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| << | < | > | >> |IndiceFederico Caffè, vent'anni dopo 7 di Pierluigi Ciocca SCRITTI DI FEDERICO CAFFÈ 1976-1985 13 - Miti e monete, 15 - Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, 17 - Due stili, 19 - Non esistono armi segrete, 21 - Il rifiuto di essere succubi, 24 - Le illusioni del ristagno risanatore, 26 - Il governo fa l'ingenuo, l'opportunismo è di rigore, 28 - E prima del terremoto? 30 - Rabbiosa serietà due mesi dopo, 32 - Enigmi sull'inflazione, 34 - Il pallottoliere dell'informazione e le mode della politica, 36 - Cupidigie di reaganismo, 38 - Inflazione di giudizi nel campo di sinistra, 40 - Errori da manuale, 42 - Nel nostro paese niente oscar alla gente comune, 44 - Gli economisti inglesi uniti nel respingere il monetarismo, 46 - L'ipocrisia e il libero scambio, 48 - La Montedison e il ministro, 50 - Speculazione tracotante, 53 - Pressioni indecenti della Cee, 55 - Praticoni pittoreschi, 58 - Rigurgiti velleitari, 60 - Lo Sme non è il gold standard, 62 - Tobin, l'anti show-man, 64 - Il segno dei tempi, 66 - Politica economica, tecnica, cultura, 68 - Finiranno per riscoprire Keynes, 72 - Il ritorno della mano invisibile, 74 - E se i limiti sociali allo sviluppo riproponessero l'economia della scarsità? 77 - La solitudine del riformista, 81 - Le parole dell'economia politica, 83 - Suggerimenti per futura memoria, 86 - Il vizio assurdo del nominalismo, 89 - John Maynard Keynes. Per cento libri mille elogi interessati, 91 - «Indistruttibile» Joan Robinson, addio, 94 - Morte di un grande economista, 96 - Protagonisti contro lo sfascio, 98 - Lira pesante, l'uso politico della banalità, 100 - Richard Stone. L'economia e l'etica statistica, 102 - Ritorna un illustre periodico, 104 - Il dollaro e l'apologo del povero ricco, 106 - Il metodico arbitrio, 110 - Il mio voto, 112 INTERVISTE E DIALOGHI CON FEDERICO CAFFÈ 1976-1985 115 Una dichiarazione al «manifesto», 117 - Alcune opzioni e più illuminismo, 118 - Siamo già nel 1929, 123 - «Non tiro quattro paghe per il lesso», 131 - «No, questa volta io do ragione alla Thatcher», 132 - Bestia brutta l'inflazione. Ma la disoccupazione è peggio, 134 - Il conflitto è ammaestrabile? L'economista nello scontro sociale, 141 RICORDI 147 Un'amicizia 149 di Valentino Parlato La compagnia del riformista 151 di Galapagos |
| << | < | > | >> |Pagina 7FEDERICO CAFFÈ, VENT'ANNI DOPO
di Pierluigi Ciocca
Vent'anni sono passati da quando Federico Caffè è uscito in solitudine e con discrezione, forse dalla vita, certo dalla cultura italiana alta, dal rapporto con i suoi tanti allievi ed estimatori, con i lettori dei suoi libri e del manifesto, a cui collaborò intensamente tra il 1976 e il 1985. Rilette oggi, grazie al gesto gentile dei redattori del manifesto di ristamparle, quelle brevi pagine, quelle poche interviste, commuovono come allora chi ebbe il privilegio di conoscerlo, di manifestargli, vincendone il riserbo, stima, gratitudine, affetto. Conservano, quelle righe, il segno della personalità straordinaria, umana e intellettuale, di colui che i venti anni trascorsi hanno confermato come uno dei maggiori economisti italiani della seconda metà del Novecento. Soprattutto, i suoi «plausi» e le sue «botte» sprigionano stimoli forti, suscitano vive reazioni e pensieri nel lettore di oggi non meno che nel lettore di allora. Sulla scorta della metafora «plausi e botte» – a me cara, tratta da un prosatore tra i più raffinati, che al pari di Caffè molto recensiva – emergono dagli scritti per il manifesto i bersagli a cui Caffè rivolgeva il suo spirito critico. Fra gli altri, infliggeva le sue «botte» all'inerzia in politica economica; ai «falsi miti» allarmistici e alle idee preconcette; alla «sinistra incline ai cedimenti ammantati da compromissorie ambiguità» e alla sinistra estremista, oggetto del «monito di Gramsci»; alla Borsa italiana e ai suoi speculatori, «incappucciati» razziatori di risparmio forzato; alla tecnocrazia di derivazione nittiana che, se espresse qualificati servitori dello Stato, rese più intricato «il nodo dell'amministrazione pubblica»; ai burocrati di Bruxelles, «privi forse di una adeguata preparazione»; alla commistione insana fra banca e industria e alle partecipazioni statali ultima maniera; alla lira pesante; all'amico Franco Modigliani, le cui «prescrizioni» sull'economia italiana «non sono accettabili»; all'«assuefazione all'ovvietà», piuttosto che alla «sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità» degli economisti che ripropongono, in linguaggi inutilmente complicati, idee «vecchie» di fronte a problemi «nuovi» (come nel caso dell'antico «pretenzioso» monetarismo nella veste inedita delle aspettative razionali in un contesto di stagflation); all'offesa inaudita, inaccettabile, recata dalla dimenticanza o dalla critica faziosa, filologicamente infondata, a quanto di meglio può trovarsi nel gran libro dell'economia politica, che basterebbe aver letto e che lo studioso abruzzese conosceva come nessuno. Al fondo, l'anatema analitico, politico, morale di Caffè è rivolto all'economia di mercato capitalistica nelle sue mutevoli incarnazioni storiche, fra cui quella del nostro Paese. L'economia di mercato «poggia su sofferenze umane non contabilizzate, ma non per questo meno frustranti e degradanti». In due secoli è stata capace, sì, di moltiplicare per dieci il reddito medio di una popolazione mondiale salita da 1,5 a oltre 6 miliardi di persone. Ma ciò è avvenuto al costo di una instabilità radicata, forse inestirpabile: inflazione e deflazione, bolle finanziarie, recessioni e disoccupazione, per Caffè il massimo dei mali. È avvenuto al costo di una iniquità distributiva crescente, odiosa, oggi riassumibile in un solo dato: l'1 per cento più benestante dei cittadini del mondo (circa 50 milioni di persone) percepisce redditi complessivamente superiori a quelli della metà più povera (3 miliardi di persone) dell'intero genere umano. | << | < | > | >> |Pagina 17Dicembre 1978
CHE SPREGIUDICATO QUELL'ECONOMISTA HA SCOPERTO LA LEGGE DELLA GIUNGLA
Vedere nel sindacato la forza dirompente sia degli equilibri del mercato che delle potenzialità della programmazione è l'apporto più recente, e fuorviante, della saggezza convenzionale. La riscoperta del mercato, che non è fenomeno esclusivamente italiano anche se nel nostro paese ha trovato conturbanti consensi persino nelle forze politicamente progressiste, lascia sconcertati, in quanto appare immune da ogni ripensamento critico che sia frutto della imponente documentazione teorica ed empirica disponibile sui fallimenti del mercato: dalla sua incapacità di tutelare efficacemente il consumatore che dovrebbe esserne sovrano, al suo assoggettamento alle forze economiche che dovrebbero dipendere dalle sue indicazioni, al riconoscimento delle carenze che esso manifesta nella segnalazione di esigenze vitali, ma non paganti, della collettività. I propositi di programmazione, d'altro canto, non si discostano ancora oggi all'antica riserva mentale, di stampo einaudiano, che esorcizzava, a suo tempo, lo stesso termine di piano, sfumandolo in quello più blando di schema, o svuotandolo di una connotazione specifica, in quanto «tutti fanno piani». Questo arretramento culturale si traduce, fatalmente, in una deformazione nell'attribuzione delle responsabilità di una situazione che si conviene definire meramente di emergenza. Che di arretramento culturale si tratti non dipende meramente dal ritorno all'antico: il recupero di idee del passato che siano state a torto trascurate, o che non siano state adeguatamente comprese a tempo debito, risulta generalmente valido. Ma allorché Hayek ha, del tutto recentemente, scritto che «la causa della disoccupazione risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente, in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile», si è di fronte non a una fruttuosa rielaborazione di idee che abbiano radici lontane, ma all'ennesima attestazione dell'atteggiamento del ritorno retrivo di chi ha saputo niente apprendere e niente dimenticare. L'informazione maggiormente in grado di influenzare l'opinione pubblica, i messaggi delle persone in posizione di potere e di responsabilità non differiscono da questa, in fondo patetica, incapacità di studiosi indubbiamente eminenti, come Hayek, di riconsiderare in modo nuovo antichi convincimenti. Con la differenza che, in personaggi di minor calibro intellettuale, non si è in presenza di un malinconico attaccamento al mondo di ieri, ma di una cinica e spregiudicata resistenza all'avanzamento sociale, qualificato con monotona insistenza come espressione della ondata delle aspettative crescenti. Frasi del genere, al pari delle rampogne per il permissivismo scolastico (e occorrerebbe spesso chiedersi da quali pulpiti venga la predica); o al pari dell'ipocrita lacerarsi le vesti nei confronti dell'assenteismo operaio e della microconflittualità aziendale finiscono per essere vincenti nella pubblica opinione: e vi contribuisce – a mio avviso – la reazione inadeguata e inefficace delle forze sindacali. Anche per esse vale l'alto monito a non aver timore: il che, tra gli altri significati, ha anche quello di non dissociare l'autocritica che si consideri necessaria da una precisa, energica, documentata opera di controinformazione. La vera emergenza non è nell'economia, il cui quadro è molto meno allarmante di quanto lo si prospetti con orchestrata ma deformante abilità; bensì nel tentativo di bloccare ancora una volta l'ascesa, necessariamente convulsa, dei ceti popolari, mediante una normalizzazione di tipo moderato. Non per nulla, l'istruzione impartita «nelle zone esclusive della città» viene considerata a priori come valida; mentre la fatica quotidiana intesa a rompere il monopolio delle conoscenze viene ritenuta, per definizione, squalificata e dequalificante. Ma che il fastidio del tutto esplicito per le soluzioni non elitarie e l'artificiosa attribuzione della qualifica di «populismo» a ogni aspirazione di avanzamento sociale avvengano con la tacita acquiescenza delle forze politicamente progressiste è ciò che rende particolarmente amaro il periodo che viviamo. Se realmente si è ancora disposti a subire «programmaticamente» il ricatto dell'appello allo straniero; se realmente ci si propongono come modelli di efficienza paesi che scaricano le difficoltà cicliche sui lavoratori stranieri, o associano le virtù tecnocratiche alla più elevata maldistribuzione del reddito; allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì «come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile». 07.12.1978 | << | < | > | >> |Pagina 106Febbraio 1985Numero monografico della Talpa del giovedì sul dollaro. Titolo «In God we trust».
IL DOLLARO E L'APOLOGO DEL POVERO RICCO
L'identificazione del rafforzamento, sia pure erratico, del dollaro con la potenza economica degli Stati Uniti è un indice del grado in cui una concezione della scienza economica basata in modo quasi esclusivo sul «peso, numero e misura» possa allontanare da una ricerca che abbia spessore culturale e validità di significato sociale. Che la moneta rifletta la solidità di una economia è una idea altrettanto grezza come quella che l'importanza di un paese si esprima nella potenza della marina militare e/o mercantile, nel livello del reddito a testa, o nei premi Nobel conseguiti. Che, ad esempio, la quota dei cittadini americani che vivono in povertà è passata dal 13 per cento nel 1980 al 15,2 per cento nel 1983. Che gli addetti alla industria siderurgica sono diminuiti da 500.000 nel 1980 a 300.000 nel 1984. Che le condizioni di vaste zone agricole ricordano molto da vicino quelle degli anni Trenta, al pari dei fallimenti numerosi verificatisi nel settore bancario. È agevole osservare che queste ed altre difficoltà ed emarginazioni costituiscono il costo da pagare per assicurare all'economia un impulso dinamico, l'apertura verso il nuovo, l'abbandono di ciò che costituirebbe un appesantimento ingombrante per la crescita economica. Ma è altresì agevole replicare che il capitalismo maturo, al pari di quello originario, poggia su sofferenze umane non contabilizzate, ma non per questo meno frustranti e degradanti. Probabilmente non è priva di connessioni con questo stato di cose la necessità di mantenere un articolato sistema di vigilanza anticrimine di carattere privato, il cui costo è più che doppio rispetto alla somma destinata alla polizia pubblica. La maggior spesa non riflette un miglioramento qualitativo, in quanto i sorveglianti anticrimine privati molto spesso hanno a carico precedenti penali. Essendo nondimeno abilitati al possesso delle armi, non esitano troppo a farne uso. E si tratta di un modello che non ha mancato di esercitare una nefasta influenza sul resto del mondo. Si è in presenza di un quadro di chiaroscuri e proporlo come esemplare perché il dollaro è forte appare ingenuo, più che erroneo. Ma non soltanto la ricchezza economica reca con sé le pene che le sono connaturali: come l'aumento delle frodi a ritmi esponenziali; le installazioni nelle case di segnali di allarme contro i tentativi di furto, passate ora in una su ogni 11 case, mentre sei anni or sono erano presenti in una su ogni 83 case; l'adozione di corsi reclamizzati per l'uso di rivoltelle personali (il cui impiego nell'uccidere i criminali o ritenuti tali supera del 40 per cento il numero di coloro che vengono uccisi dalla polizia ufficiale); la possibilità (utilizzata da un quinto delle 400 maggiori società) di ottenere per 750 dollari al giorno informazioni su potenziali terroristi che si aggirino nei dintorni delle loro sedi. A questi affanni, che rinverdiscono tanto le sparatorie dell'epopea del Far west, si aggiungono le forme di arroganza che sono anch'esse fatalmente connaturali alle posizioni di egemonia economica. Non se ne parla perché esiste la convenzione tacita di considerare gli Stati Uniti la roccaforte del libero scambio, ma in realtà si tratta del paese che si avvale in misura maggiore di ogni altro di quelle «intese volontarie» per limitare gli scambi di determinati prodotti che stanno riportando, silenziosamente, a forme diffuse di bilateralismo. La volontarietà, in casi del genere, è del tipo di quella del leone che, pur essendo in posizione più elevata del fiume, chiedeva alla pecora sottostante di non sottrargli l'acqua. Ciò non toglie che, appunto in quanto basati su una pretesa volontarietà, accordi del genere sono sottratti al controllo dell'organismo internazionale che vigila in questa materia (GATT). Inoltre, poiché un atteggiamento di questo genere richiede abitualmente una copertura di ipocrisia, gli Stati Uniti sollecitano con insistenza il resto del mondo a eliminare le forme di protezionismo amministrativo di cui hanno indubbio primato. L'arroganza assume forme di incredibile piccineria nell'azione che gli Stati Uniti svolgono presso i maggiori organismi internazionali – il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale – avvalendosi di un potere di voto che consente al paese di bloccare le decisioni indesiderate. Così nell'autunno 1984, non ha avuto seguito la proposta di creare un congruo ammontare di «diritti speciali di prelievo», cioè della moneta fiduciaria che il Fondo è in grado di emettere con il consenso dell'85 per cento del potere di voto e di distribuire ai paesi membri come liquidità internazionale aggiuntiva. La giustificazione apparente è stata che questa pur esigua maggiore disponibilità di mezzi di pagamento internazionali avrebbe ridotto la disposizione dei paesi indebitati (specie l'America Latina) a «rimettere la casa in ordine», con misure restrittive monetarie e fiscali. Il fatto è che queste misure sono idonee a sanare situazioni congiunturalmente sfavorevoli, mentre i paesi sottosviluppati non petroliferi si trovano a dover affrontare misure di trasformazioni strutturali. I pretesi successi attribuiti alle politiche restrittive, in quanto hanno contribuito a ridurre il disavanzo della bilancia dei pagamenti del Messico e in altri paesi, trascurano di tener conto del costo che viene imposto in termini di sviluppo di occupazione, di accrescimento di pesanti forme di emarginazione sociale. La piccineria (e l'ingiustificato dominio presso questi organismi internazionali) è giunta al punto che, essendo intervenuto uno dei periodici aumenti generali delle quote di Fondo, le possibilità massime di attingere crediti sono state ridotte nella proporzione in cui le quote erano aumentate: sempre su ordine americano. Si tratta di aspetti tecnici che non vanno sottovalutati per due ragioni: in primo luogo. per l'incomprensibile atteggiamento passivo della generalità degli altri paesi membri, che non ritiene di doversi almeno dissociare da decisioni che, economicamente, sono non soltanto erronee, ma aberranti; in secondo luogo per l'incompatibilità tra queste forme di arroganza e l'esercizio da parte degli Stati Uniti, di una «persuasione morale» verso il resto del mondo che richiederebbe una ben diversa consapevolezza dello «spirito di servizio» che, secondo uno dei suoi maggiori economisti C. P. Kindleberger, dovrebbe accompagnarsi alle posizioni di egemonia economica. Se la forza del dollaro dipende dalla debolezza degli altri paesi, questa è da intendere soprattutto come accettazione acritica di una condizione di ingiustificata sudditanza intellettuale. Ritrovare una autonoma capacità di pensiero ha molte implicazioni. Occorre respingere l'erroneo convincimento che gli Stati Uniti stiano praticando una politica keynesiana per il solo fatto di avvalersi del sostegno esercitato sulla domanda e sull'offerta da un ingente disavanzo pubblico. Per quanto riduttiva sia l'idea che si voglia avere del pensiero keynesiano, questo è intrinsecamente legato alla lotta contro l'usura, vale a dire a un'azione efficace contro lo sfruttamento del «valore di scarsità del capitale». Una politica che implichi una redistribuzione dai poveri verso i ricchi non ha nulla da spartire con il keynesianesimo, di qualsiasi variante e specificazione. In aggiunta, i paesi deboli tali saranno e rimarranno non per il fatto di non volere seguire il discutibile esempio americano, ma per la circostanza — tra le molte altre — di volere ridurre la politica valutaria alla «regola catenaria» (quella regoletta di computisteria che indica come un pagamento possa farsi attraverso la piazza che consente l'acquisto della valuta straniera con minore spesa). Tra la zona di «stabilità monetaria» che si è voluta creare con il sistema monetario europeo e una moneta erraticamente fluttuante esistono possibilità di intervento che non si riducono all'accettazione notarile della regola catenaria. I paesi deboli lo sono di certo per numerose ragioni: ma tra queste, non vanno escluse le preferenze per forme di libertà valutaria che non sono rese inevitabili dalla interdipendenza dei mercati, bensì da personali giudizi di valore, che sarebbero rispettabili, se in una società di ineguali, non portassero che a un aggravamento di situazioni già di per sé estremamente sperequate. 21.02.1985 | << | < | > | >> |Pagina 117Gennaio 1976. In un'intervista al Corriere della Sera l'economista Franco Modigliani imputa all'eccessivo costo del lavoro e al disavanzo dello Stato il rischio che l'economia italiana non partecipi alla ripresa mondiale partita dagli Stati Uniti. (Franco Modigliani, premio Nobel per l'Economia nel 1985, è morto nel 2003).
UNA DICHIARAZIONE AL «MANIFESTO»
«Soltanto un profondo legame verso un paese per il quale non ha particolari ragioni di gratitudine induce il professor Franco Modigliani a interessarsi, con notevole frequenza, delle vicende economiche italiane. Non occorre dimenticare che il prof. Modigliani, giovanissimo, dovette espatriare a motivo dei criminali provvedimenti razziali e potrebbe benissimo disinteressarsi delle nostre vicende. Se lo fa, è perché ritiene utile il suo autorevole consiglio. Purtroppo, la sua diagnosi e le sue prescrizioni non sono accettabili, non perché non contengano elementi validi ma perché sono seriamente manchevoli. È singolare, ad esempio, l'assenza di ogni accenno al carattere «parassitario», ed anzi predatorio, della intermediazione creditizio-finanziaria nel nostro paese; né devono essergli note le stime che il nostro autorevole collega ed ex comandante generale della Guardia di Finanza, il professor Tus, ha reso pubbliche circa il peso decisivo delle esportazioni di capitali sul disavanzo della bilancia dei pagamenti. Tutto ciò non toglie che lo sforzo per la ripresa economica – speriamo non dovuto unicamente a una maggiore domanda estera – gravi attualmente, e continuerà a gravare sulle categorie lavoratrici. Questo è vero, mentre non è esatto che gli economisti italiani preferiscono non dirlo. Soltanto, molti di essi non ritengono che i sacrifici delle classi lavoratrici debbano condurre alla ricostituzione dei profitti delle imprese, perché esse ne traggano incentivo per maggiori investimenti. Si tratta di una formula elusiva al punto dell'assoluta vacuità. Non esiste ormai un rapporto di prima e dopo tra sacrificio e controparte. Non rendersi conto di questo significa essere molto, molto lontani dallo stato di esasperazione delle categorie meno abbienti che proprio in questi giorni si trovano di fronte ad aumenti tariffari e di altra natura di carattere chiaramente regressivo. Ai sacrifici di oggi non si possono più contrapporre le riforme di domani. Certe formule sono ormai screditate, anche se ciò potrà comportare l'obsolescenza di prestigiosi e costosi modelli econometrici».
04.01.1976
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