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| << | < | > | >> |Indice7 INTRODUZIONE 17 I GIORNI PICCOLI 19 La fuga dalle frustrazioni Armando Biancardi 22 Riflessioni Gian Piero Motti 26 I falliti Gian Piero Motti 30 Due anni e mezzo di crisi Alessandro Gogna 35 L'ONDA DELLA TRASGRESSIONE 37 Ritorno ai monti Reinhold Messner 40 Tutti lottavamo per la libertà Reinhard Karl 44 Maturità classica o sul valore dell'esperienza Andrea Gobetti 48 Neo alpinista Paolo Masa 51 IL MITO AMERICANO 55 Il Nuovo Mattino Gian Piero Motti 62 La peste si diffuse Reinhard Karl 67 Un salvataggio, un'avventura Gary Hemming 77 LA GEOGRAFIA DEL MOVIMENTO 79 Il sole nasce in Valle dell'Orco Nanni Villani 86 Il miracolo della Val di Mello Giuseppe Miotti 92 Il Sassista Gruppo Sassisti 94 Il libero cielo triestino Piero Spirito 100 La pace con l'alpe Walter Giuliano 102 In montagna si può... Carlo Possa 104 Il vento leggero del Mediterraneo Gianni Battimelli 113 LA VOCE DEI TESTIMONI 114 Andrea Gobetti: non volevamo morire idioti 122 Alessandro Gogna: il '68 fatto sulle montagne 127 Ettore Pagani: ognuno pensava di essere immortale 131 Roberto Bonelli: eravamo cordialmente antipatici 135 Massimo Demichela: contro l'elitarismo della stupidità 138 Ugo Manera: e Caporal fu 143 Ivan Guerini: la luce lontana dei cambiamenti 148 Giuseppe Miotti: eravamo come bambini 153 Jacopo Merizzi: una tempesta di donne nude 157 Tony Klingendrath: l'ultimo grande movimento ottimista dell'Occidente 161 Lamberto Camurri: una ricerca estetica 163 I TESTIMONI SENZA PAROLA 166 Le due vite di Guido Rossa Enrico Camanni 185 RASSEGNA ALTERNATIVA 186 Eskimo, corda e penna Enrico Camanni 192 Schegge di provocazione Giuseppe Miotti 192 Alpinismo nuovo Franco Brevini 196 Il Club Alpino Accademico Italiano: «comodo teatrino per vanitose nullità» Franco Brevini 199 Occasione perduta, occasione trovata Mauro Mattioli 207 CONCLUSIONI: L'ASSIMILAZIONE DELL'UTOPIA 213 FONTI BIBLIOGRAFICHE |
| << | < | > | >> |Pagina 26Il manifesto di un'intera generazione di alpinisti inquieti, la denuncia spietata e sincera del suo migliore interprete. Eccone una sintesi. [...] Ma ancora non bastava. Bisognava toccare il fondo. Vuoi per un certo crepuscolarismo di balorda qualità, che ogni tanto affiora nei miei giorni peggiori, vuoi per una certa "voluptas dolendi" che ogni tanto esercita il suo fascino, assunsi la parte dell'uomo deluso e finito e cominciò una recita piuttosto grottesca. Per giustificazione o per meglio mascherare il mio fallimento agli occhi degli altri, mi atteggiai a ribelle nei confronti della società, cercai di entrare nella parte dell'anarchico che disprezza i comuni mortali, che odia la normalità, dell'uomo finito a vent'anni, dalle idee tenebrose e cupe, dai lunghi silenzi. E anche nel vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto: barba, capelli lunghi, abiti logori e sdruciti, atteggiamenti molto posati. Con il risultato che il mio cervello non tollerò più oltre e mi assestò il colpo definitivo. Esaurimento nervoso di grossa portata, con perdita completa del sonno ed un sacco di disturbi fastidiosissimi. Smisi naturalmente di andare in montagna, in tutti i sensi, anche su quella facile e non feci che aggravare le cose. ... Oggi, oggi invece, seppur da un piccolo spiraglio, comincio a rivedere la luce. Ho capito l'errore; troppo a lungo ho vissuto in una piccola stanza dove ho chiuso ermeticamente le finestre e le porte e lì, da solo, nel buio mi sono illuso che il mondo fosse tutto racchiuso fra quattro pareti. Poi, una finestra si è leggermente dischiusa ed un filo di luce vi è penetrato. Seguirà un autunno incerto, un ritorno alla montagna timoroso, ma con animo diverso. Però non ancora tutto era chiarito: anche se cominciavo a star bene, qualcosa ancora nella mia testaccia non funzionava. Incontrerò una sera di inverno Guido Rossa il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l'anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l'errore più grande è quello di vedere nella vita solo l'alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna, e perché? no; ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l'avventura e per stare in allegria insieme agli amici. Io lo so e l'ho sempre saputo; ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo. E poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che stupidamente avevo perduto e che ritroverò ad uno ad uno e che mi aiuteranno moltissimo a ritornare quello di prima... [...] E veramente, come disse Seneca, posso rivedere serenamente i giorni del passato. E rivedo tanti volti, tanti uomini per i quali oggi non posso provare che una profonda tristezza. Perché ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini che avevano trovato nell'alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che avevano dato e che danno caparbiamente tutto se stessi alla montagna, con l'illusione di trovare un'affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita. Alcuni si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti, solo perché nell'alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu trasporti gli stessi individui in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi, spauriti ed intimiditi, incapaci di intrecciare relazioni umane. Ed eccoli allora portare a giustificazione del loro fallimento l'incomprensione altrui, la banalità ed il qualunquismo della gente, la superiorità di chi pratica l'alpinismo, la diversa sensibilità di chi ama la montagna. In realtà vi sono uomini sensibilissimi ed amanti della natura anche al di fuori del territorio alpinistico, vi sono uomini che cercano e trovano altrove l'avventura e che sanno comprendere; ma, purtroppo, nell'alpinismo troppi sono i falliti e troppi i condizionati [...] Gian Piero Motti "Rivista Mensile del CAI", settembre 1972. | << | < | > | >> |Pagina 55La seconda parte dello storico scritto di Motti affronta gli aspetti filosofici e psicologici del modello californiano, e non trascura neppure la realtà più scabrosa: la droga. Alpinismo come fuga dalla realtà [...] Vediamo ora di andare un po' più a fondo e di analizzare le cause ed i riflessi etici e psicologici dell'alpinismo californiano. A questo proposito si è detto e si è scritto molto, a ragione e a torto; si è parlato di uso di droghe, di ricerca di introspezione dell'io, di filosofia orientale riveduta e corretta. Certo è che l'alpinismo californiano rappresenta un modello assai lontano e diverso da quello che ci è stato fornito in Europa dalla nostra letteratura. Pur non esprimendo alcun giudizio, mi permetterò di esaminare una situazione con i suoi relativi effetti. È bene prima di tutto aver bene in mente il grado di alta civilizzazione, a volte persino esasperata, degli Stati Uniti d'America e soprattutto della California, dove le tensioni sociali, gli attriti e gli assurdi di una certa società si fanno sentire più che altrove. La reazione più giusta e più logica sarebbe quella di restare nell'ambito di questa società, di prendere un chiaro e preciso impegno politico per cercare di migliorare o modificare lo stato di cose. Invece in questo determinato ambiente è facile che insorgano fenomeni di fuga, di rifiuto e di opposizione. Non per nulla il fenomeno hippy è sorto e persiste con le sue più grandi comunità in California, non per nulla un certo genere di musica che spazia da una espressione di rifiuto e di rottura ad un misticismo psichedelico e profetico, ha incontrato qui particolare favore. L'alpinismo in certe condizioni può essere un mezzo di fuga davanti alla angosciosa realtà esistenziale di un modo di vivere pressante e caotico. D'altronde è significativo come l'alpinismo californiano tragga grande ispirazione dalla filosofia e da alcune discipline orientali, soprattutto dallo zen e da certi risvolti dell'induismo, sebbene riveduti e corretti ad uso occidentale. Alla base vi è dunque una forte esigenza di veder chiaro in se stessi, una indagine fine e profonda del proprio io, che accompagna l'azione propriamente detta. L'azione infine non sarebbe che un mezzo per il raggiungimento di una pace interiore e di una verità superiore o almeno presunta come tale. Su questi temi si è magistralmente espresso Doug Robinson nell'articolo Lo scalatore come visionario, cui rimando i lettori desiderosi di approfondire l'interessante problema. Tuttavia, per non generare confusione, mi preme chiarificare esattamente il concetto di visione espresso da Robinson. Il termine visionario non ha nulla a che vedere con il misticismo e non va assolutamente frainteso con l'interpretazione corrente e comune della parola, che richiama apparizioni e visioni di genere extrasensoriale, molto care a tutta la mistica cristiana e forse spiegabili in sede parapsicologica. Robinson per visione intende il potere maggiorato ed acquisito di vedere le cose nella loro integrità e di scoprirle nella loro intima essenza. Ossia, e qui calza il paragone con le discipline orientali, la concentrazione su un oggetto permette non solo di penetrare nell'interno del medesimo, non arrestandosi al suo aspetto esteriore, ma anche di conseguenza di possederlo. È un discorso indubbiamente di grandissimo interesse, che però per la profondità con cui deve essere condotto e per l'esame da svolgere, esula dal compito che ci siamo prefissati in questo scritto. La diretta conseguenza trasferita a livello alpinistico di questi presupposti è un esasperato individualismo, che si manifesta da un lato con atteggiamenti antisociali e dall'altro con la pratica dell'arrampicata solitaria, molto diffusa tra i californiani, intesa non tanto come espressione sportiva e competitiva, ma soprattutto come fenomeno puramente individuale e come ricerca personale di sensazioni non altrimenti raggiungibili. Si tenga presente che una scalata sulle pareti della Yosemite Valley sovente può durare più di dieci giorni (Robbins rimase da solo 17 giorni in parete); è facile che in determinate condizioni di sforzo, isolamento, concentrazione, si possano sviluppare dei processi psichici, forse indagabili con un attento studio delle variazioni biochimiche del corpo, che assai da vicino ricordano quelli ottenibili con l'applicazione metodica delle discipline orientali. A tutta prima la cosa potrebbe sembrare assurda, in quanto lo yoga e lo zen sono proprio un mezzo per uscire dall'angoscia e per raggiungere una perfetta armonia che trova nell'inazione la sua espressione più significativa. Un alpinismo angoscioso e teso in una azione esasperata al conseguimento di un risultato ci sembra decisamente l'opposto. Ma ci pare invece che un certo tipo di alpinismo e un certo modo di concepire l'arrampicata, che per definizione indichiamo con il termine californiano, tralascino decisamente il risultato inteso come meta da raggiungere in un meccanismo autosuperante, caratteristica prima dell'alpinismo europeo di derivazione romantica ed idealista. | << | < | > | >> |Pagina 78Torino era la città più permeata dalle scorie del passato, Torino è stato il primo focolaio della ribellione.
Il suo sogno si è chiamato Nuovo Mattino, il suo
filosofo Gian Piero Motti.
È lo scherzo peggiore che potessero giocargli: ne hanno fatto un Mito, di quelli con le iniziali maiuscole. Nelle intenzioni dei suoi protagonisti nasce innanzitutto come momento di rottura: basta con i codici di comportamento, con le gerarchie, con gli steccati che condizionano l'alpinismo torinese dell'epoca. Nelle interpretazioni che ne sono venute, è diventato una nebulosa tanto carica di significati e di valori da apparire irreale: un mito, appunto. Stiamo parlando del Nuovo Mattino, di quella corrente di azione e di pensiero che agli inizi degli anni Settanta dà uno scossone al mondo dell'alpinismo torinese. «[...] sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre maggiormente quella nuova dimensione dell'alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostato invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un'atmosfera gioiosa, con l'intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un'attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza. Se qualcuno poi dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi nel sentirci definiti semplici "arrampicatori" e non "Alpinisti".» Queste parole scritte da Gian Piero Motti nella sua guida sulla Valle dell'Orco, potrebbero rappresentare un ideale manifesto del Nuovo Mattino. Esse contengono i concetti forti della nuova filosofia: l'alpinismo è quello delle grandi facce nord, ma può essere, anzi è, anche quello delle solari pareti di fondovalle; l'arrampicata, in quanto gioco e godimento, e allo stesso tempo ricerca, ha un proprio valore intrinseco, non è un semplice mezzo per raggiungere una cima. Una cosa va subito sottolineata: l'affermazione di queste idee viene vissuta dai protagonisti, dai Galante ai Bonelli, a livello per lo più inconscio. Nessuno parla di "nuovo mattino", nessuno si sente membro di una congrega di carbonari, e il fantomatico gruppo del Circo Volante alla fin fine è essenzialmente una felice creazione letteraria di Andrea Cobetti. Fa eccezione, a livello di consapevolezza, Gian Piero Motti, personaggio che ha dalla sua strumenti culturali e proiezioni di pensiero che lo distaccano nettamente da tutti gli altri. È lui che nel famoso articolo comparso sulla "Rivista della Montagna", descrivendo il fenomeno dell'arrampicata californiana, conia il termine Nuovo Mattino. Siamo nel 1974, l'anno forse più caldo dell'esplorazione del Caporal e del Sergent, che gli arrampicatori torinesi hanno iniziato nell'autunno del '72. Perché la Valle dell'Orco? Perché sono i torinesi i primi a ridiscutere le coordinate della pratica alpinistica? Torino è stata una delle città dove più forte si è sviluppata la contestazione del Sessantotto, è stato anzi il primo focolaio di rivolta. Ma non esiste un rapporto diretto tra il Sessantotto e il Nuovo Mattino, tra l'occupazione di Palazzo Campana e la prima salita di Sole nascente: negli ambienti del movimento non ci sono grandi simpatie per l'alpinismo, tra gli esponenti del nuovo corso dell'arrampicata solo alcuni hanno vissuto in prima persona la "lotta di classe", e uno dei personaggi di punta, Danilo Galante, si rifà a modelli dichiaratamente di "destra". Esiste invece un clima di contestazione che assegna dignità al ribellismo, e in seguito in ogni ambiente ci sarà chi si proporrà di ridiscutere i valori dominanti. Nell'alpinismo, Torino è una delle città dove la tradizione è più viva, dove il peso della mentalità conservatrice di stampo CAI si fa più sentire. Dunque, nella città della Fiat ci sono dei giovani consapevoli e incazzati e un castello che ostenta il proprio monolitismo: l'assalto è praticamente inevitabile. | << | < | > | >> |Pagina 163«Era una giornata perfetta nel gruppo del Monte Bianco. Sul canalone, mentre le gambe arrampicavano da sole, la mente aveva scartato l'impegno della lotta e vagava nel futuro del giorno appresso. I ramponi si piantavano nella neve uno sopra l'altro in un movimento uguale, senza sforzo.
Qualche passo più su si sarebbe fermato e avrebbe fatto
salire il compagno, come sempre. Sentì uno strappo alla
cintola e fu staccato dal pendio. Riuscì a rendersi conto
per un attimo che stava precipitando; al primo colpo, sul
fianco, si spezzò le costole e una spalla, così capì, e urlò
in quella giornata perfetta, urlò con tutto il corpo e la
mente. Nella Vallée Blanche un gitante alzò la testa; gli
era sembrato... forse era il vento. In quel momento Gianni
morì. E Romano e Paolo e Carlo e Giorgio...»
Il Gianni protagonista di questo tragico racconto è Ribaldone, morto nel 1966. Inoltre si riconosce il nome di Paolo Armando, caduto sul Greuvetta con Andrea Cenerini, ma si potrebbe aggiungervi una lista impressionante di "nuovi" alpinisti morti in montagna negli anni Settanta: Renato Reali, Enzo Cozzolino, Tiziana Weiss, Leo Cerruti, Miller Rava, Giorgio Bertone, lo stesso Guido Machetto. Senza contare Guido Rossa, alpinista dalle grandi intuizioni e sindacalista fino alla coerenza estrema. La lunga lista si chiude nei primi anni Ottanta con la morte di Gianni Comino, Benvenuto Laritti e il suicidio di Gian Piero Motti, l'indiscusso capo carismatico del rinnovamento. Dieci anni fa, Ettore Pagani fu severo ma giusto sulle pagine di "Alp": «A volte c'era anche molta allegria, ma sicuramente troppa indifferenza rispetto a quello che si metteva in gioco: la vita.» Una cosa è certa: l'alpinismo di quegli anni fu disincantato, interiorizzato, decodificato quanto si vuole, ma portò comunque a una ricerca estremizzante di cui era difficile intravedere una fine. Si rischiava molto, ci si giocava tutto. E la stessa arrampicata, frutto "liberato" di un'angoscia esistenziale che portava sempre più verso il baratro, non fu mai un'attivítà privata del fattore rischio: gioco sì, ma pur sempre gioco pericoloso, gioco da cavalieri della nuova frontiera. Danilo Galante, il 'mago' del Sergent, morì di freddo in una tempesta di primavera; Federico Madonna, il più veloce arrampicatore della Val di Mello, se ne andò in un incidente di canoa. Era facile morire a vent'anni. Tutti i personaggi carismatici scomparsi furono, in qualche modo, vittime del loro tempo. Tutti, chi più chi meno, avevano intravisto la luce di un Mattino che illuminava a corrente alternata le grandi pareti della conoscenza e i piccoli anfratti del subconscio: una luce abbagliante e visionaria, oscillante tra le nostalgie da West Coast e i viaggi alla Daumal, tra realtà separate alla Castaneda e devianze da gioventù bruciata; una luce dolcissima e devastante, che rendeva molto difficile, quando non addirittura impossibile, il ritorno al vissuto quotidiano. La loro dipartita ci ha lasciato un grande vuoto e la nostalgia per un tempo che non è più spiritualmente, ma non è più addirittura fisicamente. La frattura è stata brutale, senza ritorno, in molti casi anche senza ricordi. | << | < | > | >> |Pagina 166Il 15 febbraio 1970 scrive a Bastrenta una lettera straordinaria. Trenta fitte pagine manoscritte che dalla critica dell'elitario ambiente alpinistico genovese (e non soltanto di quello) si estendono a un autentico manifesto programmatico sullo sviluppo del sistema democratico anticapitalista: «L'indifferenza, il qualunquismo e l'ambizione che dominano nell'ambiente alpinistico in genere ma soprattutto in quello genovese, sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa "lizza" (lo scivolo su cui viene calato il marmo delle Alpi Apuane, N.d.R.) della mia stagione alpina. Da ormai parecchi anni, mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l'assoluta necessità di trovare un valido interesse nell'esistenza [...] che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e di ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all'anno, quaranta milioni muoiono di fame! Per questo penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro [...]. Ma probabilmente queste prediche le rivolgo soprattutto a me stesso; perché, anche se fin dall'età della ragione l'amore per la giustizia sociale e per i diritti dell'uomo sono stati in me il motivo dominante, sinora ho speso pochissime delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso [...]. Penso che sia giunto il momento di opporre alla società stabilita il "grande rifiuto". Si deve sottrarre l'uomo all'apparato che soddisfacendone i bisogni ne perpetua la servitù: la libertà diverrebbe l'ambiente naturale di un organismo non più capace di adattarsi alle prestazioni competitive richieste dal benessere, né di tollerare l'aggressività e la bruttezza del modo di vita imposto dalle società capitalistiche.» Rossa non è un ingenuo idealista e tutta l'analisi successiva è densa di realismo politico. A trentasei anni il suo credo socialista si fonda su una esplicita fede nell'uomo: «In quanto "all'uomo nuovo" o a migliorare l'uomo, personalmente ho già una grande fiducia in quello attuale e penso che basterebbe poterlo inserire in una società aperta a tutti i valori, a tutte le concretezza umane, alla originalità di tutte le coscienze [...].» [...] Alla maturazione politica si associa un perfezionamento "laico", di nobile distacco. Villaggio, che di professione fa il matematico, sintetizza: «La spavalderia di Guido era diventata nobiltà. Sempre ironico con se stesso e con gli altri, era troppo intelligente per fare il furbo. Non si prendeva troppo sul serio, era schivo, mascherava gli affetti e i sentimenti. In qualche modo tratteneva la sua umanità. Ma nei momenti del bisogno venivano fuori le sue attenzioni, come nei bivacchi: "Hai messo il maglione? Hai tirato su il colletto...?" Era un primo di cordata naturale, però diceva sempre "comincia tu" e restava dietro per tutta la salita.» Arrampicare gli piaceva ancora, e certo gli riusciva molto bene se nelle brevi campagne 'genovesi' riusci a ripetere la Cassin al Badile, la Bonatti al Grand Capucin, la Tissi alla Torre Venezia, la Carlesso alla Torre di Valgrande, la Livanos alla Cima Su Alto, la Steger al Catinaccio, la Graffer al Campanile Basso, la Dibona al Croz dell'Altissimo, la Hasse alla Roda di Vael, la Vinatzer e la Soldà alla Marmolada, con lo stesso Villaggio e con Renato Avanzini, un amico fraterno. [...] Il 24 gennaio 1979, alle sei e trenta del mattino, Guido Rossa viene "giustiziato" sotto casa con l'infamante accusa di "spia": quattro colpi alle gambe e un colpo al cuore. Ha 44 anni. Vincenzo Guagliardo, a cui è stata affidata l'esecuzione, sosterrà che doveva trattarsi di un semplice ferimento e che il colpo mortale fu un'iniziativa persoliale di Riccardo Dura. Ancora oggi la dinamica dei fatti non è chiara e un velo di incertezza coprirà per sempre gli anni più angoscianti della democrazia: lo stesso Dura rimarrà ucciso nel 1980 in un conflitto a fuoco con i carabinieri di Dalla Chiesa; Berardi si impiccherà nel carcere di Cuneo, travolto da un meccanismo feroce, disumano; il suo avvocato difensore, Edoardo Arnaldi, si sparerà con una Mauser all'arrivo della polizia. L'assassinio di Rossa è un suicidio per le Brigate Rosse. Duecentocinquantamila persone scendono a Genova in piazza De Ferrari, sotto la pioggia, per manifestare la loro solidarietà. Guido diventa l'eroe di tutti, contro un nemico a cui né lo Stato né il Partito comunista sono riusciti a dare una risposta coerente. Ci sono gli operai in lacrime che piangono un vero compagno, c'è tutto il sindacato italiano con Lama che fa pubblica autocritica («se il gesto di Rossa non fosse rimasto isolato, se nel momento più arduo di tutti fossimo stati come un solo testimone...»), c'è Pertini, commosso, che fa segno di tacere col dito alzato. Scriverà Enrico Fenzi, l'ispiratore delle BR genovesi dissociatosi nel 1982: «Qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio: era finito, per molti di quegli operai, un sogno vago e tenace. La confusa, mitica speranza che le Brigate Rosse avevano alimentato, soffiando sulla vecchia brace dell'idea rivoluzionaria, si era spenta. E gli operai, in quella piazza, quella mattina, piangevano la morte di uno dei loro, una parte viva del loro essere, e insieme piangevano in quella morte la fine di un equivoco al quale s'erano tenuti stretti per tanto tempo.» E poi, a proposito dell'organizzazione sovversiva: «La strada del ritorno era sbarrata: in mezzo, ormai, c'era Rossa. Le nostre battute all'osteria, le nostre memorie, la nostra leggerezza sciocca e piacevole, quasi dimentica di quel che ci aspettava: niente poteva resistere e riprodursi così com'era stato. Ora tutto aveva un altro colore, un altro senso.» Forse solo gli alpinisti non si accorsero di nulla, perché da tempo Guido non era più uno dei loro. Enrico Camanni | << | < | > | >> |Pagina 207Alfine ci si chiede che fine abbiano fatto le promesse di tolleranza, giustizia e libertà del decennio della contestazione (1968-1977) e si scopre che molti leader di allora siedono tronfi sulle poltrone delle istituzioni "borghesi", condividono la lotta per il potere con i nemici di un tempo e difendono con intransigenza le logiche del capitalismo. Perlopiù si tratta dei capi politici del movimento, che presiedevano le assemblee e guidavano i cortei studenteschi, mentre i nostalgici della beat generation, i viaggiatori solitari sui sentieri dell'India, gli eredi di Kerouac e i sopravvissuti di Woodstock siedono smarriti ai margini della strada, the road, e tirano avanti in un mondo famelico che si è mangiato ogni simbolo della loro gioventù: capelli lunghi, eskimo, chitarra, comuni, fantasia sessuale, trasgressioni, danze, baldanze, speranze. Il consumismo si è ingoiato anche la rivoluzione, nel senso che il monetizzabile è stato monetizzato (per esempio la musica degli anni Sessanta), il riciclabile riciclato (per esempio Bob Dylan e la New Age) e il resto buttato via. Il mínotauro capitalista esce trionfante da questo secolo convulso, trascinandosi dietro in catene ideologie e utopíe. Il vero problema però non è la sconfitta delle utopie (compresa quella del Nuovo Mattino), bensì la loro assimilazione. Pasolini scriveva con parole profetiche: «Oh generazione sfortunata, arriverai alla mezza età e alla vecchiaia senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere e che non si gode senza ansia e umiltà, e così capirai di aver servito il mondo contro cui con zelo "portasti avanti la lotta".» Certo Pasolini non pensava agli alpinisti, ma se si osserva con i suoi occhi l'evoluzione dell'arrampicata tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, il processo di assimilazione diventa chiaro come la dolomia al sole. Come si è visto, il periodo d'oro del Nuovo Mattino in Valle dell'Orco risale al 1973-1975, con l'articolo-manifesto di Motti che cade proprio nell'anno intermedio, il 1974. Guerini e i Sassisti della Val di Mello seguono con qualche stagione di ritardo, ma anche la loro primavera si compie intorno al 1977, l'anno di Oceano irrazionale al Precipizio, per poi sfumare in un'involuzione competitiva ben riassunta da Miotti in un intervento del 1980 a un convegno sul settimo grado: «Caddero i problemi, ma il "gioco-arrampicata" della Val di Mello si stava trasformando in "guerra-arrampicata". Sull'onda della battaglia e della sua ebbrezza ci siamo piano piano lasciati andare ai residui di classicismo che ci portavamo dentro. E i residui sono cresciuti fino a che, pur andando in giro con le EB stracciate, dentro potevamo benissimo essere all'altezza dei tanto vituperati santoni dell'alpinismo da noi criticati. Non è più la parete nord est del Badile il metro di paragone del grande arrampicatore; ora è il passaggio Mazinga Z al Sasso di Remenno» ("Rivista del CAI', gennaio-febbraio 1981). [...] Naturalmente c'è il trucco, anche se non si vede. Del Nuovo Mattino il cosiddetto free climbing ha conservato solo gli aspetti più accattivanti, rimuovendo tutto il resto attraverso la scelta del chiodo a espansione: lo spit. Così si sono salvati il terreno di gioco (pareti e falesie senza vetta), la tecnica leggera, la preparazione atletica, l'abbigliamento casual e gli orari rilassati, ma sono stati rimossi il rischio, l'incognita e la "libertà", intesa nella sua accezione anarchica. Da fenomeno storicamente romantico, dunque libertario e individualista, l'arrampicata si è risvegliata in panni sportivi e sociali, diventando una disciplina codificabile e consumabile. Se il Nuovo Mattino era la coda del romanticismo alpinistico, in quanto movimento temerario e senza regole, l'arrampicata degli anni Ottanta è l'inizio di una nuova storia e di una nuova etica che ha trovato nello spit la sua rappresentazione simbolica. L'eliminazione del rischio (sullo spit si cade e non ci si fa male) e l'introduzione di una regola (lo spit salva la pelle, ma non il passaggio) hanno rovesciato i parametri tradizionali dell'alpinismo, esportando anche in montagna la concezione sportiva dell'arrampicata di falesia.
Coerentemente, quando le pareti di bassa quota
furono piene di spit e già si annunciavano all'orizzonte
le prime competizioni europee di arrampicata, qualcuno
ha cominciato a distinguere tra arrampicata libera (lo
faceva già Comici, il free climbing) e arrampicata spor-
tiva. La parola vietata, "sport", che tanto ha spaventato
e spaventa gli eredi del romanticismo alpinistico, è
diventata la parola chiave per identificare la filosofia e la
pratica dei nuovi arrampicatori.
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