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| << | < | > | >> |IndiceLA CONCA PERDUTA 13 IL FOTOGRAMMA DI UN MOMENTO 17 IL VECCHIO GIOMEIN 20 CORTOCIRCUITO DI VALORI 24 LA NEVE È MODERNA, LA FATICA NO 28 LE ARCHITETTURE DELLO SCANDALO 32 VILLAGGIO FINTO, CITTÀ VERA 37 NON È COLPA DEL CERVINO 43 CERVINIA AL TEMPO DELLA CRISI 47 UN ANTICIPO DI LASSÙ 52 LA RICOMPOSIZIONE DEL DISORDINE 57 UN'IMMAGINE DI QUAGGIÙ 64 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Per una delicatezza del destino, il poeta alpinista Guido Rey morì l'anno preciso in cui la strada e le automobili raggiungevano il Breuil. Non fece in tempo ad assistere al sacrilegio, gli fu risparmiata la visione del nastro di terra battuta che - con apparente innocenza - si insinuava nella conca muta, legando i primi edifici e sciogliendo l'ultimo sogno romantico.Guido Rey non avrebbe saputo tollerare un Cervino assediato dal cemento e dai motori, perché il Cervino di Rey era la proiezione - cittadina, certamente - della purezza divina sopravvissuta alla miseria umana, creazione soprannaturale - conquistabile, sì, ma senza superbia - di un dio artista, scultura di pietra modellata dai venti, materializzazione del sublime: «Non vi ha monte - scrive nel capolavoro di letteratura alpina Il Monte Cervino, 1904 - che prenda ai nostri occhi un'espressione così personale; siamo tentati di cercargli una fisionomia come ad un uomo o ad un mostro, di credere che in quel capo enorme sia un pensiero, e che si legga sulla fronte di pietra l'espressione della sua alterezza e della sua forza; e per poco che le nubi, correndogli intorno, secondino con l'illusione ottica la nostra fantasia, ci sembra di vederlo muoversi, reclinare il capo in atto triste, o raddrizzarlo con ardimento di Titano, e si pensa con terrore come sarebbe potente se si movesse davvero». Guido Rey sapeva perfettamente che il Cervino non è eterno, ma non poteva ammetterlo. Troppo triste il pensiero che anche il Titano fosse mortale. Eppure la montagna più ammirata e desiderata del mondo è solo il risultato di crolli immani, nient'altro che uno stadio transitorio dell'incessante lavoro di sgretolamento del gelo e del disgelo, destinato infine a ridurre in polvere anche la mitica Becca della Valtournenche per restituirla al mare. Come capita alle montagne, anche il Cervino è diventato tale per sottrazione di pietra, si può dire, attraverso un processo distruttivo. Semplicemente, per un'altra carezza del destino, la specie umana si è spinta sulle Alpi quando il Cervino con tutta probabilità presentava una delle forme migliori, di piramide a quattro facce, anche se aveva già perso la punta e denotava irregolarità pronte ad alimentare le ambizioni degli alpinisti: il Naso di Zmutt, il Picco Muzio, gli strapiombi di Fürggen. Nessuno sa come fosse la Becca cinquanta milioni di anni fa, nessuno può prevedere come sarà tra cinquanta milioni di anni. Forse non ci sarà più. «Incominciavo a sentire nell'animo la vicinanza del fantasma nascosto dietro le rupi, che stava per riapparirmi. Giungemmo infine sul pianoro del Breuil. Il Cervino stava dinanzi a noi, lo si abbracciava tutto di uno sguardo, da capo a piedi. Eravamo in casa sua.» Con queste parole Rey imposta la più nitida descrizione della conca del Cervino prima di Cervinia. La fotografia si sviluppa così: «Il Breuil è un vasto pianoro largo cinquecento e lungo duemila metri, che termina alle basi del Cervino. Nel mezzo serpeggia il Marmore, torrentello grigio di acque de' ghiacciai, fra marcite di erbe e rovine di sassi; a mano sinistra di chi sale si stende una cortina di monti aspri e dentellati che dal Château des Dames va fino al Dente d'Hérens. Brani di ghiacciai precipitano rotti dalle pareti erte e liscie, trattenuti per un miracolo di equilibrio. La scogliera si abbassa rapidamente al Colle del Leone e di là, con un ultimo slancio, si solleva al punto culminante, il Cervino; nella selvaggia chiostra di rupi e di ghiacciai questi innalza nel cielo il suo cono, "solo come un pensiero superbo". Poi la montagna s'acqueta come se fosse stanca di salire, e lo sfondo a destra della scena è tutto una calma di bianche vette ondulate; sembra che la natura abbia esaurito le sue asprezze sull'altro fianco della valle». | << | < | > | >> |Pagina 43Meglio un villaggio "finto" o una città "vera"? Ogni buon gusto, ogni buon senso, e soprattutto le analisi dei flussi turistici portano a rispondere che, certo, Zermatt non sarà più il presepe di legno dell'Ottocento, ma resta un luogo delizioso e accogliente, e il Matterhorn visto di là risponde ancora ai sogni dei visitatori, mentre quello di qua è nascosto dai casermoni e tritato dalla cultura consumistica, che con la Becca ha poco da spartire. Nascosto o esibito a vanvera, il Cervino è nudo. Un occhio più esperto e disincantato, però, scorge a Zermatt (così come a Grindelwald, a Garmisch o a Ortisei) i segni di un occultamento, o di una " folclorizzazione", così ben orchestrati da confondere sia il nativo sia il forestiero; il processo di conversione a fini turistici è talmente avanzato e raffinato che ormai si stenta a distinguere il carattere del luogo dallo stile ricreato a uso e consumo esterno, e il valligiano, come già osservava il profetico Alphonse Daudet nel Tartarin sur les Alpes, è costretto a recitare una parte che non gli appartiene per soddisfare la richiesta di "rustico", di "romantico", di "naturale", che sale dalla città. Un po' come il povero camoscio di Tartarino, che di giorno simula la parte del selvatico e la sera scende di nascosto a bersi la sua ciotola di vino caldo, sulla veranda dell'albergo intitolato "Al camoscio fedele".
Procedendo con le metafore, se Zermatt è la
ricreazione per turisti della valle e del villaggio perduto, in risposta a
quella nostalgia biblica che forse ci porteremo dentro per sempre, Cervinia è un
pezzo del nostro essere qui e ora, costruzione astorica e delocalizzata come
ogni luogo-nonluogo della contemporaneità. Simulazioni entrambe, certamente, ma
la prima in ossequio al mondo di ieri, o al meglio che di quel mondo sappiamo
ricreare per denaro e per gioco, la seconda in sintonia con
il mondo di oggi, complessa e sfacciata sovrapposizione di pulsioni, riti, miti
che nascono e muoiono ai piedi del Cervino, così come
le forme iterate di legno, pietra e cemento che
azzardano sguardi senza affetto verso il cielo,
e già sì decompongono.
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