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Pagina 9
[ inizio libro ]
Amerigo Ormea uscí di casa alle cinque e mezzo del
mattino. La giornata si annunciava piovosa. Per
raggiungere il seggio elettorale dov'era scrutatore, Amerigo
seguiva un percorso di vie strette e arcuate, ricoperte
ancora di vecchi selciati, lungo muri di case povere, certo
fittamente abitate ma prive, in quell'alba domenicale, di
qualsiasi segno di vita. Amerigo, non pratico del
quartiere, decifrava i nomi delle vie sulle piastre annerite
- nomi forse di dimenticati benefattori - inclinando di lato
l'ombrello e alzando il viso allo sgrondare della pioggia.
C'era l'abitudine tra i sostenitori dell'opposizione
(Amerigo Ormea era iscritto a un partito di sinistra) di
considerare la pioggia il giorno delle elezioni come un buon
segno. Era un modo di pensare che continuava dalle prime
votazioni del dopoguerra, quando ancora si credeva che col
cattivo tempo, molti elettori dei democristiani - persone
poco interessate alla politica o vecchi inabili o abitanti
in campagne dalle strade cattive - non avrebbero messo il
naso fuor di casa. Ma Amerigo non si faceva di queste
illusioni: era ormai il 1953, e con tante elezioni che
c'erano stare s'era visto che, pioggia o sole,
l'organizzazione per far votare tutti funzionava sempre.
Figuriamoci stavolta, che si trattava per i partiti del
governo di far valere una nuova legge elettorale (la
«legge-truffa», l'avevano battezzata gli altri) [...]
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