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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione 11 La teleferica 14 Il conte e il montanaro 21 La festa della guerra 26 Le Tre Sorelle 31 Il gran rifiuto 35 La fine delle illusioni 40 Vita in parete 45 La grondaia 50 Un treno per le Dolomiti 55 Vigilia 59 Nebbia 64 Roccia abitata 68 Pomauria 73 Gli inferi 78 Gli uomini del calcare 82 L'uomo del granito 86 Vuoto 91 Il guado 95 La cresta 101 Presagi 105 Il cielo capovolto 109 Il pojàn 114 Il Castello 117 Notte senza luna 123 Il soldato muto 126 Dolasilla 131 Cortina 135 La Nemesis 139 L'inverno 143 Natale 148 1917 152 Il deserto 157 L'America 162 Il fulmine 169 Letti bianchi 175 Valtournenche 181 Conclusione 193 Ringraziamenti 195 Principali fonti bibliografiche |
| << | < | > | >> |Pagina 7La guerra La guerra è una soluzione atroce e stupida, sempre, ma quasi un secolo fa si è combattuta una guerra forse ancora più atroce e ancora più stupida di tutte le altre: la guerra delle Alpi. L'hanno subita dei giovani condannati fin dal principio alla morte bianca o alla pazzia: sul mare di neve dell'Adamello, dove i più fortunati sopravvissero per mesi e mesi in tane di neve, sulle sottili creste del Gran Zebrù e del San Matteo, sugli scivoli ghiacciati del Tresero, e poi via via sempre più a est, fin dove nasce il sole e i tramonti di ametista baciano le crode a strapiombo delle Dolomiti. Lì i rocciatori armati divisero il vuoto con l'aquila, il camoscio e le valanghe. Questo libro è del 1998: sono passati più di dieci anni e non aggiungerei una parola. Come allora so che invece di occuparmi della carneficina senza speranza consumatasi tra il 1915 e il 1917 sulle Dolomiti di Cortina - ora che oltretutto gli ultimi testimoni se ne sono andati -, avrei potuto dedicarmi a una guerra "intelligente" del Duemila, una di quelle missioni chirurgiche nei punti malati della Terra dove i morti si vedono solo in televisione, non creano scandalo, non puzzano e non fanno più piangere nessuno. Invece ho scelto un conflitto vetusto e terroso, dai ritmi lenti, lentissimi, quasi imbalsamati, quando la tecnologia e gli effetti speciali hanno ormai trasformato le battaglie in spettacoli virtuali, e le si regala ai bambini per Natale, le guerre, perché se le giochino sul computer. La Grande Guerra sulle Dolomiti è stata uno scontro medievale tra montanari della stessa cultura, della stessa pelle e della stessa religione. Per due anni e cinque mesi ci si è ammazzati tra vicini di casa per un pezzo di terra (o di roccia) così inutile e inabitabile che le valanghe si portavano via i vincitori, e oggi gli alpinisti salgono, firmano il quaderno di vetta e scappano a valle. Per due terribili inverni gli alpini e i cacciatori del Kaiser hanno resistito all'istinto cameratesco di darsi una mano, invece di spararsi, per far fronte all'angoscia della neve e all'urlo della tormenta, come fanno da sempre i montanari di fronte al pericolo. Scriveva Cesare Battisti pensando agli alpini: «Dove un borghese, un cittadino, muore di sete, il montanaro, frugando con l'occhio, scopre la sorgente. Dove altri si accascia nel dubbio di scegliere la strada, il montanaro procede sicuro, scruta le peste dei viandanti e degli animali; se c'è pericolo della valanga, subito intuisce quale è il posto atto al riparo; se la tormenta imperversa, sa come evitare l'assideramento». Il codice cavalleresco dei combattenti nasceva proprio dal rispetto per l'abilità alpinistica del nemico e per la sua familiarità con la montagna; se uno straniero affrontava una parete difficile, prima lo si ammirava e poi gli si puntava addosso la mitragliatrice. Il sentimento di stima e di complicità superava la legge aberrante della guerra, e in qualche modo la riscattava. Questò non succede nelle guerre etniche e religiose del nostro tempo, in cui l'odio è così radicato da annientare ogni compassione, non è successo nei cento conflitti ideologici del secolo scorso, quando la fede politica ha giustificato torture e massacri in ogni angolo del mondo, e meno che mai potrà succedere nelle agghiaccianti guerre elettroniche di domani, dove il nemico non sarà più una persona ma solo un punto luminoso che lampeggia sullo schermo. E d'un tratto non lampeggia più. Rispetto ai barbari assalti all'arma bianca degli alpini, che si infilzavano con le baionette come i patrioti garibaldini dell'Ottocento, le nostre guerre sembrano l'espressione di una civiltà più evoluta: con incantesimi virtuali le abbiamo lavate dal sangue e con contorsionismi morali le abbiamo profumate e infiorate di giuste cause. Ma non siamo migliori dei nostri nonni, perché per quanto atroce e per quanto stupido fosse uccidersi un secolo fa per un pezzo di cresta raschiata dal vento, era sempre meno disumano che farlo nel nome di una presunta verità universale o nascosti dietro il comando digitale di un missile. Era più leale. Questo libro racconta appunto di un rapporto leale nato tra il 1916 e il 1917 sulle Dolomiti in fiamme, dove a dispetto di ogni logica umana si incontrò più compassione che in tempo di pace. Succede sempre nei frangenti estremi: gli uomini scoprono la propria anima. La Grande Guerra è stato un uragano che ha spazzato milioni di destini già scritti, un rapace che ha artigliato i cuccioli di un secolo troppo giovane, un'ombra immensa che si è ingoiata i progetti di una generazione, eppure chi ha combattuto da alpino sulle Alpi non si è mai più sentito vivo come allora. Joseph Gaspard e Ugo Ottolenghi conte di Vallepiana combatterono insieme per un anno sulle Tofane. Erano un'umile guida valdostana e un aristocratico rampollo fiorentino: due uomini più diversi non si sarebbero potuti incontrare per le vie del mondo. In quella guerra ancora fatta a mano, dove i soldati e gli ufficiali condividevano la corda e le notti all'addiaccio, Gaspard e Vallepiana misero insieme le loro competenze alpinistiche, la loro pazienza, la resistenza, la pietà, il senso dell'onore, e lavorando fianco a fianco come non sarebbe mai potuto succedere in nessun altro luogo e in nessun'altra circostanza, alla fine si scoprirono fratelli. La neve bruciava, i ragazzi andavano a morire, e intanto nasceva un'amicizia paradossale: un'amicizia di guerra. E.C. | << | < | > | >> |Pagina 11Il soldato Joseph Gaspard stava accasciato come un pinocchio senza fili nel cassonetto ondeggiante della teleferica, a quattrocento metri da terra, e i suoi compagni sapevano di calare un cadavere ormai, non più una persona. Le quattro rotelle senza freni della funicolare di guerra cigolavano sul cavo, un cavetto sottile come la sua vita che se ne andava via, mentre il cielo si schiariva un'altra volta e le Dolomiti riprendevano il loro indescrivibile colore. Dopo tutto la tempesta era passata in fretta come era venuta e ora la montagna scintillava nuova nuova, carica di neve, di promesse e di luci, perché contro ogni apparenza i fulmini e la grandine della terribile notte trascorsa annunciavano la fine dell'inverno. Li conosceva bene, Gaspard, quei temporaloni di maggio: quando l'inverno incarognito dà fuoco alle ultime munizioni ma non è altro che un generale sconfitto. La montagna divisa in due mondi: il gelo e la speranza. Magari in valle tuona e fulmina per ore, mentre appena più in alto nevica e tira vento; la terra dissodata di fresco si fa triste e dura che sembra ritornato Natale, eppure il montanaro aspetta con fiducia perché ha già visto il sigillo di primavera. Una mattina, una luce nuova ha bucato le nuvole cariche di pioggia e gli uccelli - che barometri gli uccelli! - si sono rincorsi come bambini tra i rami del larice cantando all'aurora. Il gelo, la speranza... Un gracchio volteggiò senza peso sopra la teleferica mentre una valanga di neve fresca si staccava dall'imbuto della Tofana di Rozes - la Tofana Prima -, infilandosi silenziosa come una biscia in un canalone sporco di detriti. «Fortuna che le baracche sono al sicuro» pensò per deformazione professionale la guida di Vaitournenche: d'istinto aveva percepito il fruscio della valanga e le palpebre si erano spalancate per un istante sotto le ciglia carbonizzate. Le bende lo avvolgevano come un sudario. Gli avevano lasciato la bocca libera per respirare e aspirava avidamente l'aria fredda del mattino. La brezza lo accarezzava nella sua culla di legno. Dormi soldato Gaspard, dormi... Nell'anticamera del coma vide scorrere lo scenario della guerra. Non gli serviva guardare, se li portava dentro i profili delle montagne: a sinistra la segreta Val Travenanzes, ancora in ombra, oltre le pietraie del Masarè e la fortezza della Nemesis; alle sue spalle, dietro la Tofana, la cresta mozza del Castelletto e i ghiaioni martoriati dalle granate fino alle rocce rosse di Forcella Lagazuoi; a destra le Cinque Torri, l'Averau, le foreste di Val Costeana; in fondo il Sorapìss e l'Antelao, e poi il Pelmo, più in fondo ancora, come un trono di pietra. «Bombardano Cortina...» gli martellava in testa la canzone degli alpini, «dicon che gettan fiori...» Ce l'aveva negli occhi la valle di Cortina, larga, dolcissima, tutta una pianura. Salendo in trincea aveva pensato «buon Dio, non sembra neanche di essere in montagna!» «E proseguendo poi, per Valle Costeana, siam giunti alla Tofana...» Una musica, un coro, il ritornello di ogni sera. Ma chi era che cantava? Si sentiva svenire, aveva tanto freddo, no no faceva caldo, e c'era già il sole. «Come luccicherà la Marmolada dopo la nevicata di ieri notte!» La magia del ghiacciaio, una gran nuvola bianca nel cielo del Falzarego, era la cosa più simile alle sue montagne. Pianse una lacrima di nostalgia e forse, per un attimo, si dimenticò anche del dolore. Solo un attimo, solo una lacrima. Poi il sole risvegliò il morso delle ustioni. La folgore che aveva fermato il suo cuore entrando dalla spalla sinistra e uscendo dalla scarpa chiodata, pareva ancora fumare dalla giacca di lana e dal povero corpo irrigidito; un tanfo di carne bruciata impregnava le bende e i vestiti. E Gaspard svenne di nuovo, proprio mentre la teleferica si rituffava nell'ombra e planava come un gracchio sulle praterie di Cortina. Il fuoco era passato dentro di lui e lui era passato attraverso il fuoco, ma i cecchini austriaci avevano capito e non avevano sparato neppure un colpo di fucile. | << | < | > | >> |Pagina 14Il conte Ugo Ottolenghi di Vallepiana e la guida Joseph Gaspard si incontrarono per caso sul ghiacciaio del Lys nell'inverno del 1913. Sì, tutto incominciò per caso, in una gelida aurora venata di azzurro e di rosa. Ugo Ottolenghi di Vallepiana era un giovane cresciuto all'ombra di Palazzo Vecchio, tra i privilegi e i comandamenti della gente per bene. Uno studente fiorentino di belle speranze, educato, colto e curioso, destinato agli studi legali o ai commerci. Finché non aveva ereditato da suo padre l'inutile arte della montagna e finché la montagna non aveva cambiato la sua vita. Già all'alba del secolo, nelle domeniche di primavera, il piccolo Ugo trottava tra i faggi e i castagni dell'Appennino dietro alle gambe di papà. Gambe lunghe, smisurate leve agli occhi di un bambino, eppure le sue gambette curiose tenevano il passo. Poi un'estate rubò la piccozza di casa e scalò la sua prima parete: un muro di tufo del Monferrato. Quando la famiglia Vallepiana si trasferì per la villeggiatura in Valle d'Aosta, tra i sipari himalaiani del Monte Bianco e le geometrie romantiche del Cervino, il ragazzo di pianura si trovò a un bivio del sentiero: da una parte l'escursione sotto la soglia dei ghiacciai, dall'altra la via per le montagne. Scelse il sentiero più ripido, si innamorò perdutamente delle scalate. A quindici anni aveva già salito la difficile Punta Budden sulle Petites Murailles, dal lato del Breuil, a diciassette aveva scalato il Cervino con la guida Ange Maquignaz, e a soli ventun anni si era permesso di percorrere senza guida l'infinita cresta del Brouillard al Monte Bianco. Un grande exploit. Nel frattempo si era iscritto all'Università di Pisa, facoltà di legge, ma Pisa era troppo lontana dalle Alpi, e la giurisprudenza era troppo noiosa. Un giorno disse che sarebbe andato a Monaco di Baviera per dei corsi di economia politica e partì con la passione di un carbonaro verso la mecca dell'alpinismo. A Monaco conobbe il leggendario arrampicatore austriaco Paul Preuss e divennero amici. Per un anno l'insaziabile Ugo navigò nelle galassie dell'etica e dell'economia, inanellò splendide ascensioni dal Tirolo all'Oberland Bernese, scoprì le bellezze dello sci alpinismo, alimentò la gran voglia di avventura e, suo malgrado, si rese conto che l'aria libera soffia sempre oltre le frontiere e che la retorica può soffocare gli uomini. Scrisse del suo amico Paul: «In un tempo allorché gli alpinisti, specie i maggiori, o almeno quelli che maggiormente pontificavano, erano spesso, sia pure ispirati dal sacro rispetto per la montagna, dei pedantissimi Padreterni, Paul Preuss è stato come un vento di allegra giovinezza che spazza via nebbie e Padreterni. Questi non glielo hanno perdonato.» Probabilmente, quando incontrò Gaspard sul ghiacciaio del Lys, Vallepiana aveva appena finito i suoi corsi in terra tedesca e rientrato in Italia aveva detto a Jean d'Entrèves e Paolo Michelotti: «Sapete che si può salire il Monte Rosa anche in inverno? Si può fare con gli sci. Forza che si va a provare noi tre!» Lo sci era la nuova magia dei cittadini che volavano sui campi di neve, e perfino sui ghiacciai. Anche per questo fu un incontro emblematico. Joseph Gaspard di Valtournenche non calzava gli sci; aveva nove anni più di Ugo e ne dimostrava quasi il doppio; non era nobile, non era ricco, non era nemmeno istruito, ma gli alpinisti di mezza Europa avevano cominciato a rispettarlo dopo la prima salita della leggendaria cresta del Fürggen al Cervino - il vecchio sogno di Mummery e di Guido Rey - e la traversata invernale del Monte Bianco, passando per la cima. Di lì a qualche mese sarebbe partito per l'Himalaya del Kashmir al servizio di Mario Piacenza, per scalare i settemila metri del Kun. La neve era alta sotto il Colle del Lys, neve inconsistente e ventata. Nell'algida luce dell'aurora invernale, Ugo e compagni intravidero tre puntini che galleggiavano nelle onde gelate. «Ve l'avevo detto che non si era soli! Guardate là, sotto la Punta Parrot: saranno appena venti minuti davanti a noi» disse Vallepiana, e accelerò l'andatura. «C'è gente che ci segue» disse Gaspard, e rallentò il passo. In questi casi le cordate assomigliano a due navi che si studiano prima dell'abbordaggio. Prima non sono altro che sagome indistinte, anonime silhouette inghiottite dalla montagna, ma c'è un momento, durante l'avvicinamento, in cui si delineano delle personalità, vuoi per l'andatura, vuoi per il modo di reggere la corda, vuoi per la foggia dello zaino o il moto basculante della piccozza. Così Vallepiana aveva riconosciuto un valligiano modestamente vestito che saliva serio e mansueto in testa alla sua cordata. Non alto ma solido nell'aspetto, il baffo autorevole, il passo regolare, l'uomo lo salutò con un cenno di incoraggiamento: «Buongiorno, come andiamo? Oggi fa poi ben freddo a quattromila metri!» I modi franchi ma garbati esprimevano una dura tempra da montanaro affiancata a una naturale signorilità di stile. La cantilena valdostana non celava sottofondi di superbia o di rivalità, anche se l'interlocutore era inequivocabilmente un alpinista di città e portava sul maglione il distintivo del Club Alpino Accademico, il cenacolo dei "senza guida". «Meglio il freddo della nebbia» replicò pronto Vallepiana, che con tono arguto accendeva di calore ogni conversazione. «Una volta mi sono perso su questo ghiacciaio, e non c'era verso di trovare il rifugio. Ci siamo messi a girare in tondo come delle trottole. Gira, gira, e si ritornava sempre nelle stesso posto. A momenti sa che si stava per scavare un buco nella neve e si pernottava là sotto, in un crepaccio!» E Gaspard: «Lo so, lo so, è capitato a tanta gente. Si parte con il bel tempo e tutto sembra facile, poi basta un nuvolone lassù sul colle e ci si ritrova in alto mare. E allora si balla ben, accidenti se si balla! Ma oggi il tempo tiene, oggi non ci sono problemi.» «Andate anche voi su alla Gnifetti? Possiamo venire su con voi?» «Certo, certo, andiamo su insieme. Non correte troppo però, con quegli assi del diavolo!» Salendo alla capanna Margherita, Vallepiana seppe che Gaspard era una guida del Cervino; in discesa lo distanziò con mirabolanti curve nella neve farinosa, danzando come Icaro sulle nuvole del Paradiso; tornato a casa scoprì che Gaspard era una grande guida, lo stesso Gaspard della cresta del Fürggen. Ma ancor più che il professionista e l'alpinista lo aveva impressionato la persona, lo avevano colpito la sua semplicità e la sua determinazione. Con un uomo così, si era detto il giovane Ugo, si può andare tranquilli da qualunque parte. | << | < | > | >> |Pagina 26Le Tofane sono un mondo a parte. Soltanto chi conosce le bizzarrie della dolomia può immaginarsi un regno così multiforme, dove la pietra si è mostrata in tutte le fantasie del creato. Il tempo ha lavorato da magistrale artefice i calcari teneri e malleabili venuti su dal mare, e ne ha ricavato ogni possibile rappresentazione: pareti verticali e strapiombanti, creste frastagliate, altipiani sospesi, sabbie e ghiaioni, blocchi ciclopici, lisce lastronate, spigoli, torri, torrioni, fortezze, gole, camini, anfratti, forre, canali. I colori, esclusa la vegetazione, vanno dal bianco accecante al vinaccia, passando per un'infinità di grigi, di gialli e di rossi, e ogni sfumatura corrisponde a una precisa circostanza geologica: il giallo e il rosso nei luoghi più friabili, a testimonianza dei grandi crolli, il grigio per i lastroni levigati e ossidati dall'acqua, il bianco sulle scogliere orizzontali che fasciano la base delle grandi pareti. Le Tofane sono tre: di Rozes, di Mezzo e di Dentro. Qualcuno le chiama con i numeri - Prima, Seconda e Terza Tofana -, ma i nomi sono più belli. La Tofana de Inze si chiama così perché sta dentro, o dietro, immaginando di guardarle da Cortina. La Tofana de Mèso è la più alta: 3244 metri. La Rozes è la più famosa grazie alla parete sud, proprio in faccia alle Cinque Torri: Ròzes nel dialetto ampezzano non vuoi dire "roccia" come sarebbe facile supporre, ma viene da Ròzo, cioè da "ronzino", perché sui pascoli di Rozes un tempo correvano i cavalli. In tempo di guerra gli antichi toponimi vennero arricchiti dalla fantasia dei combattenti, così la postazione tirolese sul pendio della Tofana Prima divenne il Teschione, la Tofana Seconda la Rocca della fame, la Tofana Terza la Rocca del guardiano, il Castelletto la Roccia del terrore. Perfino gli anonimi massi della Forcella Col dei Bòs, di Val Travenanzes e del Masarè si colorarono di appellativi mitici: il Sasso spaccato, il Sasso a ventaglio, il Sasso triangolare, il Sasso cubico, il Sasso misterioso, il Sasso del comando. La geografia della guerra si sovrappose alla scienza dei geografi e alla superstizione dei montanari. Le tre Tofane sono un pianeta a parte, si diceva. Le creste spartiacque si allungano dalla Valle del Falzarego fino alla bassa Valle di Fanes, tra le luci calde del Cadore e le foschie nordiche del Sudtirolo, vegliando sulle magre acque del rio Travenanzes e su quelle ancor più magre di Ra Valles. Cominciando da nord, oltre Cima Formenton, le tre sorelle si alzano dalle foreste di Fanes come un immenso pachiderma rivestito dai mughi e inciso dalle cascate. È un terreno ostile e selvaggio, selva e montagna insieme. | << | < | > | >> |Pagina 78Nel camino le cose andavano molto diversamente. Gaspard e Vallepiana avevano provato di nuovo a forzare lo strapiombo, ma erano stati respinti dalle difficoltà e dal vuoto. Un vuoto totale, ossessivo, paralizzante. «Sarà che non siamo abituati...» si era giustificato Ugo. «Bisogna che ci abituiamo al più presto» aveva risposto Joseph. Ora bisogna precisare che all'avvento della prima guerra mondiale stavano profilandosi due scuole alpinistiche in Europa: la scuola degli occidentalisti e quella degli orientalisti. I due archetipi risalivano al simbolo del granito e al simbolo del calcare, perfetta dicotomia del mondo alpino, e non solo minerale. Paesaggi diversi generano gente diversa. I montanari del granito, partoriti in valli incassate e isolate, erano abituati a guadagnarsi la terra con una vita in salita, e a barattare la fragile appropriazione con i capricci dei ghiacciai. Gente chiusa, testarda, tradizionalista e fiera, interpretavano l'alpinismo con spirito calvinista, come un travaglio di conquista. Ogni cima pareva sottomessa al riscatto di una colpa primigenia, attraverso un rito di pazienza e di sacrificio, e Dio sa se non ci vuole costanza a salire per due giorni tra fantasmi di ghiaccio verso la chimera del Monte Bianco, o a scavalcare il Cervino, mito di virilità, su due ali di gneiss raschiate dal vento. I monti di calcare sono un'altra cosa. Le valli sono più aperte, addolcite dagli altipiani, e le pareti si alzano sopra un tappeto di pascoli e di conifere. Pace e vertigine si toccano, si tengono per mano. Anche la gente è più aperta, più curiosa, più disponibile alla novità, persino all'innovazione. I grandi orizzonti aiutano ad aprire gli occhi. Per questo sulle pareti di calcare, dal Tirolo alle Dolomiti, l'arrampicata era andata avanti a briglia sciolta. C'era spazio per tutti, e tanta gioia di vivere. Così il rigido purismo di Paul Preuss aveva incrociato i trasgressivi funambolismi di Tita Piaz, e Preuss e Piaz si erano indirizzati lettere come due innamorati offesi, mentre a nord delle Alpi, con wagneriano furore, Eugen Guido Lammer gridava allo scandalo per la profanazione del chiodo: «Lo scalatore comincia ad assicurarsi per mezzo di anelli e fittoni, ed elude quindi il pericolo, ingannando con ciò il suo intimo sentimento e trasformandosi con questo trucco in un secondo di cordata, che può precipitare solo di qualche metro. Oggi lo scalatore solitario è rimasto l'unico vero cavaliere, che combatte con probità col monte nel buon vecchio stile.» Malgrado Lammer, malgrado Sigfrido, malgrado Nietzsche, gli alpinisti proseguirono nel loro gioco innocente e perfezionarono l'uso del chiodo. Nell'estate del 1913 Hans Fiechtl e Otto Herzog scandalizzarono i conservatori tedeschi chiodando la parete del Wetterstein dove Preuss e Piaz erano tornati indietro. Nel frattempo l'austriaco Hans Dülfer diffuse un magico aggeggio scoperto da Herzog: il moschettone. Era un ferro miracoloso usato dai pompieri. Con il moschettone lo scalatore non avrebbe più dovuto slegarsi dalla corda per infilarla negli anelli dei chiodi, ma gli sarebbe bastata una leggera pressione del pollice: un piccolo scatto, e via. «Trucchetti da acrobati!» urlarono gli sdegnati puristi. Poi andarono a comperarsi i moschettoni. Il povero Dülfer morì in combattimento nel 1915, a ventidue anni. La guerra aveva brutalmente barbarizzato ogni aspirazione giovanile, cancellandone il senso, la memoria, il domani. I migliori alpinisti europei morivano in trincea, forse a duecento metri di distanza, mentre sul fronte italiano i rocciatori alpini ignoravano i loro insegnamenti e i loro sogni. Combattevano contro i maestri della propria arte, e non lo sapevano. Tutto si era alterato e confuso nello stordimento nazionalistico che faceva scrivere ai dirigenti dell'Alpenverein: «L'alpinismo fu una scuola dura e seria in preparazione della guerra. La piccozza e lo scarpone sul campo di battaglia diventano importanti come il fucile e la baionetta. Gli ideali che inducono l'alpinista a impegnare la sua vita non sono forse gli ideali di un combattente? E non conosce anche lui, come il guerriero in battaglia, l'intrepido coraggio e l'intensificarsi del senso della vita che raggiunge il suo apice proprio di fronte alla morte?» La Società degli Alpinisti Tridentini, l'altra scuola di guerra, faceva eco con le stesse parole («si videro allora i nostri giovani, come colpiti da una voce divina, scotersi, accettare la lotta, lanciarsi a capo fitto nella battaglia»), anche se molti alpini arrampicavano ancora come nell'Ottocento: una corda alla vita, un sorso di grappa, piede fermo e muscoli da boscaiolo. Per fortuna loro la guerra rendeva lecito ogni compromesso, e piano piano le Dolomiti, solitarie e selvagge dal tempo della creazione, erano state coperte di fittoni, chiodi, cavi e ferramenta. Il vuoto di milioni di anni si era improvvisamente riempito di uomini e attrezzi medievali, tutti avevano scordato le ragioni dell'alpinismo, e un esercito di carpentieri era pronto a rendere domestico ogni itinerario. Purché qualcuno aprisse la via. | << | < | > | >> |Pagina 82«Riproviamo domani» aveva detto Gaspard. Ed era il terzo giorno consecutivo. Gaspard veniva dal paese del granito. Non dal protogino del Monte Bianco, il meraviglioso granito rosato che ha dato un corpo alle guglie di ametista, ma da quella moltitudine di rocce meno nobili, eppure incredibili nella loro architettura, che compongono lo scheletro del Cervino e delle Grandes Murailles: gneiss, serpentini, gabbri, pietre verdi. Le pareti di casa sua erano sgretolate, rotte, graffiate dai sassi e dal ghiaccio; l'arrampicata quasi mai verticale, e strapiombante mai. L'ascensione consisteva prima di tutto in una prova di resistenza alla fatica, al freddo, al vento, all'insonnia, al mal di capo, alla quota. Gaspard diceva sempre ai suoi clienti ansantì, tremanti e stanchi: «Venga su ancora un pezzetto, che poi ci mangiamo una prugna e ci beviamo un sorso di caffè.» E quando il pezzetto era fatto, Gaspard ricominciava: «Un altro pezzetto Mario (o Maria), lì sopra c'è una piazza d'armi, vedrà, lì facciamo colazione.» Così il cliente saliva senza rendersene più conto, e stordito si arrampicava per ore dietro agli scarponi inesorabili della sua guida, finché l'orizzonte si allargava come una carta geografica, il sole baciava la roccia e la roccia svaniva. Allora Gaspard allentava finalmente la corda e diceva forte: «Bravissimo Mario (o Maria), sa che è stato proprio in gamba.» Poi legava la corda alla croce e si metteva tranquillo a fumare. Gaspard era figlio del granito. Arrampicava all'antica. Per scalare la cresta del Fürggen lui e l'altro Joseph, del ramo dei Carrel, erano ricorsi a due piramidi umane e a un lancio di corda stile cowboy, quando sopra la seconda spalla la cordata si era bloccata contro un muro di pietra grigia, verticale e senza appigli, intorno alle otto di mattina. La giornata non era cominciata bene: un'ora prima Gaspard si era tirato addosso un macigno grande come un tacchino, e quando il masso era rotolato via un dito era mezzo maciullato e un ginocchio tutto tumefatto. «C'est rien!» aveva gridato ai compagni, avvolgendosi la mano ferita nel fazzoletto e ripartendo immediatamente con i calzoni strappati, il ginocchio di fuori e una scia di sangue sulla neve. Più in alto confidava a Carrel: «Qui cadono pietre, Jean Joseph.» «Oh, hanno tutto il posto per passare!» Poi incontrarono il muro grigio, che sembrava invalicabile. Le due guide confabularono in patois e dissero in coro a Piacenza, il cliente: «Montez monsieur, montez vous.» Piacenza non capiva, perché era abituato ad andare sempre dietro, ma capì quando Carrel fece da somaro, si ancorò alla parete come meglio poteva, e strinse i denti mentre Gaspard gli saliva sulle spalle con i chiodi; poi Piacenza salì sulle spalle di Gaspard, mise il naso sulle rocce di sopra e in quel modo scalarono la cresta del Fürggen. Tofana di Rozes, camino sud ovest, giugno 1916. Se ora Joseph si fosse fatto somaro a sua volta e avesse detto a Vallepiana «montez vous», il numero non sarebbe servito a niente. Avrebbero guadagnato un metro, forse due, ma la gola buttava in fuori per almeno trenta metri e vista così, nella luce sfuggente del mattino, sembrava ancora più aggettante. Il vuoto era nauseante. Non c'era ancora il sole e bisognava prendere tempo. Per prima cosa Joseph allargò la piazzola ingombra di rocce e di neve dove avevano posato le mazze e i chiodi. Raschiò via la neve, spostò le pietre più grandi, costruì un piccolo parapetto. Dopo mezz'ora la cengia era libera e pulita per metà, e l'altra metà ospitava un piccolo vulcano di neve nera, accumulata dal vento e compattata dalle piogge. Finito il lavoro disse: «Proviamo a destra.» Appese alla cintura due punte uncinate, provviste di un anello artigianale a cui avrebbe assicurato la corda in assenza dei moschettoni. Nello zaino infilò una pesante mazzetta da muratore con il manico di legno spesso, e la collegò in vita con un cordino. L'importante, pensava, era non buttar giù pietre, ma per scrupolo volle che Vallepiana si riparasse sotto gli strapiombi. «Così non posso più vederla!» protestò Ugo. «Non fa niente, non fa niente» insistette Joseph con un terzo chiodo in fondo al pugno. Mentre si toglieva la giacca per sporgersi su una crepa e martellarvi dentro il chiodo di sicurezza, la montagna tuonò e la roccia tremò che pareva un terremoto. Vallepiana ritirò istintivamente la corda verso di sé, e Gaspard si abbassò sulla terrazza coprendosi il capo. Ma non cadde nulla. Ritornò il silenzio. «Non sono sassi - dedusse Ugo di lì a poco -, hanno fatto scoppiare un'altra mina nella galleria.» Gaspard allora ritornò paziente sui suoi passi, riprese il chiodo, riprese la mazzetta, e con colpi dosati cominciò a battere sul ferro. Un colpo, due colpi, una mano, due mani, un respiro, un altro colpo. Il chiodo si adattò alla fessura ed entrò docile, ferendo appena i bordi di calcare. «Tiene bene» disse la guida. Guardò Vallepiana, guardò il chiodo, e strisciò come un gatto sulla parete. Per dieci lunghissimi minuti Ugo vide soltanto la corda che scorreva lenta, angosciosamente lenta oltre il bordo dello spigolo, e il sole che stillava nuovo nuovo dalla cresta della Tofana di Rozes distribuendo pagliuzze di luce. | << | < | > | >> |Pagina 105Alle tre e trenta precise dell'11 luglio 1916 il Castelletto saltò in aria. Cominciava appena ad albeggiare quando la Val Travenanzes rimbombò come un budello infernale e il Lagazuoi riversò a valle l'eco spaventosa della detonazione. Nelle case di Cortina gli ampezzani si svegliarono di soprassalto per non addormentarsi più. Un testimone ha scritto che non osò neanche scendere dal letto: «Un terremoto Madre Santa, era scoppiato il Falzarego!» I comandanti italiani, comodamente annidati sugli spalti dell'Averau, videro una colonna di fuoco sollevarsi contro il sipario grigio delle Tofane, e poi una nuvola enorme di temporale che cresceva, cresceva, cresceva, e man mano che gonfiava inghiottiva la montagna anche se il cielo era ancora punteggiato di stelle. Prima dello schianto l'alfiere Schneeberger stava sdraiato sulla sua branda in cima al Castelletto; da ore e ore cercava inutilmente di prendere sonno: «Le luci tremolano sulla tavola. Le candele si sono trasformate in moccoli. Si sta facendo giorno e il ritaglio di cielo nel riquadro della finestra sta diventando grigio. In un attimo scompare. Una mano di gigante mi afferra e mi scaraventa da qualche parte nel buio. Resto a terra, intorno a me un tuono fragoroso, incessante. La testa mi rintrona come se il cervello dovesse schizzar fuori. La parte anteriore del rifugio crolla, e dentro ritornano la notte e l'oscurità. Pensieri concitati: l'esplosione... già adesso... così presto... Lo scoppio e la fine. Il petto si stringe, mi stringe, riesco appena a respirare. L'aria è impastata di polvere e puzza di zolfo. Mi alzo, barcollo, esco di fuori. Il cielo è sparito. Una nuvola copre ogni cosa: le rocce e le baracche, il cielo e le stelle.
Sto lì perduto nel buio più assoluto, mentre
continua il sordo rimbombo delle pietre che franano a valle.»
L'esplosione devastò la selletta tra il Castelletto e la Tofana, proiettandone le rocce fino all'altezza della vedetta più alta (la vedetta di Hans Schneeberger), spazzando via le torri meridionali della cresta e scaraventando massi ciclopici nell'abisso. Una sentinella fu catapultata in aria come un tappo di spumante e venticinque uomini restarono sepolti per sempre nei loro rifugi. I massi però, invece di riversarsi sul rovescio della montagna come avevano previsto e sperato i comandi italiani, precipitarono nel canale sud e lo spazzarono con una cascata di pietre. Là dove correva la trincea si aprì un foro alto come un campanile, e dove c'era il colle si spalancò un cratere profondo quaranta metri. Dopo alcune ore, quando la nube di fumo finalmente si diradò, restavano in piedi solo il posto di vedetta austriaco, il ricovero degli ufficiali e le caverne scavate nel calcare della cima nord, con le armi leggere, un mitragliatore e un obice da montagna sopravvissuto. Tutto il resto era scomparso insieme alla testa decapitata dello Schreckenstein. Le cronache dell'apocalisse dicono che fu il sottotenente Luigi Malvezzi di Vicenza ad azionare i congegni dell'esplosivo. Fu lui il pilota di Hiroshima. Ingegnere meccanico-industriale di 34 anni, laureato a Milano, specializzato sul campo in Eritrea durante la costruzione della ferrovia Asmara-Keren, era uno dei due artefici della galleria elicoidale. Alla testa di operai instancabili e complici, aveva lavorato per mesi con il perito minerario Eugenio Tissi per forzare la montagna alle ragioni della guerra e per nascondere l'arma micidiale dentro al corpo del nemico. I due tecnici rappresentavano la modernità che si affacciava su una consuetudine bellica antica, fatta di sudore, di esperienza artigianale, di cavallereschi scontri alla baionetta, non di congegni, non di invenzioni, non di scorciatoie figlie della fantascienza. Rappresentavano il Novecento, ovvero la tecnologia al servizio della distruzione, l'inizio della diabolica collaborazione tra scienza, industria e sterminio. Dopo l'esplosione l'ingegner Malvezzi annotò freddamente nella sua relazione: «La mina ha risposto perfettamente, sia rispetto ai calcoli fatti, che agli effetti pratici, in tutto e per tutto, ad ogni nostra aspettativa.» Malvezzi sapeva che non scriveva il vero. Il generalissimo Cadorna tre giorni più tardi dichiarò con enfasi: «La sommità del Castelletto è saltata in aria seppellendo sotto le rovine l'intero presidio nemico.» Anche Cadorna non diceva la verità. La propaganda fu talmente efficace da trasformare in trionfo uno dei giorni più tristi e sventurati del conflitto. In poche ore la leggenda aveva già umiliato la realtà.
Più tardi venne la trasfigurazione, che oggi è scolpita su una targa
ammonitrice alla base della galleria:
| << | < | > | >> |Pagina 139Continua Mumelter: «Ai primi di dicembre di colpo venne la neve, la tremenda neve del 1916. Giunse il giorno di Santa Lucia con le sue spaventose valanghe. Comandavo, in quel tempo, la mezza compagnia a presidio della Forcella Fanis. La neve si accumulava ogni giorno, metro su metro, così che tutti i contatti telefonici furono in breve interrotti. Sopra di noi, dalla forcella, si staccavano blocchi di ghiaccio seppellendo i ricoveri costruiti uno sull'altro, sulla parete di roccia. Un giorno alle quattro udii improvvisamente il rombo di un tuono sopra il mio capo. Fu buio improvviso e provai una sensazione di vertigine, come se tutto cadesse in rovina. Non sapevamo a che profondità fossimo sepolti. Udivamo di tanto in tanto qualcosa scorrere cupamente sopra di noi: dovevano essere altre valanghe (...) Quando pensai che fosse giorno provai ad aprire uno spiraglio contro la parete e riuscii a proseguire lungo la roccia. Sia lodato Iddio! Cielo azzurro e freddo! Ma dove erano finiti i sei ricoveri dei miei uomini? Non c'era altro che un pendio bianchissimo, un bianco deserto.» Venerdì 13 dicembre, il "venerdì bianco", morirono sul fronte alpino diecimila soldati. Sulla Marmolada una valanga travolse cinquecento uomini e trecento soffocarono sotto la neve. La Strada delle Dolomiti fu interrotta da un'enorme valanga e per riaprirla gli alpini dovettero scavare una trincea alta più di quindici metri. Dopo tre giorni il maltempo concesse una tregua, ma il 17 riprese a soffiare la tormenta e la neve andò avanti per altre due settimane, cinque sei metri, una delle nevicate più straordinarie del secolo. Ognuno rimase inchiodato nella sua baracca cercando di rinforzare in qualche modo le assi del tetto e delle pareti per resistere alle zampate delle valanghe. Gli alpini e i cacciatori bloccati sulla montagna temporeggiavano nelle loro tane, dormivano a turni come in battaglia, sussultavano a ogni fruscio di slavina con l'incubo di restare soffocati nel sonno. Chi non si era preparato a resistere a lungo restò presto senza mangiare, altri rimasero senza legna, mancò l'illuminazione, crollarono i cavi delle teleferiche e delle linee telefoniche, i rifugi si ritrovarono isolati e ognuno dovette badare a se stesso. Certe notti il vento urlava così forte che non si riusciva nemmeno a mettere fuori la testa dalle baracche, anche se mancava l'aria e la fuliggine dei lumi incrostava la pelle di nero, fin sotto gli strati degli indumenti. Non ci si poteva muovere e non ci si poteva lavare; dopo due settimane di resistenza, i soldati sopravvissuti assomigliavano a maschere africane con gli occhi itterici. A parte il mangiare, il dormire e le interminabili partite a carte, c'era una sola distrazione: spalare la neve. I soldati facevano a gara per spalare, perché spalare significava scaldarsi le ossa, non pensare a niente, sentirsi vivi, far propria un'illusione di cambiamento. In quella spaventosa apatia bianca che era scesa sulla montagna spalare la neve era l'unico modo di esistere. Così, dove d'estate erano nate città sotto la roccia, d'inverno si scavarono città di neve e di ghiaccio. Dopo alcune settimane molti uomini erano crollati ammalati e assiderati. L'alimentazione povera di vitamine e l'acqua di fusione carente di sali li avevano indeboliti un poco alla volta, e ora non resistevano al freddo polare. Con il gelo le bronchiti degeneravano facilmente in polmoniti e anche una banale tonsillite portava danni irreparabili sui fisici debilitati e sugli spiriti depressi. I medici non avevano medicine e potevano fare ben poco per i ragazzi: erano impotenti come tutti, specie contro l'angoscia della solitudine. Intanto nevicava, e finché la neve non si fosse assestata non c'era modo di far scendere all'ospedale i malati gravi che in fondo al cuore sapevano già di essere condannati. I morti venivano seppelliti direttamente nella neve a fianco delle trincee, e così le baracche si svuotavano sebbene i fucili tacessero ormai da settimane e la guerra sembrasse congelata come le persone. Anche Gaspard soffriva la nostalgia di casa. Taceva e soffriva. Ogni tanto, nelle interminabili sere al lume della candela, si ritirava in un angolo della sua baracca e tirava fuori dalla tasca del cappotto un foglio di carta consumata che era stato una lettera di sua moglie: «Mon cher époux, mio caro sposo...» Era brava sua moglie a scrivere le lettere, con la calligrafia leggera e ordinata delle donne, tanti tondi e sbarrette in fila, con la stessa inclinazione, e con tutte le gambette a posto a fare da contrappeso. Era sempre lei a curare la corrispondenza con ì clienti-alpinisti nella stagione morta, o a convocarli nel cuore dell'estate quando lui, la guida, controllava il Cervino e dichiarava solennemente «la Becca è pulita, adesso si può andare.» Chissà quanta neve ci sarà stata ora sul Cervino? Almeno tre metri di neve, no, tira sempre vento sulla Becca, c'era senz'altro più neve sulle Dolomiti, faceva paura la neve che era venuta giù. Gaspard accarezzò la lettera con le grosse dita segnate dal gelo e ne ripassò a memoria le prime parole: «Mon cher époux, noi stiamo bene e non ci manca niente, qui la guerra si sente poco. Il piccolo Ferdinando cresce, ha compiuto un anno in ottobre. I bambini chiedono sempre di te...» Povera Delfina, doveva essere così difficile spiegare a les enfants dov'era il loro papà: «Lontano, lontano, dall'altra parte delle Alpi...» «Come sul sussidiario?» «Brava Leontina, dove finisce la pagina dell'Italia.» «Dove c'è scritto A u str i a?» «Lì vicino, Leontina, molto molto vicino.» | << | < | > | >> |Pagina 181La nostra pace, ottanta anni dopo Strana vacanza per un turista di guerra. Dietro ogni quinta di roccia le Dolomiti gli sputano in faccia un legno marcio, una feritoia, una baracca, una trincea, e ci sono posti dove, nel nome di una coscienza ecologica o nel disprezzo di una coscienza storica, ci si può riempire lo zaino di latte arrugginite e di fondine seccate dal sole. Ottant'anni infatti non sono bastati a smaltire il metallo delle gavette e il cuoio delle giberne, così che si cammina ancora sulle povere cose dei soldati, ci si inciampa nei fili spinati. Nella primavera del 1915 le Alpi erano un mondo quasi incontaminato, attraversato dai cacciatori di camosci, dalle guide e da pochi aristocratici che annotavano sui loro taccuini: «Sulla sommità del mondo riposa meglio l'uomo che ha faticato per raggiungerla.» Poi è scesa l'apocalisse e dopo due anni di guerra niente era più come prima: mancavano 180.000 uomini (un terzo se li erano presi il gelo e le valanghe) e l'ingegneria bellica aveva intaccato le montagne per sempre. Scrive Diego Leoni: «La guerra dolomitica fu l'estensione al massimo grado dell'alpinismo, dei processi di interazione tra uomo e ambiente e di riempimento, da parte della civiltà urbana, del "vuoto" della montagna. Da questo punto di vista, la guerra rappresentò il "pieno" assoluto: pieno di uomini, di tecnologie, di costruzioni, di potenziale distruttivo e costruttivo. Il soldato-alpino arrivò dove l'alpinista non era mai arrivato, usando chiodi, scale, scavando nella roccia e lì stanziandosi per mesi e anni: non solitario conquistatore, ma membro di una "tribù" che vantava decine di migliaia di appartenenti... La montagna cambiò volto: venne attraversata da sentieri, mulattiere, gallerie, strade (2500 chilometri di carreggiabili e camionabili sul fronte italiano; 400 solo su quello trentino), percorsa da teleferiche, occupata da baracche e fortificazioni. Opere e mezzi che imposero una diversa organizzazione spazio-temporale del territorio alpino, prefigurando, e preparandone, la conquista da parte del moderno turismo di massa... Montagne che avevano impiegato milioni di anni per formarsi vennero violate e trasformate nelle loro sembianze in una frazione di secondo; segni che avevano richiesto secoli per imprimersi nella materia furono tracciati in pochi anni, mesi, giorni.» Che posti, però, imbarazzato turista di guerra, che posti incredibili per una tragedia! Si sono ammazzati per due anni nel più puro incanto del creato, alloggiando sul Col di Lana che è il più dolce belvedere delle Dolomiti, oppure sul Monte Piana che è pianura e balcone: il balcone delle Lavaredo. Le Tofane e il Cristallo riempirebbero da soli la stagione di un alpinista, con le loro architetture misteriose e possenti, dispensatrici di panorami infiniti. I turisti di guerra parlano le stesse lingue di quella guerra: italiano e tedesco, tedesco e italiano. Sono pellegrini della storia, escursionisti del ricordo. Ogni tanto si incontrano intorno a una croce e sostano nel silenzio, come al cimitero di Valparola, al confine della foresta, dove le croci di legno sembrano radici e le radici sembrano croci avvitate verso il cielo. [...] Verso sera tre ragazzi tornano da un'arrampicata, attraversano il "museo" con la loro ferraglia tintinnante e corrono via. Non c'è più nessun contatto tra l'alpinismo sportivo e l'antico eroismo della montagna, che poi tanto antico non è. C'è stato un rifiuto netto, radicale, senza appello: il rifiuto di rischiare e di soffrire, ma soprattutto il rifiuto di nobilitare il rischio e la sofferenza, là dove per decenni si è arrampicato per un ideale di redenzione laica, contando i propri morti e offrendoli all'altare. Come gli alpini. Armando Biancardi ha scritto nel 1975: «Si avvertono, tra alpinismo e guerra, analogie che sorprendono. La morte vicinissima, lo spirito di corpo (la cosiddetta solidarietà alpina, così viva tra le penne nere), lo stesso abito da alpinista: non è un po' come una divisa? Il mangiare e il bere, i cori, le notti sotto le stelle: non sono per alpinisti e militari dello stesso stile? Lotta, martirio, eroismo: chi ha trovato come proprio ideale quello di scalare le difficili montagne, sa come tutto ciò stia nell'essenza dell'azione alpinistica.» Se a questo si aggiunge la tradizione rigidamente maschile (e maschilista) della montagna, si ha un quadro di quanto la guerra e la retorica alpina abbiano condizionato il secolo che sta per finire. Mentre il mare ha generato onde di piacere e venti di trasgressione, la montagna si è caricata soltanto fardelli di fatica e di sofferenza purificatrice. Persino dietro l'immagine edonista del turismo di massa, che rischia di soffocare le Dolomiti in un groviglio di funivie, vie ferrate, strade, alberghi, piscine e seconde case, aleggia ancora l'ombra sinistra della montagna vendicatrice. La religione della Grande Guerra è stata più forte del fascismo, più forte della tecnologia, più forte del consumismo. È sopravvissuta ai treni della neve, alle superdirettissime, allo sci programmato, alla Freccia del Cielo che sbarca i turisti con i sandali sulla cima innevata della Tofana di Mezzo, dove gli alpini si stringevano uno contro l'altro per scongiurare la dolce follia della morte bianca. Pochi miti della storia moderna hanno impiegato così tanto tempo a sbiadire, e a perdere consenso, anche se si tratta di una memoria di morte, di violenza, di ottusità, anche se è il ricordo di un inutile sacrificio e di una feroce carneficina che lasciò sulla terra una generazione di ragazzi innocenti. I ragazzi di oggi, sazi e disincantati, non hanno più un nonno che gli parli della guerra e gli spieghi come si faceva a farsi uccidere cantando per una frontiera di sassi. La pace ha assunto la scialba leggerezza di un bene acquisito, e garantito, tanto che ogni richiamo alla strage del '15-'18 risulta retorico come un esercizio di ovvietà. La vecchia mitologia del sacrificio appare patetica come tutti i riti senza ideale, e il razionalismo cibernetico, dove qualsiasi conflitto ha una rimozione virtuale, ha seppellito ogni residuo di sudore, polvere e fango. Non esistono linguaggi virtuali per spiegare l'intensità dell'avventura umana di Ugo di Vallepiana, di Joseph Gaspard e dei loro compagni di guerra: [...] Perché allora ritornare sulle Tofane quando delle Tofane è già stato scritto tutto? Perché insidiare i militari sul loro terreno con un approccio profano e dunque un po' sacrilego? Credo per due ragioni, che si completano tra loro. La prima è che i narratori di guerra, così come i narratori di alpinismo, ricordano gli esegeti deputati a tramandare le vite dei Santi: il loro coinvolgimento etico e psicologico è talmente forte che ogni deviazione dalla via canonica appare come un azzardo iconoclasta. Così chi scrive di guerra, o di montagna, è più un missionario che un testimone, è più moralista che narratore, ed è quasi sempre troppo preso dall'idealizzazione dei fatti per ricordarsi, semplicemente, di raccontarli. La seconda ragione è che la guerra l'hanno pensata i militari ma l'hanno fatta gli uomini, i soldati delle prime linee, e i disgraziati reduci se la sono dovuta tenere dentro per una vita perché non possedevano il filtro che trasforma il dolore in poesia. Numerosi soldati tuttavia si sono affidati alle lettere, ai diari, agli appunti autobiografici di ispirazione popolare, per mitigare, come spiega Leoni, «... l'eccesso di memoria dolorosa che poteva divenire, ad un certo punto, intollerabile per chiunque: essenziali si rivelavano allora la capacità e la possibilità di produrre senso in una realtà insensata.» I soldati non scrivevano di piani e strategie, non si curavano delle ragioni militari, ma raccontavano la fatica, l'angoscia, l'attesa, la fame, la nostalgia dei semplici. Dietro le annotazioni ingenue e sgrammaticate si indovinano i complessi sentimenti umani e religiosi dei combattenti, i germi della follia, il confronto di speranze diverse, la nascita di rapporti nuovi e irripetibili nel cupo autunno della guerra alpina, che fu anche primavera di solidarietà come accade spesso negli eventi tragici, dove le persone esprimono il peggio o il meglio di se stesse.
Gaspard no, Gaspard non scrisse mai niente. La
sua era una delle tante storie rimaste senza voce, o,
meglio, era una delle tante leggende che hanno annebbiato la verità della
storia. Ho provato a raccontarla
beneficiando delle pochissime tracce scritte (tra cui
un'intervista di Fulvio Campiotti risalente agli anni
Cinquanta) e delle preziose testimonianze orali della
figlia Line e del figlio Ferdinando. Nemmeno con loro
Joseph fu mai prodigo di racconti sul suo anno sulle
Dolomiti, da cui li preservò con paterna premura, come
se quell'esperienza fosse appartenuta alla vita di un
altro, però ci sono particolari che un figlio riesce a
immaginare senza discostarsi dalla realtà.
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