Copertina
Autore Enrico Camanni
Titolo Il ragazzo che era in lui
EdizioneVivalda, Torino, 2011, I Licheni 101 , pag. 180, cop.fle., dim. 12,5x20x1,4 cm , Isbn 978-88-7480-156-5
LettoreDavide Allodi, 2012
Classe narrativa italiana , montagna
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Indice


    PREMESSA                              7

 1. I TETTI                              11
 2. ALTRI TETTI                          17
 3. PRIMI CALDI                          23
 4. RUMINAZIONI                          27
 5. AFFIORAMENTI                         32
 6. IL VIAGGIO                           37
 7. DOLOMITI                             42
 8. IL RIFUGIO                           48
 9. LA CENA                              54
10. VIGILIA                              60
11. LA NOTTE DI LUI                      65
12. LA NOTTE DI LORO                     68
13. LA PARTENZA                          70
14. IN CRESTA                            75
15. PRESAGI                              81
16. LA PERTURBAZIONE                     87
17. L'ASSENZA                            92
18. IL MESSAGGIO                         97
19. LA FACCIA NUOVA                     102
20. PAROLE ALL'IMBRUNIRE                108
21. A LUME DI CANDELA                   115
22. MARCO E LUCA                        120
23. MISTERI INCROCIATI                  126
24. TRADIMENTI                          133
25. LE LUCCIOLE DI MAGGIO               139
26. STRAPPEREI LE ALI AL VENTO          146
27. CANTO TENUE                         151
28. CINQUE LUGLIO ORE SETTE             156
29. CINQUE LUGLIO ORE OTTO              162
30. CINQUE LUGLIO ORE NOVE              167
31. RENOIR                              171

NOTA BIBLIOGRAFICA                      177

INDICE                                  178


 

 

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1
I TETTI



Nanni Settembrini era incapace di scordare il passato. Ci pensi su troppo, dicevano gli amici. Divertiti e dimentica. Lui la riteneva una dolce malattia, ma incurabile.

Nanni ricordava quasi tutto, dal cestino di plastica azzurra dell'asilo presidiato dalle suore alla cornice di neve in cima allo sperone Walker delle Grandes Jorasses, l'estate dei vent'anni, quando lui e Andrea si erano trovati in un cielo finalmente adeguato alle loro visioni. I ricordi più indelebili risalivano ai tempi della scuola, dove usava le ore di lezione per progettare evasioni. Sotto le pose disarmoniche dell'adolescente che escludendo dal campo uditivo la voce del professore si abbassava sui gomiti fino a toccare la superficie graffiata del banco, il giovane Settembrini nascondeva sogni trasgressivi, proiezioni erotiche, ardite sceneggiature. Durante l'ora di matematica poteva rapire la compagna secchiona della prima fila e portarla con sé nella giungla di Salgari; socchiudendo gli occhi e concentrandosi sul film riusciva ad alzarle la gonna e sfilarle le calze da collegiale per guadare il fiume infestato di coccodrilli. Oppure partiva di notte, lui solo, a scalare la montagna di ghiaccio del manuale di geografia, e al ritorno cadeva nelle braccia dell'eroina della rivoluzione francese, libro di storia, ottavo capitolo. Le fantasie erano coltivate in silenzio e solitudine per allontanare i sospetti e avvicinare il suono liberatorio della campanella.

Crescendo e cambiando scuola, Nanni aveva scoperto che l'immaginazione poteva essere condivisa. Nelle aule del liceo scientifico la fantasia era già al potere da molto tempo e non si correva alcun rischio a sedersi nei corridoi, inventare storie e ingravidare le ragazze di sogni. Altri al suo posto si sarebbero considerati dei fieri seguaci del metodo rivoluzionario, invece lui restò cauto nei confronti della trasgressione di massa e si limitò a studiarne i riti e i miti senza tradire le passioni solitarie.

«Se finisce la rivoluzione magari resto vivo» pensava.

All'epoca Nanni vantava un amico e un osservatorio ideali: Andrea e il tetto di coppi del liceo. Il crinale del tetto era il posto più adatto a due alpinisti studenti, con qualche controindicazione: a star fermi sulla cresta del colmo si gelavano il naso e le mani, a camminarci si spaccavano le tegole, se scappava un piede finivi gattosilvestro sul cornicione. Ad ogni modo sui tetti si rischiava qualcosa: il sei in condotta, che ai tempi era una medaglia, e il sospetto riservato ai guardoni lontani dalla prima linea. Quella era una vergogna.

Settembrini si era portato dentro il ricordo dei tetti per trent'anni, senza dividerlo con nessuno, e anche quando Camilla gli aveva chiesto del Sessantotto lui aveva risposto laconicamente:

«Non saprei, ero troppo piccolo.»

«Chi credi di far fessa?»

«Ma è vero: avevo solo dieci anni!»

Il fatto è che era durata per altri sette, di anni, perché nessuno aveva il coraggio di dire basta e ammettere che le rivoluzioni muoiono e la rivolta finiva, ammesso che fosse mai cominciata. Intanto si parlava già di mitra e lotta armata.

Naturalmente Camilla non aveva mollato la presa e in una notte di tenerezze gli aveva estorto una testimonianza:

«D'accordo scappavamo sui tetti, ma non per vigliaccheria. Credo fosse predisposizione alla vertigine. Li scalavamo con i mocassini a suola liscia, di cuoio, anche in inverno. Era il nostro modo per dire che ci sentivamo forti, molto diversi da quelli con la suola di para. Era molto borghese la suola di para.»

«Parli come un libro stampato» aveva osservato Camilla.

È il libro della mia vita, si era giustificato lui tacendole il resto.

Ricordava tutto, anche le sfumature. A gennaio sui tetti c'era la brina che faceva pendant con la neve della collina, a est della cresta di coppi, dove abitavano i figli dei ricchi con il paltò. La brina sui coppi era di sinistra e la neve nei giardini di destra, come le ville e i bottoni dei paltò. Sulla collina c'era anche il liceo dei fascisti, piantato in terra nemica.

Per divisa vestivano "l'eskimo innocente" di Francesco Guccini, un giaccone freddo e permeabile – chissà quanti soldi avevano fatto i sarti della rivoluzione appioppando ai ragazzi gli stracci grigioverde foderati di finto pelo? – L'eskimo aveva tasche abbastanza profonde da traghettare segreti e cappucci grandi e pelosi per infilarci pensieri e capelli lunghi, e nascondere le facce alla polizia.

Certe mattine la Celere faceva parte del panorama, come le montagne. Se dalla cresta di coppi si girava la testa nella direzione del sole, si potevano vedere la collina bianca di neve e le camionette blu che aspettavano la rabbia degli studenti. Se invece ci si voltava dall'altra parte, a ovest oltre la città, si riusciva a classificare le cime delle Graie dal triangolo bianco del Rocciamelone al trapezio sghembo della Bessanese, dalle vele delle Levanne al trono del Gran Paradiso.

«Sai che domenica hanno fatto la Nord del Grampa» aveva detto Andrea nell'inverno senza nuvole della quarta liceo.

«Davvero?»

«Sì, otto ore dalla terminale alla madonnina.»

«Sarà stata di vetro, con questo freddo.»

«La madonnina?»

«No, la parete.»

«Ah sì: ghiaccio verde. Bisogna gradinare tutto il pendio.»

Nanni l'aveva guardato in faccia per verificare se fosse serio.

«Ti piacerebbe?»

«Non so. Magari ci sono già gli scalini fatti...»

«Lo sai che hanno inventato le due piccozze?»

«Sì, ma noi due ne abbiamo solo una.»

«Possiamo farcele prestare...»

Alla fine Andrea aveva confessato sottovoce:

«Sai che non mi tira. E a te?»

«Non so. Ci devo pensare.»

Per tutti e due voleva dire no, che non si andava, ma con delle differenze di interpretazione. Per Andrea il Gran Paradiso aveva una bella parete nord, senz'altro impegnativa a gennaio, con venti gradi sotto e appena dieci ore di luce per tirarsi fuori dai guai, però la via era troppo classica e fuori moda, roba da matusa. La Nord del Grampa non era abbastanza alternativa nel tempo della trasgressione, solo una prova di eroismo controrivoluzionario. Invece il «non so» di Settembrini dipendeva da ragioni estetiche: Nanni preferiva i colori di giugno, quando a duemila metri fioriscono i nevai e sopra i tremila puoi passare impunemente dall'estate all'inverno e ritorno, per vivere due vite in un giorno solo.

«Hai visto quanti cubetti?» aveva riattaccato Andrea girandosi dall'altra parte.

«Dove?»

«Là nel mucchio; dietro il cantiere.»

«Ecco perché hanno messo la camionetta di traverso.»

«Dici che basterà a fermarli?»

«Può darsi, non saprei.»

«Secondo me non basta.»

Poi Andrea lo aveva fissato con aria fetente:

«Tu li tireresti i sassi addosso ai pulotti?»

Lui aveva fatto uno sforzo per rispondere:

«Non credo. Non ci riesco.»

«Nemmeno se incominciano loro?»

«Dovrebbero?»

La cresta di coppi divideva indubbiamente due mondi lontani, ma non inconciliabili. Ai loro occhi di studenti scalatori il profilo freddo delle cime non escludeva il metallo delle camionette: erano due tipi di lotta diversamente dura. La passione che nei giorni di festa li spingeva a calcare quei profili collezionando cieli, in settimana generava piani di distruzione.

Erano direzioni contrarie, se ne rendevano conto, ma il potere delle istituzioni e il porfido delle piazze andavano smontati cubetto su cubetto, fino a denudare il fango che c'era sotto.

Nanni e Andrea sapevano di appartenere a un corpo speciale: sognatori demolitori.

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4
RUMINAZIONI



Olivier Gorret non era in casa.

Potevo telefonare prima, pensò Settembrini, ma era una cosa che detestava. A suo modo Nanni credeva nel destino, o in qualche disegno incontrastabile. E poi gli piacevano le sorprese.

Si avvicinò alla stalla e ficcò l'occhio in un buco del legno. Le bestie non c'erano, dunque il vecchio era al pascolo. Ma dove? Esplorò la montagna con lo sguardo e individuò almeno tre posti frequentati da suo suocero e dalle vacche, secondo il sole e le stagioni. Di solito a luglio salivano all'alpe sotto i duemila metri, ma l'estate era così in ritardo che avrebbe anche potuto trovarli al pascolo inferiore. Nanni se lo augurò, perché non aveva voglia di camminare.

Ebbe ragione e fortuna. Olivier se ne stava sdraiato con un filo di erba medica tra i denti, nel prato più basso chiamato mayen, il maggengo. Teneva un coltello a serramanico nella mano destra e un bastone di legno tenero nella sinistra. Ogni tanto incideva un tratto di figura. Olivier aveva una collezione infinita di rami recanti corpi di donna, che con il tempo si erano fatti sempre più astratti a allungati, quasi evanescenti, e contrastavano con la femminilità procace delle donne che aveva avuto per davvero. Ora le mani e il coltello del vecchio le sublimavano.

Settembrini fu colpito dal verde della radura. A maggio c'erano ancora chiazze di neve fino al bordo superiore del pascolo e poi era arrivata improvvisamente l'acqua, una pioggia da monsone, che aveva lavato l'inverno e preparato la primavera. L'erba era maturata di colpo per il primo fieno, e ora quella sfalciata da venti giorni aveva già bisogno di un secondo taglio. C'era altro lavoro che aspettava la falce e le braccia ossute del vecchio.

«Quest'anno non ti manca la pastura» aveva detto Nanni cogliendolo di sorpresa.

Olivier si era girato con una rotazione lenta e aveva salutato con la mano sinistra.

«Quale vento ti porta, Torinese?»

«Non c'è vento nonno, solo aria di bel tempo.»

Il montanaro lo sapeva bene e aspirava a pieni polmoni la brezza e l'odore dei fiori, manco fossero gli ultimi respiri. Viveva quasi ogni momento a quel modo, il saggio Olivier.

«Siediti» disse, «c'è ancora posto.»

Come fa uno così a essere il papà di Clara?, si chiese Settembrini buttandosi sull'erba (talvolta rimuginava ancora sulla donna che era stata sua moglie, ma con toni sempre più distaccati). Nel mettersi giù cercò di risparmiare le margherite, anche se la radura era tempestata di fiori e bisognava essere formiche o lucertole per non fare danno nell'ecosistema del prato alpino. Tanto ricrescono, si assolse il forestiero.

Cinque metri più in là, all'ombra di un larice secolare, il cane pastore russava. Avrebbe dovuto badare alle vacche il vecchio Eiger, ma la Rossa e la Bionda erano così occupate a ingoiare e ruminare l'erba che non c'era bisogno di correre. Le conosceva, si poteva fidare.

«Chi è più anziano: tu o il cane?» chiese Settembrini.

«Come faccio a saperlo?»

«Basta che moltiplichi per sette.»

«Allora è più vecchio lui: non vedi quanto dorme?»

Olivier porgeva la fronte alta al cielo e assorbiva il calore del sole. Era cresciuto con le parole dell'abbé Chanoux: la montagna non regala niente, per tre mesi di freddo devi sopportarne nove di gelo.

«Perché l'hai chiamato Eiger?» riattaccò Nanni.

«Perché vuoi dire orco.»

«E allora?»

«Mi piacciono gli orchi, ecco tutto.»

Entrambi sapevano che l'Eiger era una montagna famosa, e che aveva fatto molte vittime durante il Ventennio. Settembrini era stato più volte nell'Oberland Bernese e Gorret aveva letto i libri di Harrer; qualche volta raccontava la storia di Toni Kurz e Andreas Hinterstoisser, che non erano mai tornati dalla montagna. Kurz era morto a pochi metri dai soccorritori impiccato alla corda implorando aiuto. Una vittima sacrificale. Secondo Olivier non era colpa del nazismo se quel giovane era andato a uccidersi sull'Eigerwand, perché si può anche essere così fessi da morire per Hitler ma per scalare una parete di duemila metri ci vogliono intelligenza e motivazione. Ribadì il suo punto di vista:

«Ho saputo che quest'inverno è uscito il film su Kurz e mi hanno detto che il regista la pensa come me. Il ragazzo era speciale.»

«Ho visto il film a Torino» confermò Nanni. «Hai ragione: sullo schermo Kurz è un bell'uomo e fa una bella figura.»

«Sono contento» disse il vecchio.

Eiger mosse la coda e aprì un occhio. Tutto a posto, ricominciò a russare.

«Quindi non erano suggestionati, secondo te?» domandò Nanni per provocarlo.

Il vecchio si girò venti gradi verso di lui, posò il bastone sull'erba e strappò un altro filo con le mani grandi da montanaro. Mise la pagliuzza tra le labbra e rispose:

«Vuoi sapere se erano pazzi? Certo che lo erano. Erano pazzi per la montagna, sai bene che cosa dico, e siccome i nazisti avevano un gran bisogno di eroi cercavano di usare la passione di quei ragazzi. Si chiama strumentalizzazione, lo faceva anche il fascio.»

«Quindi l'avrebbero scalata lo stesso?»

«Certo, tu non ci avresti provato?»

«Io no», pensò Settembrini, la parete dell'Eiger era troppo pericolosa, però il film su Toni Kurz l'aveva colpito perché c'era la stessa giovinezza dei suoi vent'anni, quando lui e Andrea si eclissavano dalla rivoluzione per prendersi un pezzo di cielo. Lui e Andrea, Toni e Andreas scappavano da due ideologie contrapposte, ma davanti alla parete erano posseduti allo stesso modo: sogno, sfida, passione e amicizia. Nessun adulto avrebbe mai potuto fermarli, perché fuggivano dalla paura di diventare come lui.

Rovistando nei ricordi Settembrini ebbe un'intuizione, o una nostalgia. Non disse niente a Olivier, rimandò a più tardi. Intanto il sole scendeva dietro la cresta invisibile del Monte Bianco ma la luce non declinava, come capita ai giorni più lunghi e alle ombre più brevi. Anche la sera, perfino la notte avrebbe trattenuto un po' di quella luce estiva per restituirla l'indomani prima delle cinque, quando il vecchio sarebbe sceso a mungere le vacche odorando il primo latte di luglio.

«Non ho neanche un pezzo di fontina da farti assaggiare» confessò al genero allargando le braccia. «Ma passa da casa che beviamo un bicchiere.»

Il rito del formaggio stagionato accomunava i palati e scandiva gli incontri di Nanni e Olivier, ma era tardi e lui doveva scendere da Camilla. L'aveva promesso.

«C'è già la fontina nuova?» chiese prima di andare.

«No, è ancora il latte del fieno» rispose Olivier stringendo il pugno.

Intendeva l'erba vecchia, il fieno della stalla, da cui si ottengono un latte e un formaggio diversi dal latte e dalla fontina di pascolo, che lasciano in bocca l'amaro delle erbe, il profumo dei fiori e il ricordo della bella stagione.

Settembrini guardò Gorret e gli contò le rughe.

«Ce la fai da solo, vecchio?»

«Sto bene con le bestie. Non faccio fatica.»

Entrambi sapevano che mentiva. Era il loro segreto.

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Pagina 65

11
LA NOTTE DI LUI



Sognò che apriva lentamente la cerniera, usciva dalla tenda ed entrava nella notte stellata. Fuori lo aspettavano uno spicchio di luna e un filo di brezza, promesse di bel tempo.

Pochi minuti dopo Andrea lo seguiva sul ghiaione senza smuovere nemmeno un sasso, erano due ermellini senza peso, e la parete li guardava materna con le ali spalancate dicendo «venite ragazzi, non abbiate paura».

Sognò l'arrampicata perfetta, che comincia con la prima luce dell'aurora e termina nelle fiamme del tramonto. In mezzo quaranta tiri di corda come i quaranta versi di una poesia, e per ogni tiro la rima giusta, una musica e il suo ritornello. Venti lunghezze lui e venti Andrea, dieci al mattino e dieci al pomeriggio, nessun inciampo, la salita ideale.

Sognò mille metri d'acqua, una scalata liquida. Quando era il suo turno di andare avanti lasciava l'ancoraggio e nuotava fino alla boa successiva trascinando un filo di corda. Tra una sosta e l'altra c'era un azzurro braccio di mare da attraversare bracciata dopo bracciata, semplicemente. Per dominare le profondità bastava prendere un bel respiro e desiderare la boa seguente.

Sognò che una cordata dopo l'altra filavano la parete; fabbricavano il vuoto e consumavano il cielo, fino a raggiungerlo. Non sentivano né caldo né freddo perché nel giorno dell'ascensione perfetta la luce va a rovescio, da occidente a oriente. Il sole nasce a ovest sulla cima della Marmolada e tramonta a est dietro la Civetta, invertendo il suo percorso per ingentilire la parete nell'ora ostile dell'alba e rinfrescare gli alpinisti dopo il mezzogiorno, quando i muscoli cominciano a reclamare.

Raggiunta la cresta e la croce della vetta, lui e Andrea seguivano il sole fino alla porta del rifugio, che qualcuno — sicuramente una donna — aveva spalancato. Appoggiavano gli zaini contro il legno tiepido, ordinavano una birra e si stendevano sulle panche a sognare altre scalate.


Alle quattro suonò la sveglia da polso dei torinesi. Settembrini sobbalzò e per istinto fu tentato di alzarsi. Era diviso tra la febbre antica per l'avventura e la fortuna di chi può farne a meno, strappando altre due ore di sonno alla montagna.

Dopo trent'anni di ascensioni era ancora sensibile alla magia del rifugio e ai bisbigli degli alpinisti che si preparano con parole scaramantiche e atmosfere liturgiche. Ogni gesto rimanda al mistero.

Di notte il mondo è ridotto a pochi metri abitati e la vertigine resta fuori dalla porta. Nanni ricordava le parole di Samivel:

La sterminata notte carica d'abissi ruotava intorno alla minuscola conchiglia in cui riposavano gli uomini. Uno spazio domestico e fremente di gesti umani... Nient'altro che cuori amici, e la particolare tenerezza delle cose pensate per essere usate dall'uomo... La capanna navigava come un'arca carica di tepore e vita, tra le lunghe onde del silenzio e della morte.


L'arca si scuote prima dell'alba, quando un navigante — la guida di solito — apre la porta ed esce a fare pipì e interrogare le stelle:

«È bel tempo, bisogna andare!»

L'incantesimo si rompe dopo la prima pipì, che quella mattina toccò a Luca. Settembrini sentì che diceva a Marco «muoviti Scheggia, il tempo è bello, oggi non abbiamo scuse», e Marco che rispondeva «vengo, sono pronto».

Poi li sentì che scendevano in sala con i calzettoni per non fare rumore, a bere una tazza di caffè. Immaginò il termos pronto sul tavolo dalla sera prima, lo zucchero a cubetti, il pane con la marmellata, e poi le scarpe, gli zaini, la lampada frontale e la luce irriverente dei led nella notte della Civetta.

Chiudevano la porta e non si voltavano.

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Siamo in tanti, forse troppi – pensò Settembrini. Fu posseduto da un dubbio demenziale: quanti erano i primi salitori del Cervino da Zermatt? Sette, per fortuna erano soltanto sette; ma quattro erano precipitati.

Aveva visto il film in bianco e nero di Luis Trenker e ricordava benissimo la scena tragica: al giovane Hadow scivola lo scarpone chiodato e Michel Croz, il grande Croz!, precipita con lui. Mille metri di orrenda caduta lungo la parete nord e infine lo schianto sul ghiacciaio di Zmutt.

Settembrini aveva letto e riletto il racconto di Edward Whymper calandosi nella parte. In qualche incubo notturno era stato lui stesso, l'avatar di Whymper, a portarsi sulle spalle il peso della disgrazia del 1865. Gli toccava asciugare le lacrime della moglie di Croz e inchinarsi davanti al giudice svizzero per chiedere pietà.

Esibiva il mozzicone di canapa e implorava:

«Guardi signore: la corda si è spezzata, non è stata tagliata!»

E ancora:

«Era una corda per il fieno, ma di prima qualità!»

Il giudice lo compativa con la stessa faccia schifata di Clara, la sua ex moglie, poi rifletteva, alzava il martello e sputava la sentenza:

«Colpevole di alpinismo!»

Certe volte la cultura ti frega, pensò Settembrini mentre recuperava Iolanda con la corda da nove millimetri. Se avesse divorato meno libri di montagna forse sarebbe stato più libero, o almeno più leggero.

Ci pensi su troppo alle cose!, infierivano gli amici. Rilassati Torinese!, goditi il presente e dimentica tutto quanto.

Era una filosofia seducente, però lui aveva un bisogno genetico di dare senso al passato e respiro al futuro. Altrimenti soffocava. Suo padre gli aveva insegnato che l'ignoranza è più pericolosa dei crepacci e delle valanghe perché conduce all'indifferenza, e il giovane Nanni se l'era scolpito nella testa.

«Facciamo così» aveva detto il suo vecchio poco prima di ammalarsi. «Tu prometti di studiare e io giuro che non morirò democristiano.»

Poi aveva aggiunto:

«E ricordati che un Settembrini non tradisce le promesse.»

Il suo povero papà era morto di un male misterioso alla vigilia dei cinquantun anni, gli stessi suoi di adesso, dopo aver votato per Enrico Berlinguer.

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Pagina 122

Comunque la balena di roccia esisteva davvero e si stagliò nel fascio sottile della lampada frontale. Fu una fortuna perché non albeggiava ancora e nel buio si faticava a valutare la distanza. I due amici individuarono il cetaceo, lo aggirarono verso valle e poi piegarono a sinistra sul ghiaione della Civetta, passando dal viottolo fidato degli escursionisti all'incertezza della pietraia. Erano già su terre incognite.

Ora Luca si muoveva come un furetto fra ciuffi d'erba e sassi in bilico, Marco lo seguiva senza troppi complimenti, badando a conservare le energie. Li avresti detti due caratteri incompatibili: uno così raffinato nel vestire e nel camminare, l'altro arruffato e approssimativo, con la zazzera bionda legata dietro la nuca. Ma sulla roccia Scheggia diventava il più squisito degli artisti, e a ragionarci insieme scoprivi mente pungente e spirito sensibile. Da giovane arrampicatore nascondeva il talento sotto l'esteriorità trasandata, mentre Luca ricordava più l'icona dell'alpinista classico, barba carattere e contegno. In realtà si assomigliavano e si completavano: due teste fini che detestavano i conformismi, amavano le linee eleganti e cercavano la bellezza in ogni sfida.

«Comincia a fare chiaro» disse Marco indicando la sbavatura pallida all'orizzonte.

«Siamo partiti all'ora giusta» osservò il compagno.

Dopo qualche minuto la pila illuminava rocce imbiancate dal giorno, ma restò accesa per rallegrare il cammino. Salivano veloci aggirando qualche lascito di neve, puntando al colatoio sotto la direttrice del diedro.

«Che ne dici di imbragarci qui? Più in alto è scomodo» suggerì Luca.

«E va bene, molliamo le zavorre.»

Gli alpinisti sanno che quando chiudono lo zaino prima di partire per una scalata la scelta è fatta: les jeux sont faits. Se la via passa per la cima dovranno sobbarcarsi ogni grammo di peso dal rifugio al rifugio, salvo i liquidi che se ne vanno bevendo e quel po' di cibo che ci si porta dietro senza regalare troppo alla forza di gravità: barrette energetiche, cioccolata, frutta secca. Eppure quando ci si ferma ai piedi della parete per bere un sorso, imbragarsi e sfilare dallo zaino corde, fettucce, moschettoni, dadi, friend, chiodi, martello, freni e accessori vari si avverte sempre un senso di liberazione, perché il carico dell'attrezzatura passa dalle spalle ad altre parti del corpo e le corde si distendono sulla roccia distribuendo il peso e alleggerendo lo spirito. È il passaggio dalla dimensione orizzontale a quella verticale.

Più tardi ci si stacca da terra e l'arrampicata diventa un rito di speciale uguaglianza: il primo e il secondo di cordata, alternandosi in testa, dividono il rischio, il piacere e la ricerca della via. L'ascensione è una liturgia senza scorciatoie possibili: per avere la vetta bisogna scalare e filare corda, filare e scalare. La scalata è il pendolo e la corda è lo strumento. Si srotola a ogni sosta per dare metri e sostegno a chi sale davanti e si raccoglie alla sosta seguente per far salire il secondo di cordata. Chi cede corda assicurando il capocordata ha tempo di riprendere fiato, finché raggiunge il compagno, prende il comando e i ruoli si ribaltano.

Venticinque minuti prima delle sei Scheggia mordeva il freno. Appese dodici rinvii alla cintura, ordinò friend e nut nei moschettoni, indossò le scarpette e s'incamminò con una corda a tracolla verso il canale.

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