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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione di Guido Callegari, Antonio De Rossi, Sergio Pace PAESAGGI IN VERTICALE STORIA, PROGETTO E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ALPINO Parte prima 17 La "terza via" dello sviluppo alpino di Enrico Camanni 25 Cose che ancora sanno della nostra esistenza. Le Alpi come conoscenza estetica di Bruno Pedretti 35 Il paesaggio invisibile. Il retroterra sociale delle politiche di pianificazione territoriale di Maurizio Maggi 43 L'industrializzazione del paesaggio Ricognizioni dei modi di configurazione del territorio di Montagna di Thomas Demetz 55 Il destino dei rustici sparsi nelle Alpi Orientali. Verso un "paesaggio ricreativo"? di Viviana Ferrario Parte seconda 71 Architettura e montagna: l'esperienza del moderno in Italia. Il progetto delle centrali idroelettriche alpine di Luciano Bolzoni 85 Per l'organizzazione scientifica del tempo libero. Architetture e sport a Sestriere negli anni trenta di Sergio Pace 95 Carlo Mollino nelle costruzioni e negli scritti di Bruno Reichlin 123 Culture tecniche e immagini territoriali nell'infrastrutturazione del territorio alpino. Il caso della Valle di Susa di Mauro Berta 135 L'originalità del caso francese negli anni sessanta, le sue origini e i suoi problemi oggi di Bruno Vayssière Parte terza 151 Una nuova cultura del piano per la valorizzazione delle aree montane di Fabio Minucci 157 La conservazione del paesaggio rurale alpino in provincia di Bolzano di Silvano Bassetti e Peter Morello 167 Manuali per il recupero degli edifici tradizionali: strumenti nuovi per migliorare la qualità del paesaggio di Mariella Olivier 173 Qualità dell'architettura alpina nel Canton Ticino di Marco Bόchler e Marco Hubeli 187 Esperienze di architettura alpina contemporanea di Antonio De Rossi 197 Il paesaggio fra tutela e sviluppo di Guido Callegari 203 Il progetto della memoria del territorio: una radice per il futuro di Liliana Bazzanella 209 Gli autori |
| << | < | > | >> |Pagina 17Nel secondo dopoguerra del Novecento si accende il dibattito sull'architettura alpina. Poco prima che í luoghi più celebrati delle Alpi vengano seppelliti dai condomini e dalle villette, alcuni progettisti di prestigio invitati a costruire in montagna si interrogano sui limiti del modello architettonico tradizionale. Carlo Mollino, cui gli amministratori di Breuil-Cervinia affidano lo studio del piano regolatore per il nuovo villaggio turistico (senza mai applicarlo), scrive nel 1954: Volere un'architettura folkloristica vuol dire ripetere un modo che gli stessi costruttori di baite, gli stessi maestri artigiani che col legno e la pietra costruirono antiche architetture, oggi non vorrebbero più accettare... Questo invito al folklore, pur nato con la lodevole intenzione di evitare il peggio, sfocalizza gli elementi vitali della costruzione e tronca proprio un processo storico costruttivo che altro non è che quella tradizione che si vuole giustamente salvare. Tradizione è continuo e vivente fluire di nuove forme in dipendenza del divenire irripetibile di un rapporto tra causa ed effetto, è fiume armonioso e differente in ogni ansa e non acqua stagnante o ritorno. La tesi di Mollino genera scandalo. Ancora una volta il mondo della montagna si divide fra "tradizionalisti" e "modernisti" Chi non approva alcuna contaminazione con la modernità e si mostra idealmente fedele ai modelli abitativi della vecchia società alpina, reagisce come al solito in due modi: l'occultamento e l'imitazione. Si occulta a cominciare dalle cartoline, dalle fotografie e dall'iconografia tutta ciò che contrasta con la visione tradizionale (pali della luce, cavi delle funivie, insegne al neon, automobili, garage, case più alte di due piani) e si imita un presunto stile montano "autentico", nell'illusione che il "rustico" possa assicurare la continuità con il passato. Ecco spiegato il largo impiego edilizio del legno anche là dove il legno non appartiene alla tradizione dell'architettura locale, o l'inserimento della pietra d'importazione in zone dove la roccia è così cattiva da non poter costituire, dai tempi dei tempi, materiale per le costruzioni.
Ma quel che è peggio, sull'altro versante, invece di cercare un modello
architettonico e culturale che consenta alla montagna di liberarsi dai lacci del
passato senza per questo stravolgere la propria
identità, si replica acriticamente il modello urbano, esportandolo
semplicemente in quota. E così la montagna diventa un surrogato
della città, una vuota imitazione.
Oggi abbiamo una sola certezza: "tradizionalisti" e "modernisti" sono entrambi disarmati di fronte alla crisi culturale ed economica delle Alpi.
La prima visione è sfociata in tentativi di "museificazione" dell'ambiente
alpino e della sua civiltà tradizionale, a scopo conservativo e a beneficio
turistico. Ne sono prova i reiterati sforzi per far resuscitare i riti e i
costumi del passato anche là dove tali recuperi appaiono evidenti forzature
favorite dalle pro loco e dalle aziende di soggiorno per ricostruire una
parvenza di identità storica. Quale località
non esibisce il suo animale selvatico o il suo essere mitologico risalente a un
non ben identificato leggendario alpino? Ma sono simboli
così addomesticati da fungere tuttalpiù da mascotte per le insegne
delle tavole calde o per il marchio dello ski pass. Quale villaggio non
riesuma con orgoglio i colori dei costumi tradizionali, le danze dei
propri avi, i canti e le mascherate "alla moda di una volta"? Come a
dire: qui non è arrivato nessuno a inquinare le antiche usanze, qui
siamo rimasti quelli che eravamo. Ma si tratta di un'altra mistificazione,
perché nessuno può congelare la tradizione.
L'antropologo Gian Luigi Bravo, attraverso una ricerca condotta in Piemonte e in Valle d'Aosta nell'ultimo quarto del Novecento, ha smascherato il preconcetto che le feste popolari sopravvivano nelle valli più arcaiche e isolate. Contro ogni apparenza ha dimostrato che la rinascita dei rituali alpini è tipica delle zone più coinvolte nei processi di scambio con la pianura e la città: Per una migliore comprensione apparve utile chiedersi quali categorie sociali e individui fossero i protagonisti di questa continuità del rito e i promotori delle feste ricostituite dopo interruzione o assemblate su un modello e con elementi proposti come tradizionali. Questi protagonisti, più che persone chiuse e immerse nel passato montano e rurale, apparivano gli individui più aperti, attivi nelle istituzioni e negli apparati produttivi delle strutture sociali contemporanee, dalla fabbrica ai servizi alla scuola. In particolare si è ritenuto che essi dovessero essere ricercati tra i pendolari: abbiamo inteso con questo termine non solo e non tanto coloro che si spostavano sul territorio per la loro attività lavorativa o di studio, ma più precisamente quelli che per gli stessi scopi agivano ora in un contesto socioculturale, ora in un altro, a prescindere dall'ampiezza dello spazio geografico percorso. Queste riflessioni sul pendolarismo riportano all'antica consuetudine dell'emigrazione stagionale alpina e alla ricchezza storica degli scambi tra montagna e pianura, confermando la tesi di Jon Mathieu: Le Alpi si differenziano dalle terre pianeggianti che le circondano in forme molteplici e mutanti nel tempo, ma non sono mai state un mondo alternativo e opposto alla pianura e ai centri europei. Ha fornito una base importante per questa illusione il fatto che la maggior parte degli intellettuali, come anche il loro pubblico, abbiano fatto ricorso alle Alpi dall'esterno, per le loro proprie necessità. Si è trattato di una di quelle piuttosto strane dichiarazioni d'amore che non richiedono il parere dell'interessato. Il tempo per simili approcci dovrebbe essere scaduto.
Tradizione e identità alpina non traggono ossigeno dall'arroccamento in
enclave, ma dallo scambio creativo con la pianura e la città.
Θ una premessa fondamentale per misurare la congiuntura attuale
delle Alpi e soprattutto per proiettarla in una visione futura. Le gelosie
montanare, le chiusure regionalistiche, le sterili difese di privilegi e
particolarismi, le nostalgie non salvano il patrimonio alpino. Senza ossigeno la
montagna soffoca.
L'altra idea forte novecentesca, nata da una visione "progressista" delle Alpi ed evolutasi attraverso la moda della villeggiatura alpina, gli entusiasmi modernisti di inizio secolo, le ferrovie, le strade, le funivie, l'invenzione dello sci di massa, ha mostrato tutti i suoi limiti dopo gli anni settanta, quando è parso chiaro che la montagna stava diventando un surrogato della città. Nient'altro che un surrogato. Nell'euforia del progresso, abbagliati dalla panacea del turismo guaritore di tutti i mali, si era semplicemente perso di vista il punto di partenza: «Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato». Sono parole di fine Ottocento, eppure chi ci ha fatto caso nell'ubriacatura di investimenti e speculazioni del secondo dopoguerra? Chi ha pensato ai devastanti effetti collaterali? Come osservano gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta, il turismo "mangia" se stesso: «La vacanza turistica è un'attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e dell'incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende». Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo si è nutrito più a lungo e più in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura rigeneratrice. Eppure cosa ha fatto la città per sviluppare quei valori e godere quegli ambienti? Li ha aggrediti, rosicchiati e addomesticati, ne ha cancellato l'alterità e la bellezza, li ha ridotti a banali copie senz'anima.
Si è continuato per lungo tempo a pensare e progettare la montagna come un
territorio dalle risorse inesauribili, erodendo con la
complicità di montanari e cittadini la ricchezza delle Alpi: l'ambiente
naturale. Comunità locali e investitori esterni hanno continuato negli anni
settanta e oltre a ragionare su progetti di corto respiro,
con operazioni di sfruttamento e rapina ambientale di cui oggi si raccolgono i
pezzi.
I complessi problemi di disagio ambientale, flessione demografica e difficoltà economica che, su un territorio molto articolato ma con elementi ricorrenti, accomunano gli oltre undici milioni di abitanti delle Alpi e i circa seimila comuni, portano ormai quasi ovunque a parlare di "sviluppo sostenibile". La definizione è così inflazionata da tradire già una debolezza diffusa, proprio perché mancano i riferimenti a un modello più generale e perché ogni valle e ogni comunità pretende di risolvere (comprensibilmente, ma anche pericolosamente) i propri problemi da sé. Θ come se ogni amministratore delle Alpi avesse annusato un po' della ricetta miracolosa. I più sembrano aver compreso che, per esempio, non è "sostenibile" un turismo che sacrifichi il patrimonio storico e la qualità dell'ambiente, che cannibalizzi le colture agricole e le attività silvo-pastorali, che annienti le tradizioni locali. Alcune amministrazioni ragionano sull'opportunità di allontanare le auto dal centro dei villaggi, per non ricreare in montagna lo stesso clima di stress che si cerca di scacciare dalle città. Altre si stanno accorgendo che la monocultura dello sci uccide ogni altro sviluppo possibile, per cui bisogna creare urgentemente delle alternative. Si tende finalmente a rivalutare la gastronomia del luogo contro le tentazioni del fast food, e a rilanciare i prodotti tipici contro la logica del supermercato. Correttivi giusti, iniziative sacrosante, che però nella maggior parte dei casi rispondono a imperativi generati dal disordine del sistema, ma non si inquadrano ancora in un progetto di largo respiro e lunga durata, coordinato con i comuni e le valli vicine, inserito in una politica di prospettiva nello spazio e nel tempo. | << | < | > | >> |Pagina 151L'assunzione, insita nel principio dello sviluppo sostenibile, dell'ambiente come riferimento essenziale nella definizione delle scelte di trasformazione del territorio ha significato, per le aree montane, riscoprire, tutelare e valorizzare gli elementi di qualità presenti, a cominciare dalla biodiversità e dal grande potenziale di biorigenerazione di cui dispongono. In questo contesto il Piano può costituire uno strumento strategico per l'azione, a condizione che le scelte siano fondate su di un quadro conoscitivo adeguato, che possa consentire la definizione di scenari di sviluppo coerenti con le caratteristiche di quei territori. Un quadro conoscitivo che deve essere definito in accordo con i diversi livelli della pianificazione (regionale, provinciale e comunale) per consentire un'organica rappresentazione del territorio e dei processi che lo caratterizzano. Vanno in questa direzione, del resto, le innovazioni introdotte da molte delle leggi urbanistiche regionali di seconda generazione (emanate a partire dalla seconda metà degli anni novanta). L'urbanistica si è sempre occupata, per definizione, solo della città: non è un caso che i piani urbanistici, come dimostrano la gran parte delle esperienze a oggi condotte, si siano generalmente rivelati inidonei per un efficace governo dei territori rurali. le conseguenze sui territori extraurbani sono particolarmente evidenti nelle aree montane dove la disciplina del territorio aperto diventa preponderante rispetto al costruito, sia per le evidenti implicazioni paesaggistico-ambientali che per quelle socio-economiche. Al governo di quei territori è mancata finora una rappresentazione delle differenze, delle sedimentazioni storiche, degli aspetti qualitativi dei luoghi sui quali fondare politiche di sviluppo. La consapevolezza che le diversità dei diversi luoghi costituiscono una risorsa da salvaguardare si fa strada solo in anni recenti. Una presa di coscienza importante per le aree montane per le quali le diversità del territorio, dell'ambiente, delle culture, sono andate imponendosi come "base di esportazione" su cui fondare parti rilevanti della loro attrattività turistica e delle loro economie. Vanno in questa direzione le politiche oggi portate avanti dalla gran parte delle Comunità montane del Piemonte, come emerge dalle interviste campione fatte ai loro presidenti. Politiche essenzialmente incentrate su tre obiettivi strategici: - valorizzazione delle produzioni locali (agricole, alimentari, artigianali...); - riqualificazione del patrimonio storico/architettonico e culturale, con progetti di restauro o di rifunzionalizzazione (spesso coordinate a scala sovracomunale); - valorizzazione delle qualità ambientali, attraverso la tutela delle aree di pregio, la creazione di percorsi attrezzati, di punti informativi e di attività di promozione territoriale. Scelte che gli intervistati morivano con: l'accresciuta consapevolezza che la riproposizione di modelli insediativi urbani in aree con caratteristiche storiche e morfologiche del tutto diverse provoca uno stravolgimento della natura dei luoghi, con conseguenze a volte anche drammatiche sull'assetto idrogeologico del territorio. Un modello ritenuto inadeguato anche perché non è stato in grado di arrestare il fenomeno dello spopolamento dei territori interessati non costituendo una base economica durevole; l'accresciuta domanda per un turismo di qualità, che chiede alla montagna di conservare e valorizzare le proprie peculiarità. Ai grossi condomini, che ripropongono il modello abitativo delle città, si preferiscono sempre più gli edifici storici ristrutturati, al proliferare di ingombranti strutture sportive si preferiscono i sentieri nei boschi...; il fatto che i gravi danni causati in Piemonte dalle alluvioni degli anni novanta hanno reso evidente la necessità di porre al centro dell'attenzione di qualsiasi politica territoriale la tutela dell'ambiente;
il fatto che le politiche dell'Unione Luropea abbiano posto i criteri di
sostenibilità e di integrazione a fondamento di qualsiasi piano/programma
finanziabile.
Complessivamente emerge una cultura di governo, coerente con i principi prima richiamati, che può misurarsi con successo con i problemi di quei territori. Un successo fortemente condizionato alla disponibilità di strumenti di governo del territorio adeguati alle nuove esigenze che, ai diversi livelli, sappiano definire il giusto rapporto tra le esigenze di sviluppo e quelle di conservazione, alla base di uno sviluppo effettivamente sostenibile per le aree montane. Si pensi, ad esempio, al problema del recupero del patrimonio edilizio: le valli sono costellate da innumerevoli borgate o annucleamenti rurali, un patrimonio sparso sui versanti che, seppur in larga misura disabitato, presenta valori ambientali e documentari assolutamente non trascurabili, da censire in termini quantitativi e qualitativi per definire serie e concrete politiche di recupero. Il problema è trovare il giusto compromesso tra le destinazioni d'uso auspicate e quelle richieste o concretamente ipotizzabili. In altri termini si tratta di operare per un recupero che rispetti le modalità costruttive, i materiali tradizionali, le tipologie delle preesistenze adeguando queste ultime alle attuali esigenze abitative o, ancora, ricercando soluzioni che sappiano conciliare l'esigenza di non incidere negativamente sull'ambiente con la necessità di realizzare nuove opere infrastrutturali. In estrema sintesi, occorre individuare un razionale e ragionevole equilibrio tra costi e benefici (ovviamente non solo in termini economici) per uno sviluppo che sappia misurarsi con la grande transizione economica e socioculturale conosciuta nell'ultimo dopoguerra che ha svuotato la montagna, destabilizzato equilibri secolari, interrotto le tradizionali attenzioni alle esigenze del territorio. Le conseguenze vanno dall'abbandono di ampi comprensori alla controversa evoluzione del turismo invernale che spesso ha prodotto un'occupazione di suolo disordinata e incoerente con i caratteri di quei territori. Per far fronte a questa realtà è opportuno che la cultura di governo delle realtà locali possa contare, oltre che su di una più adeguata strumentazione urbanistica (prefigurata dalle leggi urbanistiche regionali più recenti), su misure volte a garantire la maggior efficacia possibile alle azioni di governo e l'effettiva praticabilità del processo di piano (anche per i comuni più piccoli). | << | < | > | >> |Pagina 187Questo progetto di una nuova abitabilità della montagna si accompagna a un rinnovato interesse, da parte non solo degli specialisti ma anche del grande pubblico, per l'architettura contemporanea realizzata in territorio alpino. Non è infatti la prima volta che ciò avviene. Già nella fase compresa tra la fine degli anni venti e la metà degli anni cinquanta, in quella che potrebbe essere definita la stagione eroica dei Moderni tra le Alpi, la nuova architettura alpina era stata al centro dell'attenzione della critica e del vasto pubblico. Un'architettura, quella dei Moderni, che aveva saputo anticipare, interpretare e accompagnare in modo efficace i processi di conquista, tecnicizzazione e turistificazione del territorio alpino. Carlo Mollino, uno dei principali protagonisti di quella stagione, scrivendo di un suo progetto per Cervinia, aveva parlato non a caso di un «filtro dove si entra cittadini e si esce sciatori». Molta dell'architettura alpina di quel periodo pone infatti al proprio centro il tema della dimensione ludica, del dinamismo e del vitalismo, ma anche della drammatizzazione epica della performance tecnica e del gesto fisico, trasmutazione e sublimazione in pietra e acciaio delle sensazioni provocate dai precipizi e dai pendii estremi. In fondo per i Moderni la montagna non è altro che una palestra dove sperimentare, portandola fino alle estreme conseguenze, la lezione delle avanguardie storiche e della modernità. Figini e Pollini, in una relazione presentata al V CIAM e pubblicata negli studi per il Piano della Valle d'Aosta degli anni trenta di Adriano Olivetti, parlano ad esempio dei territori d'alta quota come di «zone normalmente ancora intatte, e quindi ideali come libero campo per l'attrezzatura e l'ordinamento di una nuova urbanistica e di una architettura nuova».
Le Alpi dei Moderni quindi come
laboratorio.
Un laboratorio dove però il territorio alpino si configura come una mera tabula
rasa, un semplice fondale e substrato geomorfologico atto alla messinscena di
gesti architettonici e fisici da inscrivere nello spazio, privo di
qualsiasi connotazione culturale e storica. E sta proprio in questo
l'interesse dell'architettura moderna e contemporanea alpina: nella
sua capacità di rendere particolarmente trasparenti ed esplicite le
ideologie e gli immaginari della società a lei coeva rispetto a temi come
l'ambiente, la natura, il paesaggio, la storia, la cultura, la tradizione. Se
infatti ciò è valido per i Moderni, lo è altrettanto per l'architettura alpina
della contemporaneità. Essa si configura come una sorta
di straordinaria cartina di tornasole, capace di dare conto non solo
dei nostri modi di pensare la montagna, ma anche e specialmente dei
nostri spostamenti e cambiamenti rispetto ad alcuni concetti e immagini chiave
per la nostra società e cultura. Tra le Alpi, come ha argutamente osservato
Kilani, un antropologo, «l'articolazione del locale col globale conduce ad
analizzare i valori e le pratiche della modernità, propri alla società
industriale e urbana, a partire da un luogo relativamente in disparte rispetto
alla struttura dominante; e al tempo stesso a illuminare questa realtà
decentrata a partire dalle determinazioni della società globale».
Tra le esperienze in tema di architettura alpina contemporanea, due sono i casi che paiono essere specificamente significativi: quello della Svizzera con particolare attenzione all'area di lingua tedesca e al cantone dei Grigioni e quello dell'Italia nord-occidentale. Si tratta di due esperienze profondamente differenti, ma forse proprio per questo in grado di riassumere lo spettro degli atteggiamenti nei confronti della montagna e dei significati e valori da essa assunti. Due esperienze differenti innanzitutto rispetto alle tradizioni storiche nel campo dell'architettura. In Svizzera il tema dell'architettura alpina risulta essere storicamente centrale rispetto al dibattito sull'identità nazionale. Per diversi decenni, gli opposti fronti culturali dell'internazionalismo e del nazionalismo si confrontano in un dibattito serrato. Alla fine, nelle pratiche ordinarie e diffuse si affermerà l'icona dello chalet peraltro inventata nel primo Ottocento dalla cultura anglosassone , immagine sintetica in cui identità svizzera e identità alpina vengono a sovrapporsi fino a coincidere; nelle pratiche alte della disciplina architettonica prevarrà invece il modernismo, ritenuto dalle élites intellettuali locali il vero nuovo stile svizzero, in quanto in linea con quei caratteri di eticità, realismo, minimalismo, concretezza, essenzialismo, considerati rappresentativi della cultura nazionale. Diverso il caso dell'Italia nord-occidentale, dove, subito dopo la prima fase di purismo razionalista degli anni trenta, tende ad affermarsi una tendenza che si potrebbe definire "culturalista", e che vede nell'intreccio tra modernità e tradizione recuperando quindi in modo precoce, rispetto ad altri contesti regionali o nazionali, i linguaggi dell'architettura alpina storica il corretto modo di costruire in ambiente alpino. Differente inoltre il grado di diffusione e di successo di queste due esperienze. Mentre l'architettura alpina svizzera contemporanea, a partire dal fortunato caso della cappella realizzata da Peter Zumthor a Sogn Benedegt (fig. 1), è oggetto di attenzioni da parte della critica e della pubblicistica internazionale, le realizzazioni in ambiente alpino dell'Italia nord-occidentale assumono rilievo essenzialmente a livello locale e nazionale, configurandosi come un tipico esempio di regionalismo. Infine diverso risulta essere il quadro complessivo in cui vengono a inserirsi questi progetti e realizzazioni. Mentre nell'Italia nord-occidentale ha prevalso un modello di trasformazione e di sviluppo della montagna fortemente incentrato sulle seconde case e sul turismo invernale, in Svizzera le cose appaiono essere assai differenti, con politiche di tutela e sostegno delle popolazioni autoctone e del paesaggio rurale tradizionale, e di diversificazione degli usi del territorio alpino, visto del resto come simbolo dell'identità nazionale.
Quella che qui di seguito si vuole tentare è una sorta di traversata
tra alcuni progetti particolarmente emblematici e significativi realizzati
recentemente sulle montagne della Svizzera e dell'Italia nord-occidentale.
L'intento è quello di mettere in evidenza i diversi modi con
cui queste architetture affrontano e concettualizzano il tema del progetto in
ambiente alpino, in relazione a questioni nodali come quelle
del paesaggio, del linguaggio, della storia, della cultura e dello sviluppo
locale, della tecnica.
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