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| << | < | > | >> |IndiceVII Ricordi familiari di Antonietta Pintor XI Giaime Pintor ricordato a Cagliari di Enrico Marongiu XVII Tavola delle abbreviazioni XVIII Nota al testo 3 1919-1935 L'«infanzia gloriosa», p. 3 «L'avventurosa povertà delle giovani famiglie», p. 7 La «sperduta isola dei sardi», p. 9 25 1936-1937 Casa Pintor, p. 25 Una generazione senza maestri, p. 34 Gioventù Italiana del Littorio, p. 37 47 1938 Rilke e il «passo dell'oca», p. 47 Besançon-Firenze, p. 54 Nella galassia delle riviste, p. 64 67 1939 Altri tedeschi: Hesse, Trakl, p. 67 Il «soviet romano», p. 74 Nei panni di Mercutio, p. 80 Filosofi a Salerno, p. 85 Verga: incunabuli della questione del realismo, p. 105 117 1940 All'ombra delle Occasioni: tra ermetismo e eresia, p. 117 La letteratura, la guerra, p. 134 Tempeste d'acciaio: Jünger, i tedeschi, p. 154 Servitù e grandezza militare, p. 166 La doppia mano di Ugo Stille, p. 183 193 1941 «Occupato in idiozie armistiziali», p. 193 Germanica, p. 205 «Il turno di Wiesbaden», p. 209 Le Università e la cultura, p. 215 Francia 1940: una strana disfatta, p. 220 Una «funebre estate torinese», p. 232 A Torino: Casa Einaudi, p. 237 Contro un nuovo romanticismo, p. 249 Teatro tedesco, p. 259 289 1942 L'«umile seguito» delle Occasioni, p. 289 Il protezionismo della cultura, p. 298 «La razza di chi abbatte e sacrifica», p. 305 Heidelberg 1942, p. 323 Scrittori a Weimar, p. 339 Stalingrado e Vichy, p. 355 361 1943 Voci dall'America lontana, p. 361 Vichy: referti della decadenza, p. 368 Nietzsche: la storia e la vita, p. 383 «Su una stufa come Cartesio», p. 389 Anatomia di un colpo di Stato, p. 391 Tra Torino e Roma, p. 401 Dalla Dittatura al Comitato centrale delle forze antifasciste, p. 410 8 settembre: finis Italiae?, p. 416 Per il re o per la patria, p. 419 Fuga da Brindisi: nel ventre di Napoli, p. 426 «Un'impresa di esito incerto», p. 434 445 Note 609 Bibliografia 619 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 31. L'«infanzia gloriosa» L'infanzia, le sue trepide attese e il suo buio profondo avranno una breve parte in queste memorie. Quello che resta dei primi anni della mia vita è solo una rielaborazione di miti evocati dai miei genitori, momenti rimasti vivi nel loro ricordo assai più che nel mio e raffigurazioni vaghe e imperfette che si perdono nella leggenda. Io ho appena ricordi esterni e casuali, mi diverto a immaginare la buffa caricatura che ero a due o tre anni e non riesco a stabilire un vero rapporto di continuità fra l'essere incerto di allora e quello che più tardi doveva affrontare il difficile cammino della persona. Così, con una straordinaria renitenza a raccontare l'«epoca prima» della sua vita Giaime Pintor dà inizio alla stesura del testo che è stato reso noto, nel 1978, con il titolo Doppio diario. Estraneo alla disposizione mitopoietica di molti autobiografi che hanno trasformato la scrittura di sé nella narrazione di un destino, ma altrettanto distante dalle suggestioni di una memoria proustianamente atteggiata, Pintor sembra negare consapevolmente ai suoi lettori gli antefatti del romanzo di cui, con i lineamenti di un personaggio stendhaliano, diverrà protagonista. Tutti i tentativi di risalire all'origine della personalità e prima ancora a una regione in cui si confondono i caratteri individuali restano incomprensibili per me: presuppongono una metafisica che non riconosco e un gusto del mistero facile e ripugnante. Nemmeno l'esaltazione sentimentale dell'infanzia mi ha mai interessato: ancora ragazzo mi sorprese felicemente nella autobiografia di Gibbon un brano che rifiutava il mito della infanzia gloriosa. In seguito avrei inquadrato anche questa preferenza nel mio consapevole illuminismo. Il «consapevole illuminismo» di Giaime non impedirà tuttavia che fin dagli anni dell'infanzia un'altra voce si sostituisca alla sua nel racconto della vita: quella della madre Adelaide che affiderà alle innumerevoli lettere scritte ad amici e parenti tra il 1919 e il 1943 una sorta di biografia camuffata del figlio. Giaime Pintor nasce a Roma il 30 ottobre 1919. Il padre Giuseppe è il minore di cinque fratelli (prima di lui Francesca, Fortunato, Pietro e Luigi) di una famiglia della piccola nobiltà cagliaritana, nella quale l'orgoglio dell'appartenenza di classe sarà sempre affidato all'esercizio di austeri costumi intellettuali e morali: La famiglia di mio padre, forse di origine spagnola, apparteneva alla piccola nobiltà sarda. Famiglia di funzionari, di magistrati e di studiosi doveva incarnare certe virtù borghesi di dirittura e di austerità che si tramandavano attraverso una severa educazione. Mio nonno era medico, fu direttore degli ospedali di Cagliari e certo un uomo di non comuni qualità morali. Morì [a Firenze] di una malattia nervosa lasciando i figli giovani e la famiglia in condizioni disagiate. Ma tanto lui quanto mia nonna appartenevano a un mondo ancora remoto e provinciale: la Sardegna del secolo scorso, rigidamente cattolica e monarchica, piena di scrupoli, di tradizioni e di costumi. Fu con la generazione di mio padre che la nostra famiglia passò definitivamente in Italia. | << | < | > | >> |Pagina 40Giaime legge libri di ogni tipo, che poi discute con Lucio Lombardo Radice e Manlio Mazziotti o commenta nelle lettere ai genitori, frequenta assiduamente le biblioteche pubbliche e probabilmente approfitta, tramite lo zio Fortunato, di quella del Senato. Ogni giorno si reca inoltre a casa di Giuseppe Lombardo Radice che possiede una ricca raccolta aperta ai numerosi amici.Nel maggio del 1937, durante una gita a Firenze in compagnia di Lucio, Giaime può leggere con occhio penetrante il Retour de l'U.R.S.S. di Gide: Ho visto a Firenze il famoso Retour de l'U.R.S.S. di Gide di cui avrete letto alcune gongolanti recensioni italiane. Mi sono convinto sempre più dell'incredibile cretineria dei giornalisti. Gide è tornato dalla Russia fortificato nelle sue idee di comunista, e, se ha trovato nell'attuazione pratica dei principii bolscevici molti errori, dichiara che tale è la vitalità dello stato sovietico che a tutto potrà rimediarsi. Secondo i nostri illustri giornalisti era un libro di propaganda fascista. Ho poi letto una raccolta di saggi di Maurois su romanzieri inglesi contemporanei: Magiciens et logiciens (Kipling, Wells, Conrad, Shaw, Chesterton, Mansfield, Strachey, Lawrence, Huxley). Io sono abituato ad un altro genere di critica: quella filosofica, italo-tedesca, ma non posso non riconoscere a Maurois molta intelligenza e penetrazione. Ho adesso davanti a me L'évolution créatrice di Bergson e la liberale History of England di Macaulay, vangelo della famiglia Mazziotti. Il comportamento di Pintor in questi primi anni romani riflette una forte fiducia in se stesso, nella propria cultura e nella propria capacità critica. Ciò gli consente di mantenere una certa indifferenza nei confronti del regime, le cui glorie sono spesso ridicolizzate nelle lettere ai familiari: «Carissimi, soltanto il grande affetto che ho per voi mi induce a scrivere su questa orribile carta. Non si trova neanche della carta da lettere decente in questa Italia di cui abbiamo fatto un impero». Ma anche di prefigurare quel carattere un po' elitario che in seguito scatenerà il j'accuse di Franco Fortini. Si tratta come si è detto di un vezzo individualistico che è interpretabile non tanto come riflesso di una condizione di superiorità sociale quanto come un atteggiamento, tipico di molti giovani, frutto di un ingenuo tentativo di difesa dalla dura realtà del tempo. Per tutto il periodo universitario, pur pagando l'obbligato contributo al regime prendendo parte alle esercitazioni e alle lezioni di cultura militare, Pintor resta sostanzialmente estraneo alle manifestazioni di propaganda esprimendo il suo distacco intellettuale anche verso quei circoli della cosiddetta sinistra fascista che esercitano invece un grande fascino sui suoi coetanei. Il suo individualismo non lo esenta tuttavia dall'aderire ai Guf e dal partecipare ai Littoriali. A partire dagli anni dell'immediato secondo dopoguerra si è molto discusso sul significato di queste manifestazioni e su gli intellettuali che vi intervennero. I Littoriali furono senza dubbio un aspetto fondamentale della imponente macchina di educazione totalitaria creata dal fascismo. Tuttavia, quale luogo di incontro e di confronto tra giovani in cui discutere di problemi contemporanei, nell'ambito delle libertà concesse dal partito, è innegabile che favorirono anche la diffusione di idee non sempre allineate. Se il regime aveva creato tali concorsi per completare l'irreggimentazione e la fascistizzazione delle nuove generazioni, di fatto essi furono utilizzati da alcuni studenti, dai non fascisti soprattutto, per manifestare le proprie opinioni in un clima di relativa tolleranza, diventando paradossalmente «un luogo di espressione di posizioni anticonformiste, di apertura di nuovi orizzonti, di maturazioni di dubbi e, attraverso l'azione di giovani più consapevoli, di proselitismo antifascista». Soprattutto su questo secondo aspetto, in un'ottica ovviamente personale, si è concentrata la ricostruzione della vicenda nelle testimonianze dei protagonisti all'indomani della fine della guerra, unanimamente caratterizzate dal riconoscere in tali manifestazioni il più evidente segno del fallimento della politica giovanile fascista per cui «la controllatissima libertà di parola, di stampa, di riunione concessa agli universitari "sotto il segno del littorio" era diventata un'arma nelle mani dei gruppi antifascisti attivi». A questa interpretazione dei Littoriali quale vivaio della fronda al regime e del «nuovo antifascismo» si oppongono studi più recenti sottolineando al contrario anche la partecipazione di numerosi studenti che, in buona fede, credettero nel progetto di rinnovamento della cultura in senso fascista. In particolare Luca La Rovere ha evidenziato l'efficacia, almeno parziale, dello sforzo pedagogico del fascismo nel settore della preparazione e della formazione politica dei giovani che portò proprio attraverso i Littoriali, la stampa universitaria, le sezioni teatrali e cinematografiche dei Guf, alla formazione di una «seconda generazione» integralmente fascista, ossia ad una leva di intellettuali e di professionisti cresciuti nel clima littorio e determinati a realizzarne il programma rivoluzionario. In questo senso viene denunciata la «forzatura interpretativa di estendere l'esperienza di una ristretta minoranza, consapevolmente e attivamente antifascista, alla maggioranza della gioventù universitaria. Il cosiddetto fascismo "di sinistra", il "frondismo", l'afascismo, l'entrismo di gruppi antifascisti nelle organizzazioni del regime, se caratterizzarono il percorso di singoli individui o di piccoli gruppi di giovani all'interno del fascismo, mal si prestano a restituire oggi l'ottica culturale e motivazionale complessiva della generazione cresciuta all'ombra dei Fasci». Anche per La Rovere resta tuttavia innegabile l'importanza di queste manifestazioni quale occasione per «riconoscersi», per favorire i contatti tra individui e gruppi già formati alla scuola della libertà o in cui cominciasse a maturare una coscienza di opposizione, ma senza che gli anticorpi dell'anticonformismo, pur presenti nell'organismo fascista, riuscissero a diventare il patrimonio comune di una generazione, restando preclusa alla maggior parte degli universitari la possibilità di accedere a verità alternative a quelle del partito. La presenza ai Littoriali di Pintor è tuttavia di segno diverso: egli non è un antifascista militante e considera i Littoriali un concorso culturale, a cui prende parte solo se lo ritiene interessante, senza false retoriche, nel rispetto delle proprie idee che non sono evidentemente fasciste. Per questo emblematica, più che la presenza di Pintor a Trieste e Bologna nel 1939 e nel 1940, la sua assenza nel 1937: Non so se avete visto il bando dei Littoriali. Il tema letterario è «Biografia di un condottiero italiano» da Alberico da Barbiano a Starace (Achille da Bari o da Foggia). Non credo che lo farò. Pensavo di scrivere su Cesare Borgia per litigare con i professori ma lo zio si è altamente scandalizzato e mi ha proposto Francesco Ferrucci. Avrebbe il diritto di levarsi contro il mio lavoro e di gridarmi: «Tu uccidi un uomo già due volte morto». L'altro tema letterario, anzi critico, è estremamente balordo. Qualcosa come «La realtà oggettiva nella letteratura moderna». Per me la letteratura moderna va da Jacopone da Todi a Aldous Huxley e la realtà oggettiva è anche un concetto piuttosto vago. La composizione musicale deve essere «di carattere eroico» (altro concetto su cui bisognerebbe mettersi d'accordo) e tutti i concorrenti infine devono «mettersi sul piano dell'impero». Mi sembra il regno dell'indeterminato. Questa lettera chiarisce molto bene il rapporto del giovane intellettuale con le iniziative culturali del regime a cui aderisce senza condividerne l'ideologia di fondo, fedele in ciò al «privilegio del giovane borghese» che riesce ad avere uno sguardo critico e un distacco talvolta sarcastico nei confronti di manifestazioni che, nel loro imporre una ritualità organizzata, sembrano umiliare il suo innato individualismo. Certo, da questo understatement non consegue necessariamente per Giaime un chiaro impegno in senso antifascista: il fascismo si presenta come una realtà immutabile, l'unica realtà possibile per chi è cresciuto al suo interno, mentre l'antifascismo organizzato non appare ancora come una entità con cui sia possibile stabilire un rapporto fattivo. | << | < | > | >> |Pagina 4168. 8 settembre: finis Italiae?La sera dell'8 settembre la radio annuncia ufficialmente alla nazione lo sbarco degli angloamericani a Salerno, la resa dell'Italia e la firma dell'armistizio. La mattina del 9 si diffonde la notizia della fuga del re e del governo. Il crollo totale di tutte le forze politiche e lo sfaldamento di quelle militari fanno riflettere Pintor: lo stato d'animo di prostrazione che regna anche negli alti comandi e l'incapacità di realizzare ogni resistenza da parte dell'esercito sono il tragico risultato di tre anni di guerra. Nel clima di generale incertezza, egli comprende come sia giunto il momento di vedere concretizzarsi davvero «l'ultima possibilità di vivere fisicamente questa guerra» e, pur con la sensazione di essere stati abbandonati da ogni autorità costituita, insieme alle squadre organizzate dal Comitato delle opposizioni reagisce immediatamente, constatando la drammaticità degli eventi e traendo da questa l'indicazione delle nuove responsabilità che ognuno deve assumersi individualmente. Dai ricordi di Giorgio Amendola sembra ipotizzabile che Giaime, benché il suo nome non appaia accanto a quello dei dirigenti dei partiti che animano la lotta, abbia partecipato o comunque sia stato informato della formazione dei primi uomini armati sotto il comando di Longo, Pertini e Bauer, e dell'attività di Trombadori, Gerratana e Onofri per organizzare i compagni in squadre. Sarà del resto il gruppo dei giovani comunisti romani suoi amici ad avere un'incidenza notevole nella resistenza romana. Proprio quando i combattimenti dell'esercito regolare si vanno esaurendo e la resa è stata firmata, la funzione del CLN e l'intervento popolare saranno decisivi. A Roma «dalla piramide di Caio Cestio al Testaccio sono in linea i "civili" armati e cade fra essi, a Porta San Paolo, Raffaele Persichetti, giovane studioso, il primo degli intellettuali sacrificatosi nella Resistenza. E in più punti della città si accendono i combattimenti mossi, più che dalla speranza della vittoria, da uno spirito indomito di odio antinazista: fra via Cavour e via Paolina, in via Marmorata, a piazza dei Cinquecento ove sino a sera si spara contro l'albergo Continentale tenuto dai tedeschi. Sono episodi confusi, di cui è difficile rintracciare volta per volta l'origine e i risultati». Mentre Amendola e gli altri dirigenti si riuniscono in piazza Colonna dove, dal giorno prima, era stato indetto un comizio del CLN per incitare la popolazione a combattere contro i tedeschi, Pintor è travolto dagli eventi, dal bisogno di azione fisica, stanco dei progetti e delle riflessioni sterili. Vittorio Gabrieli ricorda di averlo visto passare nei pressi della Fontana di Trevi insieme a un gruppo di giovani, fra cui Gigliola Spinelli, «diretto a qualche caserma in cerca di armi, incitando la gente spaurita e nascosta dentro i portoni semichiusi, alla battaglia contro i tedeschi». Nello stesso atteggiamento lo ritrae Giuliana Benzoni: Non tutti erano per la moderazione, per la rinuncia. Passò Giaime Pintor, vivente stampa rivoluzionaria, sventolando una gran bandiera tricolore e gridando: «A Porta San Paolo». Si formarono camion di combattenti, altri cercarono, con mezzi di fortuna, di arrivare presso le antiche mura, dove si spendevano gli ultimi spiccioli della battaglia. Non si davano per vinti, cercavano il bel gesto, la lotta, forse la morte. Anche Amendola lo incontra in piazza Colonna mentre si dirige verso porta San Paolo «con la bandiera tricolore e con un mitra»: Ad un certo punto davanti alla galleria vidi Giaime Pintor, col quale avevo perso il contatto nel giorno precedente, avanzare con la bandiera tricolore e con un mitra, gridando: a porta San Paolo, tutti a porta San Paolo! Era in uno stato di grande eccitazione. Cercai di calmarlo e gli dissi che venivo da porta San Paolo, dove la battaglia si andava spegnendo, che la resa era ormai decisa, che bisognava prepararsi alla lotta clandestina, che il bello cominciava adesso. Ma non mi ascoltò. Lo invitai a restare con me, che avremmo esaminato insieme che cosa fare. Ma egli era preso dal bisogno di combattere, di affrontare il nemico, di bruciare nella lotta tutta la collera e l'amarezza, il disgusto provocato dalla fuga e dalla resa della città, due fatti collegati fra di loro. Lo vidi, così, allontanarsi verso piazza Venezia, seguito da un gruppo di giovani. Seppi poi che, dopo piazza Venezia, si erano dispersi, perché nelle strade ormai deserte passavano indisturbati autocarri pieni di tedeschi. Purtroppo egli prese allora la decisione di partire per Napoli, per promuovere la organizzazione di unità di volontari combattenti. Significativo è inoltre un episodio rievocato da Aldo Natoli che ritrae Pintor nel vivo della sua attività di «guerrigliero» e sottolinea l'importanza del ruolo da lui svolto all'interno delle iniziative degli antifascisti. Il futuro dirigente comunista incrocia l'amico in piazza Colonna, luogo in cui questi verosimilmente era tornato in seguito al fallito tentativo di raggiungere i combattimenti a porta San Paolo: Andai a piazza Colonna, per me è indimenticabile l'atmosfera che si respirava quel giorno. Non c'era molta gente, ma c'era una grande inquietudine. Mentre aspettavamo che il comizio cominciasse – c'erano Amendola e Longo – a un tratto sbucò un gruppo di motociclisti i quali attraversarono rapidamente la piazza, da Largo Chigi imboccarono il Corso, sparando. Spararono in aria evidentemente, perché io non ho visto cadere nessuno, ma questo fu sufficiente perché la folla si disperdesse. Io stesso fuggii dentro la Galleria Colonna e lì stavo appiattito contro la saracinesca abbassata di un negozio quando, volgendomi verso la mia destra, vidi Giaime, anche lui appiattito contro un'altra saracinesca. In quell'attimo aveva infilato la mano sotto la giacca e ne aveva tirato fuori un'enorme pistola..., io non ero armato... fu una cosa storica... straordinaria... ci aspettavamo che la sparatoria continuasse, invece non si sentì più niente. Quindi Giaime rimise dentro quell'ordigno e insieme ci incamminammo verso un posto dietro la Camera dei deputati. Mi ci condusse lui, io non sapevo assolutamente che lì ci fosse una riunione. Giunti, salimmo una scala fino a un appartamento dove, effettivamente, c'era un gruppo di socialisti e di Giustizia e Libertà, tra cui Pertini e Colorni che discutevano animatamente. Ricordo che Pertini chiedeva armi per scendere in piazza. Giaime e io restammo lì per qualche tempo, poi ce ne andammo. Fuori ormai non c'era più nessuna agitazione, la città sembrava abbandonata. Insieme ci dirigemmo verso casa. A quel tempo Giaime abitava a casa dello zio Fortunato. Io stavo da mio padre ai Parioli, dunque potevamo fare un pezzo di strada insieme. Quel giorno era in borghese, ma faceva sempre parte della Commissione di armistizio. Credo che anche Giaime sentisse la stessa angoscia che provavo io, il senso che avevo di vuoto, di incertezza, anche di sconfitta. A piazza Fiume ci siamo lasciati. Non l'ho più rivisto, lui non mi disse, forse non lo sapeva egli stesso, che sarebbe poco dopo partito per attraversare le linee e andare al Sud. Non ricordo di cosa parlammo durante la strada, ricordo solo quel senso di vuoto che è sigificativo, perché in quel momento si era aperta una situazione del tutto nuova, avevamo davanti a noi l'occupazione di Roma. Sicuramente parlammo di questo, di che cosa potevamo fare. Ma credo che Giaime non avesse ancora maturato la decisione di partire. Grazie all'intervento dell'esercito e dell'intera popolazione, Roma, dichiarata «città aperta», non cade senza combattere, salvandosi così dall'umiliazione più grave che potesse esserle imposta. Emblematico è il modo con cui Giuliana Benzoni ha rievocato lo stato d'animo dei giovani antifascisti all'indomani della resa della capitale: «Si aprì un nuovo capitolo, nel quale ognuno rimaneva solo con la propria coscienza. Lo shock dell'8 settembre aveva accelerato il processo di maturazione personale. Si cercava la vera azione. Per me, fatto un rapidissimo bilancio, l'ingresso nella clandestinità, con Amendola, con Pertini, con i miei amici più stretti, fu quasi automatico, una decisione che venne senza tormentosi dubbi. Il convulso svolgersi degli eventi aveva dato una accelerazione impensata alla vita di ognuno. Era come percorrere una discesa su una macchina senza freni, non c'era molto da scegliere, se non saltar giù per cercare di salvarsi». Sia a causa della sua sostanziale incapacità di inquadrare la propria azione politica nella disciplina di un partito sia per la speranza di combattere a fianco degli alleati in modo più utile, Pintor intraprende, invece, una strada diversa da quella percorsa dagli amici romani. Dopo il tragico epilogo del governo Badoglio egli vede in profondità la crisi della classe dirigente e comprende l'obbligo che ognuno ha di mobilitarsi, di rinunciare al proprio specifico, almeno temporaneamente, «per contribuire alla liberazione di tutti»: Le giornate che seguirono l'8 settembre furono le più gravi che l'Italia abbia attraversato da quando esiste come paese unito. Caduto Mussolini, Badoglio non aveva voluto andare oltre e rompere l'alleanza nazista per timore di sviluppi che non avrebbe saputo dominare. I suoi seguaci rappresentavano allora le terribili conseguenze di un gesto così temerario: Torino e Milano distrutte, l'Italia del Nord invasa, un ritorno di elementi fascisti con programma vendicativo. Per evitare questi mali il governo aveva obbligato gli italiani a reprimere il loro primo slancio rivoluzionario e trasformato quella che sarebbe stata una sincera esplosione di popolo in una ambigua manovra diplomatica. I capi militari avevano avuto quaranta giorni di tempo per predisporre la resistenza e ancora cinque giorni dopo la conclusione dell'armistizio per dare gli ultimi ritocchi alla loro sapiente opera. E questo era il risultato di tante precauzioni: Torino e Milano veramente distrutte, non dai bombardamenti tedeschi ma da quelli alleati, l'Italia occupata dai tedeschi non fino alla valle del Po ma fino al Mezzogiorno, Mussolini liberato, i fascisti al potere. I1 12 settembre invia ad Alicata un biglietto: «uno di quei biglietti della vita clandestina che si distruggevano appena ricevuti e che io, perciò, non conservo più. Questo biglietto, datato l'11 settembre, diceva presso a poco così: "Carissimo, dopo aver fatto per qualche settimana il diplomatico e per due giorni il pistolero" – Giaime aveva questo atteggiamento di distacco un po' ironico verso tutto ciò che lo riguardava e raccontava con un sorriso di aver partecipato in quei giorni a qualche azione contro i tedeschi – "la cosa migliore che io possa fare è di andare nel Sud, per cercare di mettermi in contatto con gli Inglesi e informarli della situazione che si sta sviluppando a Roma. Ti prego di voler comunicare questa mia decisione agli altri"». | << | < | > | >> |Pagina 43411. «Un'impresa di esito incerto»Carissimo, parto, in questi giorni per un'impresa di esito incerto: raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro armi e istruzioni. Ti lascio questa lettera per salutarti nel caso che non dovessi tornare e per spiegarti lo stato d'animo in cui affronto questa missione. I casi particolari che l'hanno preceduta sono di un certo interesse biografico, ma sono troppo complicati da riferire: qualcuno degli amici che è da questa parte vi potrà raccontare come nella mia fuga da Roma sia arrivato nei territori controllati da Badoglio, come abbia passato a Brindisi dieci pessimi giorni presso il Comando Supremo e come, dopo essermi convinto che nulla era cambiato fra i militari, sia riuscito con una nuova fuga a raggiungere Napoli. Qui mi è stato facile fra gli amici politici e i reduci dalla emigrazione trovare un ambiente congeniale e ho contribuito a costituire un Centro Italiano di Propaganda che potrebbe avere una funzione utile e che mi ha riportato provvisoriamente alle mie attività normali e a un ritmo di vita pacifico. Ma in tutto questo periodo è rimasta in sospeso la necessità di partecipare più da vicino a un ordine di cose che non giustifica i comodi metodi della guerra psicologica; e l'attuale irrigidirsi della situazione militare, la prospettiva che la miseria in cui vive la maggior parte degli italiani debba ancora peggiorare hanno reso più urgente la decisione. Così, dopo il fallimento, per ragioni indipendenti dalla nostra volontà, di altri progetti più ambiziosi ma non irragionevoli, ho accettato di organizzare una spedizione con un gruppo di amici. E la conclusione naturale di quest'ultima avventura, ma soprattutto il punto d'arrivo di un'esperienza che coinvolge tutta la nostra giovinezza. Sorprendono, nell'ultima lettera scritta al fratello Luigi il giorno prima di partire per la rischiosa impresa di passare le linee, la serenità e la compostezza, in un momento di estrema vitalità e di eccitazione, con cui Giaime riesce a raccogliere i pensieri e a congedarsi da «tutto quello ch'egli era stato e aveva amato». Nella tensione che si cela dietro un apparente distacco emotivo si intravedono la riflessione intensa e la sicurezza cosciente di chi ha finalmente raggiunto una «chiarezza interiore» e ha compiuto una scelta consapevole. Pintor affronta l'«ora finale col sentimento che almeno una parte della sua giovinezza era conchiusa», con la certezza di essere finalmente entrato nella maturità attraverso il banco di prova della guerra. Le parole al fratello sono senza dubbio lo scritto di Giaime più studiato e diffuso. Se in più occasioni sono state indicate dalla critica le affinità fra Pisacane e Pintor, al contrario si è sottovalutata l'occorrenza, evidenziata nel 1986 da Giovanni Falaschi, che a fornire il linguaggio alla lettera scritta a Napoli la notte prima di partire è proprio il Testamento pisacaniano, incluso in appendice all'edizione einaudiana. A distanza di un anno dalla pubblicazione del Saggio su la Rivoluzione, poco prima di morire, il giovane partigiano sceglie Pisacane quale «riferimento di valore assoluto», assumendolo come modello di coerenza tra azione e pensiero. Quasi a voler fugare ogni errore di interpretazione, sembra comunicare questa identificazione adottando il Testamento come traccia su cui elaborare i propri ultimi pensieri, a partire dall' incipit stesso che richiama immediatamente quello dell'eroe di Sapri: «Nel momento d'imprendere un'arrischiata impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni». Continua inoltre Pisacane: «Con tali principii avrei creduto mancare ad un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per mandarlo ad effetto», mentre Pintor sottolinea l'urgenza della propria scelta parlando di «unica possibilità aperta». E senza dubbio, come sostiene Falaschi, «si ricorda bene della spedizione di Pisacane quando scrive di aver dovuto "organizzare una spedizione con un gruppo di amici", o quando definisce il Risorgimento come uno sforzo di minoranze rivoluzionarie, e afferma, evidentemente riferendolo a se stesso, che oggi si riaprono agli italiani le possibilità del Risorgimento, cioè appunto quelle delle minoranze». Le analogie fra i due testi, lungi dall'essere un mero esercizio letterario, testimoniano come nella decisione di Giaime, accanto a una lucida analisi politica, sia presente anche un riscatto esistenziale e illuminano sulle ragioni concrete che portarono il giovane intellettuale a prendere posto in una «organizzazione di combattimento». L'assumere Pisacane quale modello palese aiuta a capire come il gesto finale di Pintor, su cui troppo spesso la sua figura complessa è stata schiacciata, non sia il «gesto disperato di un ribelle» ma la «conclusione di una vita governata da ideali concreti, tutta unita in uno sforzo di coerenza e di chiarezza interiore», e mostra come la sua breve e intensa esistenza non possa essere limitata alla drammatica fine, a un «assurdo racconto» che alla luce fioca di una lampada, una notte di molti anni fa, Luigi Pintor dovette ascoltare: Un piccolo gruppo, una notte di dicembre, uno sperduto paese del sud, un fronte di guerra da attraversare, un sentiero di campagna lungo un torrente, un campo minato sfuggito ai ricognitori, uno scontro a fuoco, un'esplosione nell'oscurità. E alle prime luci dell'alba il corpo riverso in una vigna sotto un muretto. Era una successione idiota di parole che non combinavano in nessun modo con l'immagine di mio fratello. Chi lo conosceva come me non poteva scoprirlo all'improvviso così vulnerabile, in quel luogo romanzesco, in quella posizione innaturale, insensibile a ogni richiamo, inerte nel giorno e nella notte sotto un cielo invernale. Non ho mai assimilato neppure dopo molti anni uno scenario così inverosimile. Nel prendere commiato dalla vita, Giaime affronta ancora una volta un tema a lui caro, il ruolo rivoluzionario della propria generazione, e ribadisce come la contrapposizione non sia con le generazioni precedenti ma con gli antifascisti tout court, avendo allora già chiara quella che è solo una recente corretta categoria storiografica, cioè che per i più giovani, nati e vissuti sotto il regime, non ha senso parlare di fascismo o antifascismo in termini classici. Egli è consapevole che solo la guerra «ultima fase del fascismo trionfante» era stata per lui e per i suoi coetanei l'occasione per comprendere le numerose contraddizioni di esso e giungere da un generico rifiuto a un'opposizione organizzata. Per i «più forti», tuttavia, tale esperienza aveva «portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati» su cui maturare un impegno ideologico di segno diverso: per essi la stessa lotta antifascista era apparsa, a un certo momento, sbagliata, minimale. E con un atteggiamento estremamente moderno, definisce chiaramente la propria aspirazione a «uscire dall'antitesi fascismo-antifascismo», ossia a superare sia l'episodio del regime fascista sia quello dell'opposizione anti-fascista, nella visione di un'Italia unita, nazionale, postfascista, che fosse il prodotto dell'esperienza maturata dalla nuova generazione: Giaime, come afferma nel Diario quando parla delle tre forme dell'antifascismo – ha osservato Luigi Pintor –, crede che la sua generazione, quella nata e cresciuta sotto il fascismo, per la quale «astenersi fin dalla nascita» sarebbe stata una follia, fosse l'unica che in quel momento potesse condurre il gioco. Sono osservazioni che oggi non si capiscono. Ad esempio, quando dice «uscire dall'antitesi fascismo-antifascismo» significa superare tutto ciò: l'idea di ricostruire un'Italia che si riallacci al Risorgimento, tagli fuori non solo il fascismo ma anche questo gioco qui. Il suo modo di vedere è questo e perciò può trovare un impegno politico più diretto, perché sfugge a quel tipo di dilemma: il fascismo poi la clandestinità. Anche nella sua ultima lettera lo spiega bene quando scrive: «io ero meno sensibile, avevo meno fretta, perché avevo altri interessi», ma la ragione era anche un'altra, che non gli piaceva come si svolgeva la lotta, gli sembrava minimale posta in quei termini, cercava di vederla in modo più risorgimentale, più nazionale o europeo, insomma di una cosa nuova che doveva venire fuori, ma non come una vittoria dilemmatica, o quello o quell'altro, ma come un superamento. | << | < | > | >> |Pagina 443Un mese più tardi, il gruppo guidato da Garosci riuscirà ad essere paracadutato nei dintorni di Roma.Per l'impossibilità di attraversare il campo minato dove Giaime giace riverso, il suo corpo rimane a lungo insepolto finché, dopo il passaggio del fronte, i contadini del luogo riescono a tumulare la salma «nell'aperta campagna, al margine di una vigna incolta». Soltanto verso la fine dell'anno 1945 sarà possibile a Luigi e a Fortunato Pintor raggiungere Castelnuovo al Volturno e dare a Giaime una sepoltura meno provvisoria nel cimitero del paese: Nei giorni della pace non sarà semplice raggiungere quel paese diroccato, quella gola e quella vigna che mi erano state descritte con tanta minuzia. Con il mio vecchio zio, afflitto e silenzioso, viaggiammo per più giorni attraversando borghi desolati, in un paesaggio dove all'antica povertà si sommava la devastazione. Quando la guerra si allontana le sue tracce sono spettrali, c'erano cimiteri improvvisati e paesi dove non restava un muro più alto di un metro. Giunti a destinazione non trovammo un solo tumulo dove ce l'aspettavamo ma più d'uno, i corpi di soldati di varie nazionalità e di civili malcapitati. Fu un rito funebre molto inconsueto. Senza l'aiuto di un becchino improvvisato non avremmo identificato neppure con approssimazione i resti di quella strana persona che aveva delle galoches nello zaino, perché non amava i disagi della cattiva stagione. Non solo morte violenta ma subitanea, a giudicare dalle vertebre spezzate. Chino sulla fossa il vecchio zio, sapiens cor et intelligibile, provvedeva alla certificazione. Non ero abituato e forse avrei dovuto lasciare che i morti seppellissero i morti, come raccomandava il messaggio dall'oltretomba. Però i contadini del luogo, donne in lutto e ragazzi scalzi, onorarono con bandiere questo ritrovamento e il trasporto in una tomba meno irregolare. Fu per me una malinconica conferma, tra le tante fornite dalla guerra, di quelle virtù popolari che resteranno un mito indistruttibile della mia giovinezza.
E proprio tra i contadini di Castelnuovo che partecipano commossi al
funerale, si invera il «significato nuovo che Giaime ha dato con la propria
morte alla propria funzione di intellettuale»: «Essi erano lontani dal conoscere
le sue opere e i suoi scritti; se li avessero conosciuti, non avrebbero
probabilmente potuto comprenderli per quello ch'essi significavano
in realtà. Eppure, privi di argomenti da avanzare, di ricordi o di affinità,
hanno compreso come cosa loro, come loro esperienza quotidiana, i motivi e il
significato rivoluzionario non solo del gesto di Giaime ma della sua
figura complessa di intellettuale. Lo hanno infatti trovato uguale a loro e
ai loro morti nella loro campagna, partecipe e vittima della loro stessa
battaglia. In quei momenti la vita di Giaime ha raggiunto la sua completezza,
e solo ad essi è rimasta ora la sua eredità di intellettuale italiano. Non è
rimasta solo a Castelnuovo e ai contadini che l'hanno sepolto, questa eredità
storica di Giaime, ma a tutti i lavoratori, a tutti gli operai italiani ai
quali basta ora leggere queste parole per spiegarsi e far propria la figura
di Giaime [...]. Forse è per questi motivi che mi è sembrata una cosa naturale e
giusta quella di vedere il funerale di Giaime Pintor svolgersi in un
paesetto contadino d'Italia quasi distrutto, e vedere deporre sopra la sua
bara una corona di metallo con la dedica "I Castelnovesi a Giaime Pintor"».
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