Copertina
Autore Andrea Camilleri
Titolo La presa di Macallè
EdizioneSellerio, Palermo, 2003, La memoria 585 , pag. 276, cop.fle.sov., dim. 120x170x17 mm , Isbn 978-88-389-1896-4
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Uno



Venne arrisbigliato, a notti funna, da un gran catunio di vociate e di chianti che veniva dalla càmmara di mangiari. Ma era cosa stramma assà pirchì tanto le vociate quanto i chianti erano assufficati, squasiche chi stava facendo catunio non vulisse fari sentiri il catunio che stava facendo.

Michilino, che era un picciliddro vicino a se' anni ma sperto, di subito, dal lettino dove stava corcato, taliò nel letto granni indovi dormivano sò patre e sò matre. Non c'erano, si erano susuti e quindi dovevano essere loro a catuniare: infatti, appizzate le grecchie, sentì distintamente che a fare vociate che non si capivano e a chiangiri era 'a mamà, mentre inveci 'u papà ogni tanto interveniva a mezza voce:

«Basta, Ernestì! Basta che stai arrisbigliando 'u paìsi! Accura, Ernestì, che se m'incazzo io finisce a schifìo!».

Levatosi a mezzo, si sforzò di vedere che ora era, la sveglia stava sul comodino della matre, quello più vicino alla sò branna, allato a una statueddra della Madonna con un lumino sempri addrumato per divozione. I nummari li sapeva leggere pirchì glieli aveva inzignati la cuscina Marietta, che era sidicina e che, a malgrado che parisse fìmmina fatta, con Michilino ci stava spisso e ci parlava e certi voti si metteva a jucari con lui squasiche fosse una picciliddra. Erano le quattro del matino. Taliò meglio il letto granni, le linzola erano pieghe pieghe e tutte arravugliate, i cuscini dalla parte della matre erano messi di traverso, signo certo perciò che 'u papà e 'a mamà prima si erano corcati e po' si erano susuti. Ma che poteva essiri capitato? Pigliato di curiosità, scinnì dal letto e a pedi leggio, infilato il corridoio, arrivò darrè la porta della càmmara di mangiari che non era completamente chiusa, restava una filatura dalla quale trasiva la luce del lampadario. Accostò la faccia allo spiraglio, ma di subito si tirò narrè.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 30

Erano tempi che' a mamà non cantava più le canzuna di Carlo Buti, ora cantava quello che ascutava alla radio, ma una in particolare era capace d'arripeterla dalla matina alla sira, una canzuna che principiava accussì: «Faccetta nera / bell'abissina». 'A mamà fece catunio quanno trovò in una sacchetta della giacchetta do papà una cartolina indovi era rapprisintata una fìmmina nìvura con le minne tutte di fora. Macari nel giornaletto «Il Balilla», che 'u papà gli accattava 'nzemmula a «Topolino», «L'Avventuroso» e «L'Audace», comparivano questi tirribili e firoci bissini che avivano un re impiratori con la curuna 'n testa e i pedi scàvusi, senza scarpi, e questo pirchì era re sì, ma sempri un serbaggio che di nome faciva Alè Sellassè. Michilino addecise ch'era arrivato il momento di lassari perdiri l'indiani e di principiare a dare la caccia ai bissini col moschetto arrigalato da 'u papà. La baionetta del moschetto, a differenzia di quella dei sordati veri, era già attaccata e si isava e s'abbassava a siconda del bisogno. La lama era a forma di triangolo e di subito Michilino s'addunò che aveva la punta apposta ammaccata e non era manco affilata. Nei sei jorna che ancora passò in vacanza nella campagna di nonno Filippo, ogni doppopranzo sinni scinnì nella dispenza indovi 'u nonno teneva gli strumentii e, con una lima e una petra firrigna, affilò la lama e ci fece la punta. Quanno tornarono in paìsi, l'arma era perfetta. Ora doviva trovare un modo d'esercitarsi. Pensa ca ti ripensa, gli venne a mente il tettomorto dove ci stavano accatastate tutte le cose vecchie che in casa non sirvivano più. Un doppopranzo che 'u papà e 'a mamà durmivano, pigliò la chiavi, acchianò una rampa di scale, raprì la porta del tettomorto, trasì. Quasi subito si addunò di una enormi cornici dintra di la quali ci stava, a grannizza naturali, la fotografia di 'u zù Pitrino, il frati do papà ch'era morto nella granni guerra, in divisa di tenenti. Meglio d'accussì non potiva spirari. Isò la baionetta, la fissò, si tirò narrè di qualichi passo e partì di corsa. Il vitro che cummigliava la fotografia si frantumò con un botto terribili in cento pezzi, la baionetta trasì all'altizza della panza di 'u zù Pitrinu passandola da parte a parte. Le schegge di vitro non l'avivano firuto. Fu mentri tirava con tutta la forza la baionetta per farla nesciri fora, che vitti con la cuda dell'occhio un movimento. Era una palumma bianca, di certo sinni stava ammucciata darrè la fotografia e quanno aviva tentato di scapparsene volando un pezzo di vitro le aveva tagliato un'ala. Ora firriava su se stessa, stinniva l'ala bona, ma non ce l'avrebbe mai fatta a volare. Quanno lo capì, si strascinò fino a un vecchio baullo, vi si appuiò. Michilino finalimenti arriniscì a far nesciri la baionetta dal cartone della fotografia, taliò la palumma, le si avvicinò a lento, le posò supra a leggio la punta dell'arma, poi la calò e lentissimamente fece trasire tutta la baionetta, adascio adascio, nel corpo del bissino col mantello bianco.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 44

Il compagno di banco trasì mentre 'a mamà nisciva. Macari lui era stato accompagnato da sò matre; di nome faciva Scuderi Birtino, era sicco sicco e aviva gli occhiali di vista. Michilino si taliò torno torno. C'erano deci banchi, la lavagna, la pidana con la cattidra. Supra il muro darrè la cattidra ci stava un crucifisso assistimato in mezzo a dù fotografie: quella di mancina appartiniva a Sò Maistà Vittoriu Manueli, quella di dritta era di Sò Cillenza Benitu Mussolini. Tempo un quartodura la classi si inchì, ma nisciuno faceva battarìa, nisciuno parlava, tutti stavano fermi e taliavano avanti. A un certo punto sonò una campanella, il maestro Panseca trasì, chiuì la porta, s'assittò sulla cattidra e raprì il registro.

«Ora faccio l'appello. Chi viene chiamato, si alza, fa il saluto romano, risponde "presente" e poi si risiede. Cominciamo. Abbate Filippo».

Abbate Filippo non fece a tempo a susirisi che la porta si raprì e apparsero un quarantino, malovistuto e giarno in faccia, che tiniva per mano un picciliddro biunnizzo che pareva scantato.

«La campanella è sonata» fece friddo il maestro. «Siete in ritardo, potrei non ammettere in classe suo figlio. Ma dato che è il primo giorno, passi. Tu come ti chiami?».

«Maraventano Alfio» arrispose il picciliddro squasi trimando.

«All'ultimo banco. Starai solo».

Alfio Maraventano s'avviò a testa vascia in mezzo alle dù fila di banchi.

Sò patre inveci restò fermo vicino alla porta.

«Signor maestro, mi pozzu permettiri un consigliu?» fece.

Il maestro Panseca lo taliò 'nfuscato.

«Da lei non accetto consigli. Comunque, dica».

Maraventano patre indicò la pareti darrè la cattidra.

«Abbisogna spostari il crucifisso».

«E perché?».

«Pirchì accussì pare Gesù in mezzu ai dù latroni».

Il maestro arrussicò, si susì dalla cattidra, trimuliava tutto che pareva che ci stava vinendo il sintòmo, indicò a vrazzo stiso la porta.

«Fuori da qui, laido comunista! Fuori!».

Il signor Maraventano niscì calmo calmo. Il maestro s'assittò, si risusì, scinnì dalla cattidra, niscì in corridoio.

«Oggi stesso faccio denunzia!» gridò.

Tornò dintra, s'assittò, ancora aviva tanticchia di trimulizzo, s'asciucò la fronti col fazzoletto.

«E tu non piangere! Altrimenti ti caccio via a pedate, capito?».

Tutti si votarono verso l'ultimo banco indovi Alfio Maraventano, sulo e scunsulato, si era messo a chiangiri cummigliandosi gli occhi con il vrazzo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 110

E Gesuzzu adorato una soluzioni gliela attrovò. In quei jorni 'u papà era d'umore malo, il fatto era che sulla carta geografica dell'Etiopia era da tempo che non vinivano appizzate spilliceddre con la bannera taliana. Dopo la presa di Macallè le nostre gloriose truppi non facivano un passo avanti.

«Ma che minchia cumbina 'stu De Bono» si spiava 'u papà. «Ma come? Arriniscì a fari la marcia su Roma e non arriniscì a fari la marcia su Addis Abeba contro a quattru fitusazzi di negri!».

Supra 'a pasta, minnolicchi, come si dici. L'umore malo do papà si scatinò la duminica mentri, doppo mangiato, si stava piglianno il cafè e si liggiva «Il Popolo d'Italia».

«Cristo d'un Cristo!» santiò, fa cenno una palla del giornali e gettandolo 'n terra luntanu.

Michilino, che stava ripassanno la lezioni dato che il jorno appresso ripigliava con la maestra Pancucci, era assittato alla tavola di mangiati allato a 'u papà, e agghiazzò per la tirribili biastemia che faciva schizzare sangue vivu dalle piaghe di Gesù. Si segnò e recitò in silenzio l'atto di duluri per conto do papà. 'A mamà, che puliziava i piatti, niscì scantata dalla cucina asciucannosi le mano con una pezza.

«Giugiù che fu?».

Intanto 'u papà si era susuto, aviva pigliato il giornali, l'aviva aperto supra la tavola e si era messo a stirarlo prima col taglio e po' col palmo delle mano. Pariva dispiaciuto d'avirlo arrovinato.

«C'è che Mussolini è troppo bono! Tu lo sai cu è Antonio Gramsci?».

«No» fece 'a mamà. «Cu è?».

«Il capo dei comunisti è! Un gran fitente che il Duci prima ha fatto incarzarari e po' ne ha provato pena e l'ha mannato a domicilio coatto! E lo sai che scrive il giornali? Che essendo' stu gran farabuttu malato, il Duci ci mandò nenti di menu che a Frugoni a visitarlo! A Frugoni! Al meglio medico che c'è in Italia! Accussì lo tratta il Duci! Ci manda il medico inveci di farlo moriri come un cani! Questo si merita il signor Gramsci! Dovivano ammazzarlo subito, ca quali processo, ca quali càrzaro, ca quali domicilio coatto! Un colpo di pistola, e via!».

A mamà sinni tornò in cucina. Michilino taliò 'u papà.

«Ma ammazzare un omo non è piccato?» spiò.

«C'è omo e omo, Michilì. Un comunista non è un omo, ma un armàlo e pirciò se s'ammazza non si fa piccato».

| << |  <  |