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| << | < | > | >> |Pagina 9 [ inizio libro ]Che fosse vigliante, se ne faceva capace dal fatto che la testa gli funzionava secondo logica e non seguendo l'assurdo labirinto del sogno, che sentiva il regolare sciabordìo del mare, che un venticello di prim'alba trasìva dalla finestra spalancata. Ma continuava ostinatamente a tenere gli occhi inserrati, sapeva che tutto il malumore che lo maceriava dintra sarebbe sbommicato di fora appena aperti gli occhi, facendogli fare o dire minchiate delle quali doppo avrebbe dovuto pentirsi.Gli arrivò la friscatina di uno che caminava sulla spiaggia. A quell'ora, certamente qualcuno che andava per travaglio a Vigàta. Il motivo friscato gli era cognito, ma non ne ricordava né il titolo né le parole. Del resto, che importanza aveva? Non era mai riuscito a friscare, manco infilandosi un dito in culo. «Si mise un dito in culo / e trasse un fischio acuto / segnale convenuto / delle guardie di città»... Era una fesseria che un amico milanese della scuola di polizia qualche volta gli aveva canticchiato e che gli era rimasta impressa. E per questa sua incapacità di friscare, alle elementari era stato la vittima prediletta dei suoi compagnucci di scuola che erano maestri nell'arte di friscare alla pecorara, alla marinara, alla montanara aggiungendovi estrose variazioni. I compagni! Ecco che cosa gli aveva procurato la mala nottata! Il ricordo dei compagni e la notizia letta sul giornale, poco prima d'andare a corcarsi, che il dottor Carlo Militello, non ancora cinquantino, era stato nominato Presidente della seconda più importante banca dell'isola. Il giornale formulava i più sentiti auguri al neo Presidente, del quale stampava la fotografia: occhiali certamente d'oro, vestito griffato, camicia inappuntabile, cravatta finissima. Un uomo arrivato, un uomo d'ordine, difensore dei grandi Valori (tanto quelli della Borsa quanto quelli della Famiglia, della Patria, della Libertà). Se lo ricordava bene, Montalbano, questo suo compagnuccio non delle elementari, ma del '68! «Impiccheremo i nemici del popolo con le loro cravatte!». «Le banche servono solo a essere svaligiate!». Carlo Militello, soprannominato «Carlo Martello», in primisi per i suoi atteggiamenti di capo supremo e in secundisi perché contro gli avversari adoperava parole come martellate e cazzotti peggio delle martellate. Il più intransigente, il più inflessibile, che al suo confronto il tanto invocato nei cortei Ho Chi Min sarebbe parso un riformista socialdemocratico. Aveva obbligato tutti a non fumare sigarette per non arricchire il Monopolio di Stato, spinelli e canne sì, a volontà. Sosteneva che in un solo momento della sua vita il compagno Stalin aveva agito bene: quando si era messo a rapinare banche per finanziare il partito. «Stato» era una parola che dava a tutti il malostare, li faceva arraggiare come tori davanti allo straccio rosso. Di quei giorni Montalbano ricordava soprattutto una poesia di Pasolini che difendeva la polizia contro gli studenti a Valle Giulia, a Roma. Tutti i suoi compagni avevano sputato su quei versi, lui aveva tentato di difenderli: «Però è una bella poesia». A momenti Carlo Martello, se non lo tenevano, gli scassava la faccia con uno dei suoi micidiali cazzotti. Perché allora quella poesia non gli dispiacque? Vedeva in essa già segnato il suo destino di sbirro? Ad ogni modo, nel corso degli anni, aveva visto ì suoi compagni, quelli mitici del '68, principiare a «ragionare». E ragionando ragionando, gli astratti furori si erano ammosciati e quindi stracangiati in concrete acquiescenze. E adesso, fatta eccezione per qualcuno che con straordinaria dignità sopportava da oltre un decennio processi e carcere per un delitto palesemente non commesso né ordinato, ratta eccezione ancora per un altro oscuramente ammazzato, i rimanenti si erano tutti piazzati benissimo, saltabeccando da sinistra a destra, poi ancora a sinistra, poi ancora a destra, e c'era chi dirigeva un giornale, chi una televisione, chi era diventato un grosso manager di Stato, chi deputato o senatore. Visto che non erano arrinisciuti a cangiare la società, avevano cangiato se stessi. Oppure non avevano manco avuto bisogno di cangiare, perché nel '68 avevano solamente fatto teatro, indossando costumi e maschere di rivoluzionari. La nomina di Carlo ex Martello non gli era proprio calata. Soprat- tutto perché gli aveva provocato un altro pinsèro e questo certamente il più fastidioso di tutti. | << | < | > | >> |Pagina 97Arrivato davanti alla porta del commissariato, non se la sentì di trasìre. Sul suo tavolino l'aspittava una pila traballera di carte da firmare e al solo pinsèro il braccio destro principiò a fargli male. S'assicurò d'avere in sacchetta bastevoli sigarette, riacchianò in macchina e se ne partì in direzione di Montelusa. C'era, proprio a mezza strata tra i due paìsi, un viottolo di campagna, ammucciato darrè a un cartellone pubblicitario, che portava a una casuzza rustica sdirrupata, allato aveva un enorme ulivo saraceno che la sua para di centinara d'anni sicuramente li teneva. Pareva un àrbolo finto, di teatro, nisciùto dalla fantasia di un Gustavo Doré, una possibile illustrazione per l' Inferno dantesco. I rami più bassi strisciavano e si contorcevano terra terra, rami che, per quanto tentassero, non ce la facevano a isarsi verso il cielo e che a un certo punto del loro avanzare se la ripinsavano e decidevano di tornare narrè verso il tronco facendo una specie di curva a gomito o, in certi casi, un vero e proprio nodo. Poco doppo però cangiavano idea e tornavano indietro, come scantati alla vista del tronco potente, ma spirtusato, abbrusciato, arrugato dagli anni. E, nel tornare narrè, i rami seguivano una direzione diversa dalla precedente. Erano in tutto simili a scorsoni, pitoni, boa, anaconda di colpo metamorfosizzati in rami d'ulivo. Parevano disperarsi, addannarsi per quella magarìa che li aveva congelati, «canditi», avrebbe detto Montale, in un'eternità di tragica fuga impossibile. I rami mezzani, toccata sì e no una metrata di lunghezza, di subito venivano pigliati dal dubbio se dirigersi verso l'alto o se puntare alla terra per ricongiungersi con le radici.Montalbano, quando non aveva gana d'aria di mare, sostituiva la passiata lungo il braccio del molo di levante con la visita all'àrbolo d'ulivo. Assittato a cavasè sopra uno dei rami bassi, s'addrumava una sigaretta e principiava a ragionare sulle facenne da risolvere. Aveva scoperto che, in qualche misterioso modo, l'intricarsi, l'avvilupparsi, il contorcersi, il sovrapporsi, il labirinto insomma della ramatura, rispecchiava quasi mimeticamente quello che succedeva dintra alla sua testa, l'intreccio delle ipotesi, l'accavallarsi dei ragionamenti. E se qualche supposizione poteva a prima botta sembrargli troppo avventata, troppo azzardosa, la vista di un ramo che disegnava un percorso ancora più avventuroso del suo pinsèro lo rassicurava, lo faceva andare avanti. Infrattato in mezzo alle foglie verdi e argento, era capace di starsene ore senza cataminarsi; immobilità interrotta di tanto in tanto dai movimenti indispensabili per addrumarsi una sigaretta, che fumava senza mai levarsela dalla bocca, o per astutare accuratamente il mozzicone sfregandolo sul tacco della scarpa. Stava tanto fermo che le formicole indisturbate gli acchianavano sul corpo, s'infilavano tra i capelli, gli passiavano sulle mani, sulla fronte. Una volta scinnuto dal ramo doveva attentamente scotoliarsi il vestito e allora, con le formicole, cadeva macari qualche ragnetto, qualche coccinella di buona fortuna. | << | < | > | >> |Pagina 109Don Balduccio Sinagra abitava, 'nzèmmula a tutta la sua numerosa famiglia, in una grandissima casa di campagna messa proprio in cima in cima a una collina da tempo immemorabile chiamata Ciuccàfa, a mezza strata tra Vigàta e Montereale.La collina Ciuccàfa si distingueva per due particolarità. La prima consisteva nell'appresentarsi completamente calva e priva di un pur minimo filo d'erba verde. Mai su quella terra un àrbolo ce l'aveva fatta a crescere e non era arrinisciùto a pigliarci manco uno stocco di saggina, una troffa di chiapparina, una macchia di spinasanta. C'era sì un ciuffo d'àrboli che circondava la casa, ma erano stati fatti trapiantare già adulti da don Balduccio per avere tanticchia di refrigerio. E per scansare che siccassero e morissero, si era fatto venire camionate e camionate di terra speciale. La seconda particolarità era che, cizzion fatta della casa dei Sinagra, non si vedevano altre abitazioni, casupole o ville che fossero, da qualsiasi latata si taliassero i fianchi della collina. Si notava solo la serpeggiante acchianata della larga strata asfaltata, lunga un tre chilometri, che don Balduccio si era fatta fare, come diceva, a spisi so'. Non c'erano altre abitazioni non perché i Sinagra si erano accattati tutta quanta la collina, ma per altra, e più sottile, ragione.
A malgrado che i terreni di Ciuccàfa fossero stati da
tempo dichiarati edificabili dal nuovo piano regolatore, i
proprietari, l'avvocato Sidoti e il marchese Lauricella,
benché fossero tutti e due faglianti di grana, non
s'attentavano a lottizzarli e a venderli per non fare grave
torto a don Balduccio il quale, convocatili, attraverso
metafore, proverbi, aneddoti, aveva loro fatto intendere
quanto la vicinanza di strànei gli portasse insopportabile
fastiddio. A scanso di perigliosi malintesi, l'avvocato
Sidoti, proprietario del terreno sul quale era stata
costruita la strata, aveva fermamente rifiutato di farsi
indennizzare il non voluto esproprio. Anzi, malignamente,
in paìsi si murmuriava che i due proprietari si fossero
accordati per dividere il danno a metà: l'avvocato ci aveva
rimesso il terreno, il marchese aveva fatto grazioso omaggio
della strata a don Balduccio, accollandosi il costo del
travaglio. Le malelingue dicevano macari che, se col
malottempo si produceva qualche scaffa o qualche smottamento
nella strata, don Balduccio se ne lamentiàva col marchese il
quale, in un vìdiri e svìdiri, e sempre di sacchetta
propria, provvedeva a farla tornare liscia come una tavola
di bigliardo.
Da un tre anni a questa parte le cose non marciavano più come prima né per i Sinagra né per i Cuffaro, le due famiglie che si combattevano per il controllo della provincia. Masino Sinagra, sissantino figlio primogenito di don Balduccio, era stato finalmente arrestato e mandato in càrzaro con un tale carrico d'accuse che, macari se durante l'istruzione dei processi, a Roma avessero deciso putacaso l'abolizione della pena dell'ergastolo, il legislatore avrebbe dovuto fare eccezione per lui, ripristinandola solo per quel caso. Japichinu, figlio di Masino e nipoteddru adorato dal nonno don Balduccio, picciotto trentino, dalla natura dotato di una faccia così simpatica e onesta che i pensionati gli avrebbero affidato i risparmi, si era dovuto dare latitante, prosecuto da una caterva di mandati di cattura. Frastornato e squieto per questa assolutamente inedita offensiva della giustizia, dopo decenni di languido sonno, don Balduccio, che si era sentito ringiovanire di trent'anni al1a notizia dell'assassinio dei due più valorosi magistrati dell'isola, era ripiombato di colpo negli acciacchi dell'età quando aveva saputo che a capo della Procura era venuto uno che era il peggio che ci potesse essere: piemontese e in odore di comunismo. Un giorno aveva visto, nel corso di un telegiornale, questo magistrato inginocchiato in Chiesa. «Ma chi fa, a la Missa va?» aveva spiato sbalordito. «Sissi, religiusu è» gli aveva spiegato qualcuno. «Ma comu? Nenti gli hanno insegnato i parrini?». | << | < | > | >> |Pagina 210Il commissario li sentì parlottare fitto mentre s'allontanavano. Il parrino era perso nelle sue preghiere. Ne aveva da recitare Avemmarie, Patrinostri e Reqquiemeterne con tutto il carrico d'omicidi che Japichinu si portava appresso, dovunque stava in quel momento veleggiando. Montalbano acchianò la scala di pietra che portava alla càmmara di sopra, addrumò la luce. C'erano due brandine con sopra i soli matarazzi, un comodino in mezzo, un armuàr malandato, due seggie di ligno. In un angolo, un artarìno, fatto da un tavolinetto coperto con una tovaglia bianca arriccamata. Nell'artarìno ci stavano tre statuette: la Vergine Maria, il Cuore di Gesù e San Calogero. Ogni statuetta aveva davanti il suo lumino addrumato. Japichinu era picciotto religioso, come sosteneva il nonno Balduccio, tant'è vero che aveva persino un Patre spirituale. Solo che tanto il picciotto quanto il parrino scangiavano superstizione per religione. Come la maggior parte dei siciliani, del resto. Il commissario s'arricordò d'aver visto, una volta, un rozzo ex voto dei primi anni del secolo. Rappresentava un viddrano, un contadino, che scappava inseguito da due carabinieri col pennacchio. In alto, a destra, la Madonna si sporgeva dalle nuvole, indicando al fuggitivo la via migliore da seguire. Il cartiglio recava la scritta: «Per esere scappato ai riggori di la liggi». Su una delle brandine c'era, messo di traverso, un kalashnikov. Astutò la luce, scinnì, si pigliò una delle due seggie di paglia, s'assittò.«Patre Crucillà». Il parrino, che stava ancora pregando, si scosse, isò gli occhi. «Eh?». «Si pigli una seggia e s'assetti, dobbiamo parlare». Il parrino obbedì. Era congestionato, sudava. «Come farò a dare questa notizia a don Balduccio?». «Non ce ne sarà bisogno». «Pirchì?». «A quest'ora glielo hanno già detto». «E chi?». «L'assassino, naturalmente». Patre Crucillà stentò a capire. Teneva gli occhi fissi sul commissario e muoveva le labbra senza però formulare parole. Poi si capacitò, sbarracando gli occhi scattò dalla seggia, arretrò, sciddricò sul sangue, riuscì a tenersi addritta. «Ora ci piglia un sintòmo e muore» pinsò allarmato Montalbano. «In nome di Dio, che dice!» ansimò il parrino. «Dico solo come stanno le cose». «Ma a Japichinu lo cercavano la Polizia, l'Arma, la Digos!». «Che in genere non sgozzano quelli che devono arrestare». «E la nuova mafia? Gli stessi Cuffaro?».
«Parrì, lei non si vuole fare pirsuaso che tanto io
quanto lei siamo stati pigliati per il culo da quella testa
fina di Balduccio Sinagra».
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