le torri sulla sponda si erano spostate a destra di un bel po', a monte, due erano ormai irraggiungibili. Potevo ancora puntare soltanto alla Germania. In quell'istante esatto la torre s'infiammò a partire dalla cima. Una luce rifulgente la incendiò, un attimo dopo tutta la ciminiera ardeva. Anche il cielo ardeva. Dal delta, dai grandi porti olandesi sul mare, spuntò ancora una volta la luce: un tramonto incerto, occidentale, tra stendardi di nubi rosso fuoco. Lungo il Reno passò la notte, una vela nera di sventura, che andò a colmare l'altro orizzonte. Adesso s'erano incendiate pure le altre due torri, l'intera città bruciava. Ora anche il fiume ardeva. Fendevo oro puro. | << | < | > | >> |Pagina 61Pesce fresco alla fine del mondoIn Pomerania conoscevo un paese sull'estrema costa orientale dell'isola di Usedom. Un villaggio di pescatori affacciato sulla laguna di Stettino che si chiamava Kamminke. Volevo rivederlo, anche solo per il nome: Kamminke, laguna di Stettino. C'ero stato anni prima. Non ricordavo di avere mai visto in Germania un altro posto così remoto e abbandonato. L'autobus procedeva sotto la pioggia di villaggio in villaggio, percorrendo strade che, una su tre, si chiamavano via della Pace, passando davanti a chiese in pietra e a un monumento sovietico indicato semplicemente come "Monumento". Poi si fermò sulla laguna. Il vento si mischiava alla pioggia, trasformandola in tempesta. Un paio di barche di pescatori tiravano le cime, uomini arcigni in tuta blu usciti in mare la mattina presto, stavano in piedi accanto al loro bottino già selezionato. Un secchio di sandre. Un altro di persici. In una vasca serpeggiavano le anguille. Uno degli uomini avanzò a gambe larghe sul molo e, dopo aver trafficato sotto il grembiule di gomma, pisciò abbondantemente nel porto. Chiesi quando partiva la barca che, solcando tutta la laguna, arrivava dall'altra parte. Forse domani. O forse era partita ieri, l'ultima. Forse per quell'anno non ce n'erano più. Accanto alle tettoie dei pescatori c'era un piccolo chiosco di pesce fresco. La tempesta spazzava il tetto di paglia che avrebbe dovuto proteggere tavoli e panche. Ero l'unico avventore e il gestore mi indicò un angolo abbastanza asciutto. Mi ci infilai insieme allo zaino, al caffè bollente e a un pezzo di ippoglosso affumicato. Sopra la mia testa oscillava una lampada, la bandierina di una birreria garriva al vento e l'altoparlante trasmetteva successi degli anni Sessanta. Me ne tornai dai pescatori. Ci mettemmo a parlare del tempo, dopodiché scoprii che, in realtà, era rimasto un unico pescatore autentico. Qualcuno accennò alla fine del mondo: lì nei dintorni c'era stata davvero. Nel villaggio viveva una donna che vi aveva assistito. Quando la città di Swinemünde cadde, il 12 marzo 1945, lei aveva dieci anni. "Ricordo quel giorno come se fosse ieri" mi disse, quando mi presentai alla sua porta, quindi mi invitò a entrare. Abitava con i genitori a Kamminke e si trovava a Swinemünde solo per far visita ai nonni. Quando avevano dato l'allarme, non avevano fatto in tempo a raggiungere il rifugio antiaereo e questo le aveva salvato la vita. Chi era sceso in cantina era rimasto sepolto vivo. Lei era una bambina, non era in grado di comportarsi come gli adulti, che dovevano reagire subito, e in tal modo riuscivano a distrarsi. Lei non aveva altro da fare che guardare. Il suo sguardo e la sua memoria ripresero tutto come una cinepresa. I cadaveri scaraventati sugli alberi e i pezzi di cavallo, anch'essi scagliati lassù. La madre del macellaio giaceva presso la finestra. Solo la parte superiore del suo corpo esisteva ancora. Nel corridoio il vicino, con il ventre e il torace dilaniato. E cadaveri, i cadaveri nelle strade. "Composti nelle bare come aringhe" disse. E poi fuggiaschi, fuggiaschi, interi treni e navi pieni. Il nipote della vecchietta che abitava lì accanto – camicia bruna e fascia con la croce uncinata – portò bare e lavoratori forzati ed estrasse il corpo della nonna dalle macerie. A un certo punto suo padre si affacciò alla porta, gridando: "Siete ancora vivi?" Due soldati chiesero se li potevano aiutare, poi trovarono la torta che avevano portato ai nonni e ci si avventarono sopra. Arrivarono dei portaferiti. Videro l'uomo morto in corridoio e, dopo averlo avvolto in una tenda, lo portarono via. Il nonno era vivo, ma pieno di schegge. Portarono via anche lui. Più tardi lei lo cercò insieme al padre e alla nonna, finché qualcuno non disse: "Ma come, non lo sapete? È al Golm già da un pezzo." Il Golm era una collina, la meta preferita per le escursioni domenicali degli abitanti di Swinemünde. Nell'Ottocento vi avevano eretto un padiglione a forma di tempietto greco; in seguito, quando i costumi divennero più liberi, divenne un locale, la Capanna dello Zio Tom. Parve ragionevole dirigere lì sulla collina i camion con il loro carico di morte e, dopo aver scavato grandi fosse, sbarazzarsi così della città di Swinemünd, della sua parte mortale.
Il Golm lo conoscevo già. Nomi, nomi, nomi, proprio come allora, sulle
lapidi della battaglia di Seelow. Alberti, Arndt, Bloch,
Blitz, Brecht, Brendel, Bröhan, Burckhardt, Louis Deslandes,
Dutschke, Engels, Hesse, Krupp, Voldemars, Lapskalus, Marx,
Messerschmidt, Pape, Roth, Sütterlin, Thoma, Weber, Zorn.
Congedandosi, la donna disse una frase che avevo sempre considerato mera propaganda. Disse: "Mai più guerre." E, come se avessi potuto non sentirla, ripeté: "Lo dico sempre: piuttosto poveri in canna, ma mai più guerre." Era la sua esistenza riassunta in una sola frase, non si trattava di propaganda o di retorica. Aveva parlato di un giorno terribile, contro tutti gli altri della sua lunga vita. Giorni comuni. Era seduta nel suo salotto, accanto al marito, eretta, le mani in grembo, con un'acconciatura da vecchia signora di campagna. Così stava certamente alla finestra, seduta su una sedia, lo sguardo perso in lontananza, come dopo una lunga giornata di lavoro. E senza dubbio la sua vita era stata una lunga giornata di lavoro. Ecco l'arredamento del suo salotto — un bell'acquisto, all'epoca — e, sul comò, la collezione di boccali da birra. La casa dei due coniugi era una modesta casetta pomerana su una strada di campagna, con un giardinetto angusto, una rimessa e una panchina per l'estate breve ma calda di qui. Pensai: un po' di calore per la loro vecchiaia — di colpo questa frase sentimentale mi aveva attraversato la mente. Guardavo le tovagliette sul tavolo e sul comò i quadretti graziosi, un dolce ragazzo che dona a una dolce ragazza un fiore, il silenzio ticchettante di quel salotto, il profondo desiderio di pace e mi parve di comprendere, in quell'istante, la nuova anima tedesca. Quella successiva. Successiva all'impatto con il meteorite. L'idillio ferreo dei salotti e dei giardini davanti casa, i cerbiatti e i nani e i pagliacci piangenti degli uni; i simboli della pace, i mattoni di Erich Fromm e il poster con gli orologi sciolti di Dalì degli altri. Ma la differenza tra i primi e i secondi era infinitesimale. Tutti volevano la stessa cosa. Tutto, ma mai più guerre.
La Germania in cui avevo vissuto era cambiata parecchio da un
decennio all'altro, eppure qualcosa restava immutabile. Tutto veniva
concepito e vissuto a partire dal meteorite. Era quello che mi era sembrato di
capire nel salotto di Kamminke: ci sono devastazioni di una
violenza tale da stordire un intero paese per la vita intera. Sì, la polvere si
stava ancora depositando. E quello stordimento dura tuttora.
Il chiosco del pesce era ancora aperto quando ci passai al ritorno. Aveva smesso di piovere. C'erano tre pomerani, uno con un cappello alla principe Heinrich in testa. C'è sempre qualcuno che lo porta, evidentemente anche per tutti gli altri. Ordinai un'acquavite, ma il gestore scosse il capo, consigliandomi un vino rosso del Baden. Non avevo mai immaginato che in una notte autunnale mi sarei trovato sul molo di Kamminke con un bicchiere di Dornfelder in mano e nelle orecchie il vento e il silenzio della Pomerania. | << | < | > | >> |Pagina 86Ma un interrogativo di carattere pratico non cessava di perseguitarmi. Come facevano a resistere in un posto del genere? Girai questa domanda al signore seduto vicino a me nella panetteria che finalmente avevo scovato. A incoraggiarmi fu anche la circostanza che si stesse intrattenendo con altri due tizi su Gottfried Benn."Scusate, forse vi sembrerò impertinente, ma devo chiedervi una cosa: come fate a vivere qui senza diventare matti?" Portava una giacca chiara e una barbetta minimalista alla moda. Un uomo paffuto, dall'aria un po' inquietante. Non rise, ma non s'indignò neppure. Dopo aver riflettuto brevemente, mi rispose in tono neutro: "Occorre cercare qualcosa per la sopravvivenza interiore. Per non darsi al bere. Io mi dedico alla storia, questo è il mio metodo." Il mio invece fu: proseguire. Senza che me ne fossi accorto era già novembre. Quando arrivai a Görlitz stava piovigginando. E se Guben mi aveva dimostrato cosa intendessero con l'espressione finis Germaniae, Görlitz mi colpì inaspettatamente col suo splendore e capii quanto doveva essere stato bello questo paese, un tempo. E quanto avessimo perduto. Stavo camminando in una città rimasta incredibilmente illesa. Ai grandi devastatori talvolta piace risparmiare qualcosa affinché rimanga intatto quello che altrove è andato in polvere: guardate – sembrano dire ai posteri – quant'era immenso il nostro potere. Avevamo in pugno la bellezza universale e potevamo farne quello che ci pareva. Ma Görlitz era scampata non solo a simili umori bellici, era passata indenne anche attraverso quelli della pace. Le truppe che imperversavano a Berlino decisero di fare un'eccezione per questa città rinascimentale, rivolgendo il fuoco di sbarramento tutt'intorno. Quarant'anni dopo i piani per la demolizione della città vecchia erano pronti, nella Heiliggrabstraße erano già stati praticati i fori da mina, bastava solo inserirvi i candelotti di dinamite. Non lo fecero. Per la seconda volta nella sua storia Görlitz fu salva, contrariamente a ogni previsione. I primi abitanti dell'ovest che si affacciarono qui dopo il magico novembre 1989 non sapevano bene cosa fosse più stupefacente: la scoperta di un pezzo di Rinascimento abbandonato a sé stesso, ma meravigliosamente integro, quest'incredibile sogno a occhi aperti di cui non avevano nemmeno sospettato l'esistenza e in cui ora stavano passeggiando. Oppure la possibilità di possedere quel sogno a buon mercato: le case risalenti ai tempi di Cristoforo Colombo erano vuote e si potevano acquistare al prezzo di un'utilitaria usata. Gli occidentali si entusiasmarono per Görlitz e le strapparono di dosso il suo triste camiciotto grigio, ridonandole lo splendore e i colori che le si confacevano. Era tardi e io vagabondavo per le strade della città vecchia. Italia settentrionale, avrei detto, se fossi finito qui senza sapere dove fossi. Il tintinnio di voci femminili al bar, il rumore di sedie spostate su selciati irregolari, porte di legno che si aprivano e chiudevano pesantemente. Nomi eloquenti e le allusioni in essi contenute. Vicolo Chiaro. Vicolo Scuro. Vicolo Nero. Vicolo dei Traditori. Camminare di notte per questi vicoli evocava un dolore che, senza essere necessariamente dolci o sentimentali, era rimasto soffocato a lungo e ora all'improvviso si faceva sentire. Passando davanti alle case medievali dove gli aficionados di Görlitz bevevano vino all'aperto, ne conobbi alcuni. Venivano soprattutto da fuori, all'inizio i loro piani erano diversi, avrebbero voluto trasferirsi in Toscana o in Provenza, ma poi si erano imbattuti in Görlitz. Ora vivevano qui, nella loro casa costruita sul Neiße cinquecento anni prima. Il professore arrivato dalle Hawaii con la consorte polacca, l'architetto di Brema, la pittrice di Amburgo, l'albergatore di Francoforte. O i coniugi berlinesi che, all'indomani della pensione, avrebbero voluto andare nel sud della Francia e che adesso, invece di contemplare i campi di lavanda, fissavano il Neiße. Furono loro a raccontarmelo, sotto le volte di quella casa in cui, cinquecento anni prima, erano iniziate le avventure di un'altra coppia. Lui era il borghese più facoltoso dell'epoca. Il re di Görlitz — così lo aveva soprannominato Lutero. Borgomastro, grosso commerciante, vantava una delle posizioni più alte sul ruolo delle imposte – pagava tre volte più del suo vicino – insomma, uno dei due uomini più ricchi della città. Dopo aver comprato in tutto quattordici villaggi, Georg Emmerich si mise a pensare alla salvezza dell'anima e a come inscrivere per sempre il proprio nome nella storia di Görlitz. Sarebbe andato fino a Gerusalemme per diventare Cavaliere del Santo Sepolcro e, al suo ritorno, a Dio piacendo, avrebbe donato alla città una copia del Santo Sepolcro. Che si trova qui, tuttora. Anche la moglie era ricca, figlia di un mercante di stoffe. Una cronaca la descrive come "donna vigorosa", nonché di bell'aspetto e "dalle sopracciglia scure". Agnes Finger aveva sposato un commerciante in stoffe che era morto presto, lasciandola vedova. A fare la fortuna di Görlitz era stato il commercio del gualdo, una pianta che, prima dell'arrivo dell'indaco, veniva utilizzata per tingere di blu e di nero i tessuti. Il gualdo era assai diffuso in Turingia e Görlitz vantava il privilegio della prima offerta: tutti i mercanti in viaggio dovevano restare in città per qualche tempo, offrendo le proprie mercanzie a buon prezzo. Presto sorsero industrie tessili, mentre i traffici si estesero ai Balcani e all'Impero Ottomano. Tuttavia non c'erano vie di pellegrinaggio che da Görlitz portassero a Gerusalemme attraverso i Balcani. Occorreva passare per l'Italia: i veneziani gestivano una sorta di compagnia di navigazione sulla rotta per la Terra Santa. Anche Agnes Finger voleva partire. Non era intenzionata a risposarsi subito, non voleva privarsi dell'indipendenza di cui godeva in quanto ricca vedova. Si sarebbe limitata a viaggiare: un caso senza precedenti all'epoca per una giovane donna sola. Viaggiare come il patrizio Georg Emmerich – no, non come Georg, bensì con Georg. Le cronache non lo riportano con certezza, ma alludono chiaramente al fatto che il viaggio in contemporanea dei due alla volta di Gerusalemme, oltre a tutto il resto – pellegrinaggio, tentativo di assicurarsi la salvezza dell'anima, pagina gloriosa nella storia dell'aristocrazia – fosse anche una fuga d'amore. Ero affacciato alla finestra della mia camera d'albergo. Davanti a me il quartiere dei mercanti di notte, i suoi tetti inclinati e un paio di finestre illuminate. La città sembrava dormire. Ma io vedevo gli archi delle porte alzati a metà, come sopracciglia, le ciglia socchiuse degli abbaini. Era il sonno leggero di un luogo sazio di tempo. Voci tarde, passi, risate, bisbigli. Talvolta il silenzio della notte è musicale, è la pace notturna delle città antiche. Le poesie più banali sono tutte vere. | << | < | > | >> |Pagina 180Era notte quando finalmente entrai nella capanna sullo Spitzingsee, un'imponente casa di legno nella cui grande stanza si affollavano gli ospiti. Temevo non ci fossero più letti liberi. Mentre aspettavo il proprietario, intercettai la conversazione tra un uomo anziano, con un maglione di lana pesante e un berretto da cacciatore, e due donne anziane. Stavano parlando delle tette della cameriera:Lui: "Ha già la legna davanti a casa." Prima donna, dopo una breve pausa: "Anche avercele troppo grosse non è mica bello." Seconda donna, dopo un'altra breve pausa: "Troppo grosse è faticoso." Poi apparve il proprietario che, in realtà, era una proprietaria. Bellissima. Lunghi capelli lisci e jeans aderentissimi. L'immagine colorata sulla sua T-shirt azzurro cielo, che da lontano avevo scambiato per la raffigurazione di un'ignota divinità indiana, era il re Luigi, il figlio pazzo del saggio re Max. Aveva ancora una camera libera. Detto ciò, tornò al suo tavolo e io mi cercai un posto nelle vicinanze, dove rimasi a sedere tutta la sera, cercando disperatamente di non fissarla – non mi riuscì. Quella era la sua corte. Se ne stava assisa sul trono, a capotavola, tra commensali ciarlieri che gravitavano intorno a lei. A sinistra un maestro di sci giovane e belloccio, a destra un altro. Era la sua tavola e lei la Regina del Valepp. Le regine non devono fare niente, solo limitarsi a essere regali. E difatti tutti cercavano di lusingarla, sforzandosi di essere spiritosi e di avere sempre la battuta pronta, tutti quei tipi all'apparenza giovani e non più giovanissimi, ma pur sempre sportivi. E lei se ne stava lì, impettita. Non le sfuggiva nulla. Concedeva una risata a uno, poi porgeva l'orecchio a un altro, di più non doveva fare. Se qualcuno diceva qualcosa che le piaceva, allora sul suo volto fine, con il profilo da Rinascimento italiano, balenava un sorrisetto fulmineo, talvolta un po' beffardo. Dirigeva il tavolo e l'intera casa con un gesto o un comando nel risoluto dialetto del luogo. Il Valepp era una monarchia parlamentare femminile e la capanna il suo castello. Così, proprio come le fattorie non avevano un numero civico, bensì un nome, anche qui non c'erano ospiti paganti, bensì il Gianni, il Michi e il Bepi. Si conoscevano sin dall'infanzia. Uomini che si erano misurati prima nelle zuffe tra bambini, poi nelle competizioni tra pompieri e nei trofei di sci. L'artigiano entrato con la tuta da lavoro, il metro pieghevole ancora infilato nella tasca dei calzoni, prendeva posto al tavolo della regina con la stessa sicurezza del suo compagno di scuola, il maestro di sci con i capelli imbrillantinati e gli occhiali da sole che costavano un occhio della testa. Dopo questa serata cominciai a capire meglio Bodenstedt, il poeta giramondo. Qui mancavano i monosillabi del nord, il silenzio che grava sul desco. Qui era tutto attuale e tumido, rozzo ed esuberante. Rozza la grande capanna e rozzi gli sgabelli, le assi e voli; esuberanti le pietanze e i boccali da un litro ed eccessive le tute. A nord, così come all'est, si parla soprattutto di cose serie e, ancora più spesso, si tace, nelle birrerie è tutto un problema, una discussione, un confronto d'opinioni. Qui invece di problemi non ce n'era nemmeno l'ombra, si trattava piuttosto di una recita. Piccoli battibecchi, in cui ci si sfotteva e ci si punzecchiava a vicenda, flirtando con la cameriera, che indossava il vestitino alla tirolese scollato. Un unico teatro popolare che ti riempiva l'intera serata, ecco cos'era la capanna e, come a teatro, c'era un certo gusto nel considerare se gli attori fossero più o meno affiatati nel prendere in giro gli altri, í loro rivali, o nel motteggiare le donne, senza che ci si facesse cattivo sangue. Era tutto un gioco, dunque bisognava stare alle regole. Il nord è autentico. Il sud leale. Forse dipendeva anche dalle montagne. Una capanna in mezzo ai boschi ha qualcosa del bivacco dove si finisce per accalcarsi, perché fuori nelle forre e sulle vette fa freddo, e la notte è buia e non esente da pericoli.
Dormii come un sasso e mi risvegliai la mattina della seconda
domenica d'Avvento.
|