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| << | < | > | >> |IndiceSopa de lima 13 Insalata all'acqua 19 Avgolémono 22 Radicchio tagliato 28 Olla podrida 33 Spaghetti stracotti al ragù 37 Gli sparagi di Augusto 39 II vero cuoco 42 Uova sui porri 43 Carneplastico 47 Farfalle alla matriciana 50 Frittata di un uovo 55 Coniglio e polenta 59 Piccione ripieno 62 Finanziera 68 Zuppa bianca di Galeno 73 Stufato cimitero 75 Brodo di cornacchia 78 Prosciutto cotto con l'ananas 80 Sanguic 83 Ostrica vegetale al burro 86 Frittelle di borragine 93 Tiella 96 Spezzatino alla zurighese coi ròsti 100 Pane carasau 105 Pastina in brodo della pensione 111 Cucina dimagrante 117 Cucina di famiglia 123 Uova strapazzate alla franeofortese: Rühr-eier 126 Tatsch 127 Gnocchi alla tedesca: Klöse 128 Salsa verde 130 Budino di semolino: Griessmehlpudding 131 Riso e latte dolce: Reisbrei 133 Frittata di mele: Apfelpfannkuchen 134 Cavalieri poveri: Arme Ritter 136 Spekulatius 137 Bowle 140 Come si scrive una ricetta 144 Indice analitico 149 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Carne e verdura: una bistecca ai ferri o una paillard con insalata: un'insalata di pomodori conditi con sale, pepe nero macinato grosso e aceto rosso (senza olio); e un'insalata verde condita alla toscana: con solo olio (di oliva, naturalmente) e sale. A questo punto do un consiglio che di solito viene ascoltato con diffidenza e di rado seguito: olio, sale e un po' d'acqua. L'acqua non diluisce il sapore dell'olio, anzi lo mette in risalto. Dopo aver lavato l'insalata non toglierle tutta l'acqua centrifugandola nell'apposito cestino di fil di ferro (una volta chiamato reticino o scotitoio) o in un tovagliolo; quel po' d'acqua rimasta costituirà, con l'olio e il sale, il condimento perfetto (anche per finocchi, sedani a pezzettini). Servi le due insalate così condite in due insalatiere separate, e naturalmente mangiale insieme. Quando questa teoria venne esposta in un aristocratico club di Jermyn Street, a Londra, delle 'grida bisbigliate' (se con questa espressione si può render l'idea) si levarono dalle bocche quelle vuote al momento) dei commensali: «Unbelievable! That's odd! Ominous! By Jove! Preposterous!»... Ma poi, trovato sia pur con qualche difficoltà l'olio d'oliva extra vergine e passati dalla teoria alla pratica, altre 'grida bisbigliate' sottolinearono l'apprezzamento generale: «Terrific! Fantastic! Fabulous! My goodness!»... Ancora carne e verdura. «A un uomo che lavora tutto il santo giorno sempre verdura gli vuoi dare?». «Carne ci vuole, perché la carne ti rinforza il sangue». «Figurati! Il mio marito buonanima, se non gli facevo trovare la carne ogni giorno mi riempiva la faccia di schiaffi». Questo dialogo, in sé insignificante, chiude il film di Fellini Il bidone. Doveva essere un parlottare di cose senza importanza, incomprensibili per Broderick Crawford che sta morendo poco sotto il ciglio della strada dove passa chiacchierando un gruppo di contadine. Tradotte e recitate in sardo, le battute diventarono come dovevano essere, incomprensibili e insieme piene di significati: l'essenza stessa della vita, che appare finalmente meravigliosa a chi sta per lasciarla per sempre. «A un omini che traballa tuttu sa santa dì sempri birdura di bolis donai?». «Pezza ci bòlidi, puita sa pezza di rinforza su sànguni». «Là! Su primu maridu miu bonanima, si no di femmu incontrai sa pezza dogna dì mi prenia savàcc e bussinadas». Quando il film è stato proiettato in Sardegna l'effetto è andato perso. Tutti, compreso il moribondo, sentivano distintamente delle chiacchiere di donnette: «A un uomo che lavora tutto il santo giorno sempre verdura gli vuoi dare? Carne ci vuole...». Una paillard, come ognun sa, è una fetta sottile di carne di vitello (o di manzo, come era in origine, lo ha ricordato di recente il Carnacina) ai ferri, con pepe, sale e limone. Il signor Paillard, il cui nome appare sempre più spesso italianizzato in Paiard o Paiar (in compagnia, sui menu più frettolosi, di uova alla kok, wustel, asce di manzo alla Metro d'Otel, eccetera eccetera), già proprietario di un famoso ristorante a Parigi, sul boulevard des Italiens, e prima chef del Ritz, non ha fatto un grande sforzo per raggiungere l'immortalità. Ma solo in Italia. In Francia, gastronomicamente, paillard non vuoi dir nulla: come se qualcuno chiedesse del vitel tonné. | << | < | > | >> |Pagina 43«Antipasto di erbaggi: Condisci i bulbocastani con salsa d'Apicio, olio e vino». E' l'inizio di una ricetta del De re coquinaria di Apicio, il best-seller gastronomico dell'antichità destinato a durare, sia pure con infiniti rimaneggiamenti, tagli, aggiunte, interpunzioni, più a lungo del Foro romano. Ci trovi le ricette, di non facile interpretazione, dei più celebri piatti dell'antica cucina romana: poppe di scrofa al forno, gru arrosto in salsa di miele, lingue di pappagallo... ma soprattutto noti una eccessiva presenza, nelle ricette, di una salsa che il traduttore chiama salsa d'Apicio e l'autore, con brutta parola, liquamen. Questa salsa è un po' un mistero gastronomico: nessuno ha mai saputo spiegare cosa esattamente sia. Paolo Buzzi, nella sua prefazione, parla di «ingrediente [...] a base di erbe, di spezie, d'aceto e, forse, di pasta di pesce». Apicio non ne da la ricetta, troppo ovvia ai suoi tempi; insegna solo come emendare il liquamen, se ha acquistato cattivo odore, col fumo di lauro e di cipresso. Il miglior liquamen, secondo un annuncio pubblicitario venuto in luce su un muro di Pompei, era quello filtrato dalla ditta Umbricus Agathopus. Tempo fa un amico mi ha mostrato una boccetta di Nuoc-Mam, una salsa usatissima nel Vietnam, e quando mi ha detto che essa è fatta di sale, spezie, erbe e pesci lasciati macerare al sole ho capito che il Nuoc-Mam altro non è che la misteriosa salsa d'Apicio. Secondo l'amico, che l'ha assaggiata, detta salsa è «buona per i vietnamiti». «Quando siano cotti,» continua Apicio, che probabilmente dettava le sue complicate ricette con la voce bassissima, cavernosa caratteristica dei romani di ogni tempo «metti a bollire con essi del fegato di porco, dei fegatini di gallina, dei peduzzi e degli uccelletti tagliati. Quando si levi il bollore, trita del pepe e del ligustico. Bagna con liquamen, vino e passito, affinchè riesca dolce. Versavi del sugo stesso: e rovescialo sui bulbi. Quando han bollito, fai ispessire al momento con dell'amido». Passa la voglia di mangiare. O meglio si desiderano, per contrasto, i cibi più semplici: i porri e i ceci di Grazio, le rape e i fagioli di Bertoldo e, voglio aggiungere, le uova sui porri dello Schino (Franceschino). Lessa i porri, gli asparagi dei poveri, scolali, mettine due o tre (pochi, se no soffocano il sapore dell'uovo) caldi sul piatto caldo, tagliali a pezzetti e versaci sopra un uovo fritto in abbondante burro schiumoso. Il burro si mescola al poco d'acqua dei porri e forma una salsetta deliziosa. bevici sopra un buon bicchiere di Clinto o di Bonarda. E che il vino sia fresco! [...] | << | < | > | >> |Pagina 68Via Fiori Chiari, via San Carpoforo, via Madonnina, bellissimi nomi resi equivoci dal ricordo di un non lontano passato postribolare. Il numero uno di via Madonnina oggi è chiuso, le finestre sono sbarrate con assi come avviene negli edifici vuoti in attesa di demolizione. È una decrepita fetta di casa tra via Madonnina e via Mercato, come ce ne sono tante nella Parigi di Utrillo. Qui, ai tempi di Paolo Valera, funzionava il più celebre dei trecento boìs di Milano, ristoranti di infimo ordine che il popolo chiamava sesmilaquindes, cioè 6015: un numero da prigioniero della Bassa, l'ergastolo di Mantova, e che somiglia alla scrittura della parola boìs. Cosa si poteva mangiare in un 6015? La roma (o rosticianna, carnaccia con cipolle fritta nello strutto), la Venezia (trippa), la spagnola (patate arrosto), i màccheri al sughillo (maccheroni al sugo), i vermi (vermicelli), i nervosi (nervetti all'aceto), la galba (minestra), la polenta vedova (polenta accomodata), el scagliùs (pesce), i trifol (patate) rostì e in insalada. Per finire; un bicchierino di rabbiosa (acquavite). «Una zuppa con tre quarti di pane misto e vott [centesimi] de bagniffa» dice un cliente. Altro cliente: «Quindici [centesimi] di trotto [cavallo] e un quinto sabaudo [barbera]». Altro cliente: «Dammi dieci di repubblica [guazzabuglio di carne stracotta con cipolle e patate] e mezza micca». «Vino?». «Sono indisposto, dammi un bicchier d'acqua». «Dieci repubblica e una ciciliana [un bicchier d'acqua]». Cameriere (altra ordinazione): «Dieci centesimi merlo [merluzzo] per quel signore in fondo... a pée biòtt [a piedi nudi]». Per rifarci la bocca ascoltiamo «Fricassé, della rocca di Cancale», che parla di «lingua à l'écarlate, di cavolfiori à la sauce veloutée, di vitella a la Sainte-Menehould, di marinade a la Saint-Florentin, e di gelatina d'arancio en mosaïque». Fricassé è un personaggio (evidentemente culinario) inventato da Poe; la rocca di Cancale, rimasta nebulosa nella traduzione, non è che Le Rocher de Cancale, uno dei più famosi ristoranti parigini del secolo scorso. Cosa sia la vitella a la Sainte-Menehould, Poe lo spiega in un altro racconto: «un piccolo vitello arrosto, preparato intero e ginocchioni sul vassoio con una mela nella bocca come in Inghilterra si usa servire il lepre». Sainte-Menehould è una cittadina sull'Aisne, capitale gastronomica della Champagne, nota per diverse specialità gastronomiche fra le quali, famosissimi, i piedini di maiale a la Sainte-Menehould. Alexandre Dumas, nel suo Grand Dictionnaire de cuisine, racconta che Desmoulins diffuse calunniosamente la voce che Luigi XVI era stato arrestato a Sainte-Menehould (mentre si sa che fu arrestato a Varennes) perché non aveva voluto passare di lì senza fermarsi a mangiare i famosi piedini. | << | < | > | >> |Pagina 93Il Pontormo ha lasciato un breve diario dove annota quasi solo cosa dipinge e cosa mangia. «sabato sera cenai con Piero pesce d'Arno, ricotta, huova e carciofi». «giovedì sera una insalata di lattuga e del caviale e uno huovo». «sabato andai a taverna: insalata e pesce d'uovi e cacio e sentimi bene». Il pesce d'uovi è una frittata che viene ripiegata su se stessa acquistando così la forma di un pesce: un'omelette. È un'espressione usata ancora oggi in Sicilia. «mercole cenai on[ce] 14 di pane, arista, una insalata d'indivia e cacio e fichi secchi». Sono i semplici piatti della eterna cucina popolare, così diversa dai complicatissimi menu che ci sono rimasti dei pranzi rinascimentali: infinite portate sovraccariche di spezie, zucchero, cannella... «giovedì cenai on[ce] 15 di pane», «venerdì on[ce] 14 di pane», «sabato non cenai». Qualche volta il Pontormo cenava con solo pane (ma buono); qualche volta non cenava del tutto. O mangiava solo. «Domenica e lunedì cossi da me un poco di vitella che mi comperò Ba[stiano] e stetti que' duo dì in casa a disegnare e cenai quelle 3 sere da me solo». Rimasto orfano bambino, era stato affidato alla tutela del Magistrato dei Pupilli. «Giovane melanconico e solitario» lo descrive il Vasari e racconta che «alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno la quale, entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa». Sulla tavola della Cena in Emmaus, agli Uffizi, si vedono due appetitosi panini imbottiti, meravigliosamente dipinti. Se il Pontormo fosse nato più tardi, ogni menu del suo diario avrebbe potuto essere una bellissima natura morta. «La sera cenai uno resto d'intingolo e d'arista avanzata di giovedì, borana cotta, on[ce] 9 di pane di rannerino».
La borana (o borrana o borragine) appare più di una volta nei menu del
Pontormo: cotta (in poca acqua), in insalata, c'è perfino un'insalata di fiori
di borana, che sono bellissimi, rosa e azzurri sulla stessa pianta. La borragine
oggi è poco usata, salvo in Liguria dove, nelle friggitorie di Sottoripa, a
Genova, si vendono le frittelle di borragine, e al mercato orientale la vendono
sulle bancarelle. Le foglie, pelose, danno sapore all'insalata. Da un vecchio
libro di cucina, anonimo, trascrivo la ricetta delle quasi dimenticate frittelle
di borragine. «Preparate della pasta piuttosto densa con 2 manciate di farina,
mezzo bicchier di vino bianco, una cucchiaiata di olio e un pizzico di sale,
sbattendo e dimenando ben bene il tutto. Prendete delle foglie di borrana,
lavatele in acqua fresca, fatele sgocciolare, trinciatele ed unitele alla
suddetta pasta; indi rimescolate ancora il composto, ed a cucchiaiate gettatelo
nella padella ad olio bollente, formando così le frittelle, le quali servirete
cosparse di zucchero. «Invece di trinciar la borrana, si può friggerla a foglie
intere, dopo averle immerse nella pasta suddetta».
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