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| << | < | > | >> |Pagina 9Nuttata fitusa, 'nfami, tutta un arramazzarsi, un votati e rivotati, un addrummisciti e un arrisbigliati, un susiti e un curcati. E non per colpa di una mangiatina eccessiva di purpi a strascinasali o di sarde a beccafico fatta la sira avanti, perché almeno una scascione di quell'affannata insonnia ci sarebbe stata, invece, nossignore, manco questa soddisfazione poteva pigliarsi, la sira avanti aviva avuto lo stomaco accussì stritto che non ci sarebbe passato manco un filo d'erba. Si era trattato dei pinsèri nìvuri che l'avevano assugliato doppo avere sentito una notizia del telegiornale nazionale. «All'annigatu, petri di 'ncoddru» era il detto popolare che veniva esclamato quando una insopportabile serie di disgrazie s'abbatteva su qualche sbinturato. E per lui, che già da qualche mese nuotava alla disperata in mezzo a un mare in timpesta, e si sentiva a tratti perso come un annegato, quella notizia era stata uguale a una vera e propria pitrata tiratagli addosso, anzi una pitrata che l'aviva pigliato preciso 'n testa, tramortendolo e facendogli perdere le ultime, debolissime forze. Con un'ariata assolutamente indifferente, la giornalista del tg aveva detto che la Procura di Genova, in merito all'irruzione della polizia alla scuola Diaz nel corso del G8, si era fatta pirsuasa che le due bombe molotov, trovate nella scuola, erano state portate lì dagli stessi poliziotti per giustificare l'irruzione. Questo faceva seguito - aveva continuato la giornalista - alla scoperta che l'agente il quale aveva dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di accoltellamento da parte di un no-global, sempre nel corso di quell'irruzione, aveva in realtà mentito: il taglio alla divisa se l'era fatto lui stesso per dimostrare la pericolosità di quei ragazzi che invece, a quanto si andava via via svelando, nella scuola Diaz stavano pacificamente dormendo. Ascutata la notizia, per una mezzorata Montalbano era restato assittato sulla poltrona davanti al televisore, privo della capacità di pinsari, scosso da un misto di raggia e di vrigogna, assammarato di sudore. Non aveva manco trovato la forza di susirisi per rispondere al telefono che stette a squillare a longo. Bastava ragionare tanticchia supra quelle notizie che venivano date col contagocce e con governativa osservanza dalla stampa e dalla televisione per farsi preciso concetto: i suoi compagni e colleghi, a Genova, avevano compiuto un illegale atto di violenza alla scordatina, una specie di vendetta fatta a friddo e per di più fabbricando prove false. Cose che facevano tornare a mente episodi seppelluti della polizia fascista o di quella di Scelba. Poi s'arrisolse ad andare a corcarsi. Mentre si susiva dalla poltrona, il telefono ripigliò la camurria degli squilli. Senza manco rendersene conto, sollevò la cornetta. Era Livia. «Salvo! Dio mio, quanto ti ho chiamato! Stavo cominciando a preoccuparmi! Non sentivi?». «Ho sentito; ma non avevo voglia di rispondere. Non sapevo che eri tu». «Che facevi?». «Niente. Pensavo a quello che hanno detto in televisione». «Sui fatti di Genova?». «Sì». «Ah. Anch'io ho visto il telegiornale». Pausa. E poi: «Vorrei essere lì con te. Vuoi che domani prendo un aereo? Possiamo parlarne assieme, con calma. Vedrai che...». «Livia, ormai c'è poco da dire. In questi ultimi mesi ne abbiamo parlato e riparlato. Stavolta ho preso una decisione seria». «Quale?». «Mi dimetto. Domani vado dal Questore e gli presento le dimissioni. Bonetti-Alderighi ne sarà felicissimo». Livia non reagì subito, tanto che Montalbano ebbe l'impressione che fosse caduta la linea. «Pronto, Livia? Sei lì?». «Sono qui. Salvo, a mio parere, tu commetti un errore gravissimo ad andartene così». «Così come?». «Arrabbiato e deluso. Tu vuoi lasciare la polizia perché ti senti come chi è stato tradito dalla persona nella quale aveva più fiducia e allora...». «Livia, io non mi sento tradito. Io sono stato tradito. Non si tratta di sensazioni. Ho sempre fatto il mio mestiere con onestà. Da galantomo. Se davo la mia parola a un delinquente, la rispettavo. E perciò sono rispettato. È stata la mia forza, lo capisci? Ma ora mi siddriai, m'abbuttai». «Non gridare, ti prego» fece Livia con la voce che le tremava. Montalbano non la sentì. Dintra di lui c'era una rumorata stramma, come se il suo sangue fosse arrivato al punto di bollitura. Continuò. «Manco contro il peggio delinquente ho fabbricato una prova! Mai! Se l'avessi fatto mi sarei messo al suo livello. Allora sì che il mio mestiere di sbirro sarebbe diventato una cosa lorda! Ma ti rendi conto, Livia? Ad assaltare quella scuola e a fabbricare prove false non è stato qualche agente ignorante e violento, c'erano questori e vicequestori, capi della mobile e compagnia bella!». Solo allora capì che a fare quel suono che sentiva nella cornetta erano i singhiozzi di Livia. Respirò profondamente. «Livia?». «Sì». «Ti amo. Buonanotte».
Riattaccò. Si curcò. Ed ebbe inizio la nuttata 'nfami.
La vera virità era che il comincio del disagio di Montalbano risaliva a
tempo prima, a quando la televisione aveva fatto vidiri il Presidente del
consiglio che se la fissiava avanti e narrè
per i carrugi di Genova sistemando fioriere e ordinando di togliere le mutanne
stese ad asciugare su balconi e finestre mentre il suo ministro dell'interno
pigliava misure di sicurezza assai più adatte a una guerra civile imminente che
a una riunione di capi di governo: reti d'acciaio che impedivano l'accesso a
certe strade, piombatura dei tombini, chiusura delle frontiere e di alcune
stazioni, pattugliamento del mare e persino l'installazione di una batteria di
missili. C'era - pinsò il commissario - un eccesso di difesa tanto ostentato da
costituire una specie di provocazione. Doppo era successo quello che era
successo: certo, c'era scappato il morto tra i dimostranti, ma forse la cosa più
grave era stato il comportamento di alcuni reparti della polizia che avevano
preferito sparare lacrimogeni su pacifici manifestanti lasciando liberi di fare
e disfare i più violenti, i cosiddetti black bloc. E appresso c'era stata la
laida facenna della scuola Diaz che assomigliava non a un'operazione di polizia,
ma a una specie di trista e violenta sopraffazione per sfogare istinti di
vendetta repressi.
Tri jorna doppo il G8, mentre infuriavano le polemiche in tutta Italia, Montalbano era arrivato tardo in ufficio. Appena fermò la macchina e scinnì, s'addunò che due imbianchini stavano passando una mano di calce su un muro laterale del commissariato. «Ah dottori dottori!» fece Catarella vedendolo trasire. «Vastasate ci scrissero stanotti!». Montalbano non capì di subito: «Chi ci ha scritto?» «Non sono a canoscenza di chi fu che scrisse di pirsona pirsonalmenti». Ma che minchia voleva dire, Catarella? «Era una lettera anonima?». «Nonsi dottori, non era gnonima, dottori, murale era. Fu proprio a scascione di questa muralità che Fazio stamatina di presto mandò a chiamari i pittura per scancillari». E finalmente il commissario si spiegò la presenza dei due imbianchini. «Che c'era scritto?». Catarella arrussicò violentemente e tentò un diversivo. «Con le bombololette spraghi nìvure le avevano scrivute le parolazze». «Va bene, che c'era scritto?». «Sbirri farrabuti» arrispunnì Catarella tenendo l'occhi vasci. «E basta?». «Nonsi. Macari asasini c'era scrivuto. Farrabuti e asasini». «Catarè, ma perché te la stai pigliando tanto?». Catarella parse sul punto di mittirisi a chiangiri. «Pirchì ccà dintra nisciuno è farrabuto o asasino, a cominzare da vossia, dottori, e a finiri a mia ca sono l'urtima rota del carretto». Montalbano gli posò a conforto una mano sulla spalla e si avviò verso la sò càmmara. Catarella lo richiamò. «Ah, dottori! Mi scordai: grannissimi cornuti c'era macari scrivuto». | << | < | > | >> |Pagina 56Era contento di non trovarsi al posto di Riguccio. Il Questore si era messo d'accordo con la Capitaneria la quale comunicava direttamente alla Questura di Montelusa ogni arrivo di extracomunitari. E allura Riguccio si partiva verso Vigàta con una teoria di pullman requisiti, automezzi carrichi di poliziotti, ambulanze, jeep. E ogni volta, tragedie, scene di chianti e di duluri. C'era da dare adenzia a fìmmine che stavano partorendo, a picciliddri scomparsi nella confusione, a pirsone che avivano perso la testa o che erano addiventate malate durante viaggi interminabili passati sopracoperta all'acqua e al vento. Quanno sbarcavano, l'aria frisca del mare non arrinisciva a disperdere l'odore insopportabile che si portavano appresso, che non era feto di gente mala lavata, ma feto di scanto, d'angoscia, di sofferenza, di disperazione arrivata a quel limite oltre il quale c'è sulamenti la spiranza della morti. Impossibile restare indifferenti e per questo Riguccio gli aveva confessato che non reggeva più.Quanno arrivò sul porto, il commissario vitti che la prima motovedetta aviva già calato la passerella. I poliziotti si erano disposti su due file a formare una specie di corridoio umano fino al primo pullman che aspittava col motore addrumato. Riguccio, che era ai pedi della passerella, ringraziò appena Montalbano e inforcò gli occhiali. Il commissario ebbe l'impressione che il suo collega manco l'avesse raccanosciuto, tanto era attento a controllare la situazione. Doppo, Riguccio desi il via allo sbarco. La prima a scinniri fu una fìmmina nìvura con una panza accussì grossa che pariva dovisse sgravarsi da un momento all'altro. Non ce la faceva a dari un passo. L'aiutavano un marinaro della motovedetta e un altro omo nìvuro. Arrivati all'ambulanza, ci fu turilla pirchì il nìvuro vuriva acchianarci 'nzemmula alla fìmmina. Il marinaro tentò di spiegare ai poliziotti che sicuramente quello era il marito, pirchì durante la traversata era stato sempre abbrazzato a lei. Non ci fu verso, non era possibile. L'ambulanza se ne partì a sirena addrumata. Allura il marinaro pigliò sottovrazzo il nìvuro che si era messo a chiangiri e l'accompagnò al pullman, parlandogli fitto fitto. Pigliato di curiosità, il commissario s'avvicinò. Il marinaro gli discurriva in dialetto, doviva essiri veneziano o di quelle parti, e il nìvuro non ci capiva nenti, ma si sintiva confortato l'istisso dal sono amico delle parole. Montalbano aviva appena addeciso di tornarsene verso la sò macchina quanno vitti sbandare, variare come se fosse fatto di 'mbriachi, un gruppo di quattro extracomunitari che erano arrivati alla fine della passerella. Per un attimo, non si capì quello che stava succedendo. Doppo si vitti sbucare d'in mezzo alle gambe dei quattro un picciliddro che poteva aviri massimo massimo sei anni. Comparso all'improvviso, altrettanto improvvisamente spirì superando in un vidiri e svidiri lo schieramento degli agenti. Mentre due poliziotti pigliavano a correre all'inseguimento, Montalbano 'ntravitti il picciliddro che, con l'istinto di un armàlo braccato, si stava dirigendo verso la zona meno illuminata della banchina, dove c'erano i resti di un vecchio silos che, per sicurezza, era stato circondato torno torno da un muro. Non seppe mai cosa lo spinse a gridare: «Fermi! Il commissario Montalbano sono! Tornate indietro! Vado io!». | << | < | > | >> |Pagina 64La telefonata però gli aviva fatto perdiri il notiziario di «Retelibera».Addrumò lo stisso la televisione sintonizzandosi su «Televigàta». La prima cosa che dissero fu che mentre centocinquanta extracomunitari venivano fatti sbarcare a Vigàta, era capitata una tragedia a Scroglitti, nella parte orientale dell'isola. Lì c'era malo tempo e un barcone accalcato di aspiranti immigrati era andato a sbattere sugli scogli. Quindici i corpi al momento recuperati. «Ma il bilancio delle vittime è destinato a salire» disse un giornalista usando una frase, ahimè, fatta. Intanto si vedevano immagini di corpi d'annegati, di vrazza che pinnuliavano inerti, di teste arrovesciate narrè, di picciliddri avvolti in inutili coperte che non avrebbero più potuto dare calore alla morte, di volti stravolti di soccorritori, di corse convulse verso ambulanze, di un parrino inginocchiato che pregava. Sconvolgenti. Sì, ma sconvolgenti per chi? - si spiò il commissario. A forza di vederle, quelle immagini così diverse e così simili, lentamente ci si abituava. Uno le taliava, diceva «povirazzi» e continuava a mangiarsi gli spaghetti con le vongole. Su queste immagini, apparse la faccia a culo di gallina di Pippo Ragonese. «In casi come questi» disse il notista principe della rete «è assolutamente necessario far ricorso alla freddezza della ragione senza lasciarsi sopraffare dall'istintività dei sentimenti. Bisogna riflettere su un fatto elementare: la nostra civiltà cristiana non può essere snaturata sin dalle fondamenta da orde incontrollate di disperati e di delinquenti che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste. Questa gente rappresenta un autentico pericolo per noi, per l'Italia, per tutto il mondo occidentale. La legge Cozzi-Pini, recentemente varata dal nostro governo, è, checché ne dica l'opposizione, l'unico, vero baluardo all'invasione. Ma sentiamo il parere in proposito di un illuminato uomo politico, l'onorevole Cenzo Falpalà». Falpalà era uno che tentava di fare la faccia di chi avverte che a lui nisciuno al mondo sarebbe arrinisciuto a pigliarlo per il culo. «Ho solo una breve dichiarazione da fare. La legge Cozzi-Pini sta dimostrando di funzionare egregiamente e se gli immigrati muoiono è proprio perché la legge fornisce gli strumenti per perseguire gli scafisti che, in caso di difficoltà, non si fanno scrupoli di buttare a mare i disperati per non rischiare di essere arrestati. Inoltre vorrei dire che...». Montalbano, di scatto, si susì e cangiò canale, più che arraggiato, avvilito da quella presuntuosa stupidità. Si illudevano di fermare una migrazione epocale con provvedimenti di polizia e con decreti legge. E s'arricordò che una volta aveva veduto, in un paese toscano, i cardini del portone di una chiesa distorti da una pressione accussì potente che li aveva fatti girare nel senso opposto a quello per cui erano stati fabbricati. Aveva domandato spiegazioni a uno del posto. E quello gli aveva contato che, al tempo della guerra, i nazisti avevano inserrato gli òmini del paese dintra alla chiesa, avevano chiuso il portone, e avevano cominciato a gettare bombe a mano dall'alto. Allora le pirsone, per la disperazione, avevano forzato la porta a raprirsi in senso contrario e molti erano arrinisciuti a scappare. Ecco: quella gente che arrivava da tutte le parti più povere e devastate del mondo aveva in sé tanta forza, tanta disperazione da far girare i cardini della storia in senso contrario. Con buona pace di Cozzi, Pini, Falpalà e soci. I quali erano causa ed effetto di un mondo fatto di terroristi che ammazzavano tremila americani in un botto solo, di americani che consideravano centinara e centinara di morti civili come «effetti collaterali» dei loro bombardamenti, di automobilisti che scrafazzavano pirsone e non si fermavano a soccorrerle, di matri che ammazzavano i figli in culla senza un pirchì, di figli che scannavano matri, patri, fratelli e sorelle per soldi, di bilanci falsi che a norma di nuove regole non erano da considerarsi falsi, di gente che avrebbe dovuto da anni trovarsi in galera e invece non solo era libera, ma faciva e dettava liggi. | << | < | > | >> |Pagina 99S'arrisbigliò alle sett'albe, ma restò corcato, l'occhi aperti a taliare il soffitto che lentissimamente schiariva con il cielo. La splapita luce che trasiva dalla finestra era netta e fissa, non aveva le variazioni d'intensità dovute al passaggio delle nuvole. S'apprisentava una bella giornata. Meglio accussì, il tempo tinto non l'aiutava. Sarebbe stato più fermo e deciso nello spiegare al Questore le ragioni delle dimissioni. E a questa parola, gli tornò a mente un episodio che gli era capitato quanno, trasuto nella Polizia, ancora non era a Vigàta. Appresso si arricordò di quella volta che... E di quell'altra volta che... E tutto 'nzemmula il commissario capì il perché di quell'affollarsi di ricordi: dicono che quando uno è in punto di morte, gli passino davanti, come in una pellicola, le cose più importanti della sua vita. Stava capitando lo stesso a lui? Dentro di sé considerava le dimissioni come una vera e propria morte? Si riscosse sentendo lo squillo del telefono. Taliò il ralogio, si erano fatte le otto e non se ne era addunato. Matre santa, quanto era stato longo il film della sò vita! Pejo di «Via col vento!» Si susì, andò a rispondere. «Buongiorno, dottore. Sono Pazio. Sto ripartendo per continuare quella ricerca...». Stava per dirgli di lasciar perdiri, ma sinni pintì. «... e siccome ho saputo che oggi doppopranzo deve vedere il Questore, le ho preparato le carte da firmare e le altre sulla sua scrivania». «Grazie, Fazio. Novità?». «Nessuna, dottore». Dato che doveva andare in Questura nelle prime ore del pomeriggio e non avrebbe perciò avuto il tempo di tornare a Marinella per cangiarsi, dovette vestirsi di tutto punto. La cravatta però preferì infilarsela in sacchetta, se la sarebbe messa a tempo debito. Lo distrubbava assà andare in giro col cappio al collo fin dalla prima matina. La pila di carte sulla scrivania era in equilibrio instabile. Se fosse trasuto Catarella sbattendo la porta al modo sò, si sarebbe riverificato il crollo della torre di Babele. Firmò per oltre un'arata senza mai isare gli occhi, doppo sentì il bisogno d'arriposarsi tanticchia. Decise d'andarsi a fumare una sigaretta fora. Niscì e, sul marciapiede, si mise una mano in sacchetta per pigliare pacchetto e accendino. Nenti, se li era scordati a Marinella. In compenso, alloro posto, ci stava la cravatta che aveva scelto, verde a pallini rossi. La fece scomparire di subito, taliandosi torno torno come fa un latro con un portafoglio appena borseggiato. Gesù! Com'era capitata quella cravatta ignobile tra le sue? E non si era addunato dei colori quando se l'era messa in sacchetta? Tornò dintra. «Catarè, vedi se qualcuno può prestarmi una cravatta» disse passando per andare nel suo ufficio. Catarella s'appresentò doppo cinco minuti con tri cravatti. «Di chi sono?». «Di Torretta, dottori». «Quello stesso che ha prestato gli occhiali a Riguccio». «Sissi, dottori». Scelse quella che faceva meno a botte col suo vestito grigio. Con un'altra orata e mezza di firme ce la fece a finire la pila. Si mise a cercare la borsa dintra alla quale infilava le carte quanno andava a rapporto. Mise santianno sottosopra l'ufficio, ma non ci fu verso di trovarla. «Catarella!». «Comandi, dottori!». «Hai per caso visto la mia borsa?». «Nonsi, dottori». Quasi certamente se l'era portata a Marinella scordandosela lì. «Vedi se qualcuno in ufficio...». «Faccio subito provvidenza, dottori». Tornò con due borse quasi nove, una nìvura, l'altra marrone. Montalbano sciglì la nìvura. «Chi te le ha date?». «Torretta, dottori». Vuoi vedere che questo Torretta aveva aperto un emporio dintra al commissariato? | << | < | > | >> |Pagina 201Montalbano si susì per ricevere il giornalista e si fermò a mezzo, alluccuto. Perché sulla soglia si era appresentato quello che in prima gli era parso un grosso mazzo di giaggioli camminante. Invece si trattava di un amo, un cinquantina, tutto vistuto di sfumature varie di azzurroviolaceo, una specie di botola tondo, faccia tonda, pancetta tonda, occhiali tondi, sorriso tondo. L'unica cosa non tonda era la bocca, le labbra erano accussì grosse e rosse che parevano finte, pittate. In un circo equestre sicuramente avrebbe potuto avere un grande successo come clown. Avanzò velocissimo, una trottola, pruì la mano al commissario. Il quale, per stringergliela, dovette stendersi di longo con la panza appoggiata sulla scrivania. «Si accomodi». Il mazzo di giaggioli s'assittò. Montalbano non credette alle sue nasche: quell'amo profumava macari di giaggiolo. Santiando dintra di sé, il commissario si priparò a perdere un'arata di tempo. O forse di meno, una scusa qualisisiasi per liquitarlo l'avrebbe trovata. Anzi, la meglio era priparare il terreno da subito. «Lei mi scuserà, signor Pilato...». «Melato». Mallitto Catarella! «... Melato, ma è capitato in una giornata veramente impossibile. Ho pochissimo tempo per...». Il giornalista isò una manuzza che il commissario si stupì non fosse di colore violaceo, ma rosea. «Capisco benissimo. Le ruberò poco tempo. Volevo iniziare con una domanda...». «No, permetta che la domanda la faccia io: perché e di che vuole parlarmi?». «Ecco, commissario, qualche sera fa mi trovavo sulla banchina del porto quando due motovedette della marina stavano facendo sbarcare... E l'ho intravista lì». «Ah, per quello?» «Sì. E mi sono chiesto se per caso uno come lei, un investigatore di fama...». Aviva sbagliato. A sentirsi fare un elogio, un complimento, Montalbano s'inquartava. Chiuso a riccio, addivintava una palla di spine. «Senta, io ero lì proprio per caso. Una questione di occhiali». «Occhiali?» sbalordì l'altro. Subito appresso fece un sorrisetto furbo. «Ho capito. Lei mi vuole depistare!». Montalbano si susì. «Le ho detto la verità e lei non ci ha creduto. Penso che andare avanti così sarebbe un'inutile perdita di tempo per me e per lei. Buongiorno». Il mazzo di giaggioli si susì e parse di colpo appassito. La sua manuzza pigliò quella che il commissario gli pruiva. «Buongiorno» esalò strisciando verso la porta. A Montalbano, improvvisamente, fece pena. «Se le interessa il problema degli sbarchi degli extracomunitari la posso far ricevere da un collega che...». «Il dottor Riguccio? Grazie, ci ho già parlato. Ma lui vede solo il grosso problema degli sbarchi dei clandestini e basta». «Perché, ci sarebbe da vedere un problema più piccolo dentro un problema così grosso?». «Volendo, sì». «E quale sarebbe?». «Il commercio di bambini extracomunitari» fece Sozio Melato raprendo la porta e niscendo. Come nei cartoni animati, priciso 'ntifico all'istisso modo, due parole che il giornalista aviva allura allura detto, commercio e bambini, si solidificarono, apparsero stampate in nìvuro nell'aria, pirchì la càmmara non c'era più, ogni cosa scomparsa dintra una specie di luce lattiginosa che le cummigliava, doppo un milionesimo di secondo le due parole si mossero, s'intrecciarono l'una all'altra, ora erano due serpenti che s'azzuffavano, si fusero, cangiarono colore, addivintarono un globo luminosissimo dal quale si partì una specie di fulmine che centrò Montalbano in mezzo all'occhi. «Madonna!» invocò aggrappandosi alla scrivania. In meno di un secondo tutti i pezzi sparsi del puzzle che firriavano nella sò testa si andarono a sistemare al posto giusto, perfettamente combaciando. Poi tutto tornò normale, ogni cosa ricomparse nella sua forma e colore, ma quello che non arrinisciva a tornare ad essere normale era proprio lui, pirchì non ce la faciva a cataminarsi e la sò vucca s'arrefutava ostinatamente di raprirsi per richiamare narrè il giornalista. Finalmente arriniscì ad agguantare il telefono.
«Ferma il giornalista!» ordinò, con voce arragatata, a Catarella.
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