Copertina
Autore Francesco Campora
Titolo L'acqua non ha memoria
EdizioneVoland, Roma, 2007, intrecci 56 , pag. 224, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,3 cm , Isbn 978-88-88700-87-8
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

1.
AMSTERDAM, UN VENERDÌ DI FINE INVERNO



Avevo camminato quasi tutto il tempo controvento, mentre una pioggerella sottile e tenace batteva il suo ritmo costante. Ora costeggiavo un canale e da lontano potevo già vedere, su un ponte dalle parti della mensa universitaria, un paio di figure che avevano tutta l'aria di aspettare clienti. Sono andato verso di loro.

"Fiets, fiets... "

Il suono sibilante e ripetuto era la loro proposta d'affari, l'apprensione adrenalinica tipica di certi momenti poco rispettosi della legge cominciava a farsi sentire. Avevo due possibilità: un tizio magrissimo dall'aspetto sporco, biondiccio e allampanato, stringeva tra le mani una bici chiaramente troppo piccola per me, e anche piuttosto malandata. Mentre tornavo sui miei passi ho fatto un cenno con la testa all'altro junkie, un piccoletto scuro che camminando s'incurvava, con una faccia di cuoio marcio dove affondavano due occhi incongruamente vispi. Mi ha seguito lungo il canale dal quale ero arrivato, mi si è affiancato.

"Hallo man... Italiano?"

"Yes."

"Haha, Baggio, mafia, pizza... I love Italiaa... I bave a good bike for you, man."

"Quanto?"

"Venticinque euro."

"Scordatelo, te ne do dieci.

"Dieci? sei matto? Questa minimo devi darmi venti euro! Sta messa bene, che non la vedi? Provalaa!"

In effetti aveva un buon aspetto, pure troppo, di un bel rosso acceso. Se la prendevo avrei dovuto provvedere subito a imbruttirla un po', altrimenti rischiavo a mia volta che me la rubassero in tempi brevi. Sono montato in sella dando qualche colpo di pedale, marcato stretto dall'aspirante venditore che temeva una fuga. Sembrava a posto, i parafanghi ballavano un po' troppo e non aveva luci funzionanti, ma considerate le circostanze non era il caso di protestare.

"Va bene, te ne do quindici" ho proposto restituendogli la bici.

"No, venti."

"Venti è troppo, non la prendo." Ho allungato il passo come per andarmene.

"Hee man... aspettaa! va bene daài, facciamo quindici!" ha soffiato incurvandosi mentre allargava le crepe della sua faccia di cuoio marcio in una smorfia asimmetrica che aveva qualcosa di bello. Ho fatto un sorriso d'intesa, abbiamo svoltato in una stradina tranquilla. Ho dato un'ultima occhiata attorno in un brivido di ansiosa eccitazione, sono salito sulla bici e con gesto rapido, senza nemmeno guardarlo, mentre già mi mettevo in movimento, gli ho infilato in una mano i quindici euro, avevo la grana pronta nella tasca. È il momento più delicato, non bisogna farsi beccare quando il denaro passa di mano, scatta la flagranza di reato. Nel giro di una mezz'oretta, il simpatico tossico avrebbe trasformato i miei soldi in eroina, coca o chissà cos'altro. Quattro pedalate energiche e già ero lontano. Venti secondi e tre viuzze dopo ho incrociato due poliziotti in bici. Doei doei, li ho salutati con lo sguardo.

Non è cosa buona e giusta acquistare refurtiva, lo so, ma quando vedi che per una bici usata, se rispetti le regole, devi spendere come minimo quattro volte tanto, è difficile dare retta al proprio scarso senso morale.

E poi la sensazione di libertà che provavo in quel momento, mentre facevo scivolare le ruote per le strade di Amsterdam sotto la pioggia che aveva cominciato a cadere più fitta, gustando il piacere di chi ha appena commesso qualcosa di illecito per poi farla franca, be', era un'ebbrezza che somigliava alla gioia.

Senza contare che l'acquisto in strada di una bici rubata è di per sé un'esperienza che ad Amsterdam vale la pena di fare, così come uno che visita Roma va a vedere il Colosseo. O almeno io me l'ero raccontata così, e avevo agito di conseguenza.

Ho girato senza meta per un'oretta in preda a quella euforia da malfattore di mezza tacca, passando anche davanti al NEMO, il museo nazionale della scienza e della tecnica progettato da Renzo Piano, che viene fuori dall'acqua come la prua di una nave. Poi sono entrato in una zona multietnica che i segnali stradali indicavano col nome di Zeeburg, attraversandola ho incrociato alcuni aromatici negozi di alimentari dove fare la spesa deve essere piacevole.

Quando ho cominciato a sentirmi fradicio e infreddolito, sono tornato verso il centro e ho raggiunto il mercato all'aperto di Waterlooplein per fare un po' di compere. Aggirandomi tra le bancarelle ho comprato due lucchetti per la bici, un indispensabile paio di guanti e un cappellino di acrilico verde oliva oggettivamente brutto, così che fosse allo stesso livello estetico della sciarpa. Subito dopo mi sono fermato a un chiosco per un falafel e un succo d'arancia. Ho fatto sosta da un tabaccaio per prendere le sigarette e a un'edicola che vendeva stampa estera, per il giornale italiano. A quel punto mancava solo una tappa per concludere il mio giro di acquisti.

I coffee shop nel centro della città pullulano di stranieri frementi all'idea di sconvolgersi in questi locali dove le droghe leggere vengono vendute liberamente, e di tale folta schiera avevo fatto parte anch'io la prima volta che ero stato qui ad A'dam, tanti anni prima. È invece raro trovarci olandesi o stranieri residenti, e privi di ogni interesse per questi ingannevoli brividi turistici, se non in maniera episodica. La cosa migliore è comprare ciò che si desidera e poi andarsene altrove: rimanere seduti accanto a gruppi di turisti dallo sguardo perso non è una grande esperienza, sebbene possa anche essere divertente, specie se si tratta di italiani in bilico tra paranoia catatonica e rumorosità molesta, magari fino a quando non crollano in stato similcomatoso per aver esagerato. Il fatto è che molti non sanno né si rendono conto che in Olanda il tasso di thc, la sostanza attiva presente nell'hashish e nella marijuana, è molto più alto di quello contenuto in ciò che abitualmente si fuma in Italia, così fanno gli splendidi e ci danno dentro fino a quando non stramazzano esanimi come cavalli sfiancati. Alto è anche il numero di turisti che in questi locali vengono derubati da lucidissimi manolesta.

Però esistono anche i coffee shop dove è bello fermarsi, ne ricordo uno fuori dal centro con comodi cuscinoni buttati sul pavimento per potersi sdraiare, e tavolini all'altezza giusta. Un ricordo sfocato, ovviamente.

Il posto dove stavo andando non era lontano, avevo comprato lì durante il mio ultimo soggiorno in città, circa un anno prima, ed ero rimasto soddisfatto.

Sono entrato, ho atteso che una coppia di spagnoli affamati di ganja si decidesse a scegliere tra le diverse qualità di erba e ho preso i miei tre grammi di nepalese nero, oltre a una confezione di cartine e alcuni cartoncini da filtro. Nonostante l'ottima qualità della marijuana disponibile continuavo a preferire l'hashish: mi fa un effetto più gradevole, una stonatura morbida e fluttuante che non raschia in gola, non appesantisce troppo la testa e si accompagna meglio con l'alcol. Del resto sono gusti.

Risalito in bicicletta guardavo Amsterdam srotolarsi ai miei lati, respirandone l'aria liquida e leggera che segue la pioggia, quel sapore così diverso rispetto a Roma. Intanto pensavo all'incarico accenato, alle possibilità che avevo di svolgerlo con successo e a come era cominciata quella storia, ripercorrendo con la memoria i fatti che m'avevano portato fin lì, a pedalare. Quattro giorni prima.

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Ho telefonato a Sara, siamo rimasti d'accordo che ci saremmo visti a casa sua un paio d'ore dopo, avevo tutto il tempo di rilassarmi. Ho cucinato una bistecca ai ferri, condendola solo con olio crudo, l'ho accompagnata con della frutta e un buon rosso, poi ho preparato e fumato una bella canna. In attesa di andare all'appuntamento, mi sono sdraiato sul letto a guardare la Tv.

Telegianicolo non trasmetteva più L'antro di Alvaro, il conduttore cartomante di uno dei miei programmi preferiti era rimasto implicato in una storia di circonvenzione d'incapace e il suo spazio era stato cancellato. Al suo posto adesso mandavano in onda una specie di talk show condotto da Jacqueline Porqueddu e Kevin Zappalà, due giovani aspiranti alla gloria televisiva molto sorridenti che avrebbero avuto bisogno di un corso di dizione e di un nome d'arte decente. L'ospite d'onore della serata era Fosco Gualciccia, un attore belloccio dal talento incerto e gli occhi acquosi che stava conoscendo il suo momento di popolarità grazie a una parte da coprotagonista nella soap opera Casi amari di ggente buona, dove interpretava il ruolo di un cardiochirurgo epilettico e cocainomane con una passione per i soprammobili a forma di fallo di dobermann. La sua carriera piuttosto anonima aveva avuto un'impennata quando era stato sorpreso a picchiare selvaggiamente un bambino di undici anni che faceva rumore giocando sotto casa sua. Il clamore suscitato dall'episodio aveva poi spinto qualcuno ad altre rivelazioni, tipo che era solito andarsene in giro di notte fatto di metanfetamine con la sua amica stagista televisiva Lucilla Leccaprete, divertendosi a uccidere gatti randagi armato di balestra. In un primo momento i fattacci avevano provocato un moto di pubblico sdegno e riprovazione, poi era stato il turno di una serie di dibattiti e trasmissioni salottiere tendenti alla rissa dove qualcuno condannava senza appello e qualcun altro cercava di capire senza condannare. Infine erano arrivate le interviste esclusive vagamente vittimistiche dove veniva fuori il disagio esistenziale di due personaggi che nel profondo non erano certo cattivi e a cui non si poteva negare una possibilità di riabilitazione. Al tirar delle somme, la faccenda aveva finito col fare di Gualciccia un personaggio, rilanciandone la carriera. Il primo passo della redenzione era stato condurre in coppia con la Leccaprete la televendita della supercrema doppio effetto Mascarus, a base di cicoria e sterco di lemure malgascio, per l'allungamento del pene e la ricrescita dei capelli. Dopo qualche mese gli era stato offerto il ruolo nella soap. Il ciuffo biondastro ora ciondolava preoccupato mentre tentava di dare una risposta che non danneggiasse la sua immagine a una domanda per lui incomprensibile sulla guerra e sul terrorismo.

Alla trasmissione partecipava anche Fernanda Gozzilla, caporedattrice di un settimanale specializzato in gossip chiamato "I cazzi loro", la quale non sapeva dove mettere le labbra rifatte quando pronunciava certe consonanti e tuttavia si impegnava in modo ammirevole per spiegare la vocazione culturale della sua rivista, riuscendo anche a farsi prendere sul serio, soprattutto da un altro ospite, Gegè Formichelli, uno di quelli che non si sa bene di cosa si occupi, dunque fondamentalmente uno di quelli bravi a non fare una ceppa e capaci di trasformare questa caratteristica nel proprio mestiere, magari anche ben retribuito, come certe marionette allenate a dimenticare il concetto di dignità che frequentano trasmissioni calcistiche e altri programmi di intrattenimento vario. In ogni caso era molto popolare tra i frequentatori della vita notturna romana. Completava il gruppetto Corradino Motzo Beccuccia, direttore di giornale perennemente sorridente, con l'espressione di chi ha definitivamente superato la soglia della vergogna e non deve più preoccuparsi di nascondere la leccaculaggine grazie alla quale ha fatto carriera. Ho seguito quell'insensatezza per una buona mezz'ora senza sapere bene perché, forse per il fascino ineffabile della vertigine che si prova quando ci si affaccia sul nulla, forse per aggiungere un valido motivo in più all'idea di un viaggetto. Infine s'era fatta l'ora di andare.

Avevo raccontato dell'amichevole chiacchierata tra Nicola ed Ermete, spiegando senza giri di parole che quasi certamente Fabietto, a causa dei debiti di gioco, era stato costretto a fare il corriere della droga per conto di Bruno il Macellaio e la cosa andava avanti già da un pezzo, visto che la prima grossa somma persa risaliva ad alcuni mesi prima. Ho chiesto a Sara se in quell'arco di tempo suo fratello si fosse assentato per alcuni giorni a intervalli più o meno regolari, lei ci aveva pensato e poi aveva risposto di sì, aggiungendo che però non era insolito per le sue abitudini.

Bruno il Macellaio in realtà non aveva mai svolto quel mestiere, l'appellativo gli era stato affibbiato per via ereditaria dato che il padre aveva gestito una macelleria nel quartiere per parecchi anni. Ma quel richiamo alle origini doveva sembrargli assai poco elegante e lo mandava in bestia, pertanto era molto tempo che nessuno osava chiamarlo così in sua presenza, per la precisione da quando qualcuno s'era trovato a dover rimpiangere di aver fatto arrabbiare il prepotente giovanotto dandogli dello spacciatore di carni.

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6.



Siccome da quando lavoravo con lo Sfregiato avevo fatto abbastanza soldi, sono andato a vivere in un appartamento più grande e più bello in un altro quartiere, che è quello dove abito adesso. Vivevo da solo già da quando avevo cominciato a fare il buttafuori, però stavo ancora nella stessa zona, e avevo un posto piccolo e brutto, ma già allora all'altra casa non ci tornavo più. Adesso mio padre lo rivedo qualche volta quando torno da quelle parti, non mi fermo nemmeno a parlarci. So soltanto che è un alcolizzato che morirà prima o poi per la malattia di quelli che bevono. Sempre con lo Sfregiato avevo cominciato anche a scopare, perché andavamo da certe amiche sue che non erano proprio mignotte, però alla fine bisognava lasciargli un po' di soldi.

Io non ero mai stato con una donna prima, cioè a parte una volta che avevamo beccato una con quelli del gruppo che frequentavo prima. Era proprio una strana e diceva che era malata e che non riusciva a andare con un uomo solo ma voleva sempre farlo con tanti uomini assieme, così la caricavamo in macchina, a turno uno guidava in giro per la città e intanto gli altri se la scopavano. Io questa cosa che era malata mi faceva impressione quando lo diceva, e anche un po' schifo, e m'era venuta anche paura che voleva dire che c'aveva proprio qualche malattia vera, mica soltanto che aveva bisogno di andare con tanti uomini, e siccome ce la facevamo senza preservativo perché lei non lo voleva non stavo tranquillo, così io ci sono andato solo due volte e poi basta, gli altri invece hanno continuato, fino a quando lei all'improvviso era sparita e non ne avevamo saputo più niente. Lelletto, uno del gruppo, quando glielo dicevo di questa paura che c'avevo si metteva a ridere e mi prendeva in giro, ma non esagerava perché lo sapeva che sennò gli menavo. Lelletto è morto qualche anno fa, gli era venuta una malattia di quelle che ti ammazzano in poco tempo. Quando ormai stava alla fine una volta sono andato a trovarlo a casa, all'ospedale non lo tenevano più perché era inutile e almeno poteva morire a casa sua, gli avevano dato un mese di vita, due al massimo. Lui mi aveva detto che prima di crepare voleva mangiare l'ultima volta come si deve, fumare, e scopare. Allora io ho capito che dovevo fare come diceva lui, era l'ultimo desiderio di uno che era spacciato, allora un giorno che i genitori c'avevano da fare ho detto che ci rimanevo io con lui e gli sono andato a prendere tutto quello che voleva. Gli ho portato un pranzo da paura, sigarette, erba e una mignotta. Tutte cose che gli avevano proibito, ma io dico, quando uno ormai sta per morire che cazzo gliene frega di stare attento a quello che fa, e perciò gli ho portato tutto quello che voleva. A farsi quella li non c'era riuscito perché era troppo debole, però lei era brava e lo ha fatto venire, e già che c'ero una botta gliel'ho data pure io. Dopo avevamo mangiato e fumato tutti e tre assieme, e Lelletto stava bene, era contento e rideva, e anch'io ero contento a vederlo così. Quattro giorni dopo è morto.

Insomma dicevo che non ero mai stato con una donna da solo, prima che lo Sfregiato mi portava da queste amiche sue, e in mezzo a loro c'era una che si chiamava Anna che mi piaceva pure e una volta glielo ho detto, allora lei mi ha guardato con un sorriso dolce e mi ha detto che non era il caso e era meglio se rimanevamo solo amici e ogni tanto ci divertivamo assieme. Io l'ho capito quello che voleva dire, e non no insistito più, però dopo che avevamo scopato gli chiedevo sempre se mi faceva quel sorriso che mi piaceva e lei lo faceva, e io lasciavo qualche soldo in più. Anna me la ricordo ancora perché è l'unica donna che mi ha sorriso con dolcezza a parte mia madre, che però è morta quando io ero ancora piccolo.

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E siccome mi sono solo fatto una canna per quanto pesante e non un acido, allora concludo che questo è davvero il Mago.

Lo guardo stupito turbato cercando di capire cosa succede e di recuperare il controllo. La stonatura storta mi passa quasi di botto, e anche il mal di stomaco.

"Ciao italiano, how are you?"

"Fine thanks. E tu, Mago?"

"Non mi lamento, anche se sono giorni delicati. Ho notato che hai un certo interesse nei miei confronti, posso fare qualcosa per te, hermano?"

"Apprezzo la tua disponibilità, ma non sono affatto interessato a te, proprio per niente."

"Non dire stronzate, intanto spiegami come fai a sapere che mi chiamano Mago. Ma soprattutto, due giorni fa, quando mi hai seguito in bicicletta fin sotto casa, ho pensato che forse eri timido e non avevi il coraggio di parlarmi, e sono venuto io da te. Va bene così?"

"Capisco. E cosa ti aspetti adesso, magari che vengo da qualche parte a farmi tagliare la gola?"

"Non essere tanto pessimista, per esempio prova a chiedermi dov'è l'amico che stai cercando, forse posso aiutarti a trovarlo. E in questo caso, devi venire con me. Adesso."

"Allora mi hai preso proprio per un coglione."

"Se devo dire la verità sì, sembri proprio un klootzak, specie con quei pantaloni ridicoli. Adesso basta con le cazzate, non ho tempo da sprecare, meno mi faccio vedere in giro meglio è, sono sicuro che capisci cosa intendo. Non avrai un'altra possibilità, Fransesco. O vieni con me adesso o ti scordi il tuo amico. Può darsi che sia una trappola, sta a te decidere se rischiare. Dopotutto hai accettato di fare un lavoro, no? Ti aspetto fuori, tre minuti soltanto hermano, poi me ne vado. Ho parcheggiato la bicicletta vicino alla tua."

"Anche tu sai il mio nome, vedo. E poi che ne sai del lavoro che ho... come..."

"Tutto il resto dopo. Hai tre minuti."


Di ritorno dal bagno Ivan mi aveva visto scambiare le ultime parole col Mago e seguirlo fuori quasi subito. L'avevo lasciato ancora più stordito di prima, dicendo frettolosamente che avevo da fare e mi sarei fatto sentire.

Sfoggiando uno dei suoi migliori untuosi sorrisi, con quell'aria di chi sa sempre come andrà a finire, il Mago aveva aspettato che togliessi i lucchetti e mettessi i guanti, poi si era avviato. Non pioveva più, in compenso il vento s'era fatto più freddo e intenso e tagliente. Come due giorni prima lo seguivo, stavolta senza illudermi che non lo sapesse. Mi ronzavano molte domande nella testa, ma per il momento potevo solo tenerle per me. Avevo deciso di dargli retta ed ero nelle sue mani.

Arrivati alla stazione centrale, abbiamo lasciato le bici nell'enorme parcheggio a rampe nelle vicinanze. Siamo saliti sullo Sneltram, una specie di metropolitana che corre quasi tutto il tempo all'aperto, visto che ad Amsterdam il sottosuolo scarseggia. Dopo una fermata siamo scesi e risaliti al volo sul treno in direzione opposta. Ci siamo ritrovati di nuovo alla stazione, ma stavolta, invece di dirigerci verso l'uscita principale - quella sul Damrak, il vialone che raggiunge piazza Dam e il centro città – l'abbiamo attraversata in tutta la sua lunghezza sbucando dal lato opposto. Il versante meno conosciuto della Centraal si affaccia davanti a una distesa d'acqua. Abbiamo preso il traghetto pedonale gratuito che attraversa l'Ij, la parte più interna dell'Ijsselmeer che un tempo era collegato al mare ed era chiamato Zuider Zee, ma poi ne è stato separato con un sistema di dighe. Il traghetto ci portava verso nord, ho calcato il cappellino sulla nuca, alzato il bavero, acceso una sigaretta. Guardavo a turno i due lati della città e i loro profili. Ci voleva poco a immaginarsi lupi di mare, complici un orizzonte largo e uno stridio di gabbiani che suggerivano partenze oceaniche. Ma in fondo la mia era una fantasia innocua, non facevo male a nessuno e avevo parecchio bisogno di calmarmi. Ognuno ha le sue forme di training autogeno.

Ho lasciato vagare la mente altrove, un posto qualsiasi, l'importante era ritagliarmi uno spazio. Ho ripensato a Miss Q, a come c'eravamo mollati la sera prima che tutto iniziasse. Ma sì, raccontiamolo pure, com'è andata.

Lei mi aveva trascinato controvoglia alla presentazione del ro- manzo di un suo amico, Emerson Carcarocchia, uno di quelli che ambiscono a diventare l'ennesimo rampollo dell'alta borghesia romana ad avere successo nel campo letterario/musicale/cinematografico. L'autore in realtà si chiamava Bartolomeo, per una sventurata questione di avi di famiglia, ma una notte gli era apparso in sogno l'ex campione di Formula Uno, il brasiliano Emerson Fittipaldi, e gli aveva suggerito di adottare il suo nome, come scrittore. Una bella fortuna, suonava senz'altro meglio.

All'entrata della libreria dove si svolgeva la presentazione un tizio vestito da Bianconiglio raccoglieva contributi per realizzare un calendario con ritratti fotografici porno-soft di giovani scrittori romani, tra i quali figuravano anche un testimone di geova affetto da priapismo e un ermafrodito trotzkista. Già questo non mi rendeva contento di esserci.

Emerson/Bartolomeo aveva disegnato personalmente la copertina del libro: rappresentava un cinghiale in giacca e cravatta che, armato di cacciavite a stella, si aggirava feroce e disperato per le strade di Roma. Come spiegava un entusiasta recensore nell'invito alla serata, l'autore aveva inteso esprimere "con metafora tanto semplice quanto efficace il disorientamento che attanaglia costantemente l'uomo moderno. Un caso felice di talento che sa contemperare la lezione dei classici con le esigenze del messaggio postmoderno, laddove una buona copertina introduce il lettore a un ottimo libro".

Mentre leggevo le succitate righe mi si era avvicinato un tizio di un bel colorito pallido, la barba calibrata a puntino per apparire trascurata, e mi aveva chiesto cosa ne pensassi.

"Non ho ancora letto il libro, ma questa storia della metafora del cinghiale se devo essere sincero non è che mi incoraggi molto, mi pare la classica minchiata intellettualoide di chi vuole costruirsi un'immagine colta e raffinata, attento però a non dare la sensazione di voler apparire tale a tutti i costi, e usa un cinghiale, per definizione rozzo, a significare la capacità di volare alto pur avendo familiarità con quanto è triviale. Un'ideuzza banale, tutto sommato."

A questa risposta il pallore del mio interlocutore si era leggermente accentuato, perdendo il bell'effetto di artificiale naturalezza. Ovviamente mi aveva rivolto la parola Emerson Carcarocchia in persona.

Miss Q, la mia imminente ex ragazza, era nei paraggi e aveva ascoltato tutto. Ne era seguita un'acida discussione dai toni definitivi imperniata sulla mia maleducazione insensibilità ignoranza. Mi ero dileguato senza alcun senso di disagio per l'ipotetica figura di merda appena fatta, dopo tre o quattro frasi e un paio di parolacce che avevano sancito la fine senza rimpianti di una storia precocemente logora. Secondo me si mette assieme a Carcarocchia nel giro di un paio di settimane, magari anche per mostrargli certi suoi scritti che io mi sono sempre rifiutato di leggere. Prima di andarmene ho dato cinquanta centesimi al tizio del calendario, dopotutto non era una brutta idea.

Tra i motivi per cui la rottura con Miss Q non mi provocava grossi dispiaceri, c'entrava il fatto che nel breve tempo della nostra relazione troppo spesso ero stato in compagnia di gente che si esprimeva male. Non intendo dire che facessero errori di pronuncia o di sintassi. Non ho la pretesa di dare lezioni a chicchessia in questo campo. Era che proprio non mi piaceva il loro modo di parlare. Gente che adorava e detestava troppo, sempre pronti a dire "lo adoro" o "lo detesto", si trattasse di una persona, un film, una specialità gastronomica o qualsiasi altra cosa. Scarso senso delle sfumature, snobistico bisogno di apparire persone dalle idee radicali. Diffido specialmente di chi adora troppo.

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