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| << | < | > | >> |Indice1 Il «misterio del coito» 7 2 L'inutile ludibrio 23 3 Venerea voluptas 38 4 Il tesoro della castità 60 5 Confortativum magnum 79 6 L'«industria golosa» 95 7 Immoderata carnis petulantia 109 |
| << | < | > | >> |Pagina 7«Non è cosa né cibo che più sia conforme al nutrimento dell'uomo quanto è la carne umana, se non fusse la abbominazione che la natura ha a quella», osservava serenamente alla fine del '400 il medico-astrologo Girolamo Manfredi nel libro del Perché volgarizzato. E invero la vecchia società coltivava nei sogni della notte e nelle fantasie diurne una inquietante predisposizione a pratiche alimentari molto disinvolte, affascinata da rituali trasgressivi, rimossi ma non cancellati dal «processo di civilizzazione». Fin da allora il disagio della civiltà incominciava a farsi sentire, col suo insopportabile carico. La teoria medica e la pratica farmacologica (per non accennare alla diffusa sensibilità per il sangue, il grasso e i precordi umani) prestavano solide strutture scientifiche a queste rabbrividenti inclinazioni, a queste aberranti analogie e conformità. La ineccepibile copertura teorica di questo latente gusto antropofago era insita nel presupposto, anzi nell'assioma inscalfibile e difficilmente controvertibile, secondo il quale tutto ciò che s'ingerisce, sia sotto la forma liquida che sotto quella solida, deve avere la «maggior convenienza e proporzione con la natura dell'uomo». Poiché la condizione umana ricerca che per conservar l'individuo, si faccia una continua trasmutazione del mangiare e del bere nella natura del corpo che si nutriste, anzi, in ogni minima parte di quello; chiara cosa è che più agevolmente e più proporzionatamente si farà questo cambio, quando la cosa che si prende, sarà conforme, somigliante o almeno poco dissimile dalla natura di chi la riceve; essendo che nelle cose, che hanno conformità e (come si dice) simbolo, è molto più facile il passaggio e la mutazione. Sviluppando queste ineccepibili premesse non si può non concordare con gli antichi fisici che, essendo la carne umana e i suoi relativi escrementi la «cosa» più affine all'uomo e in simbolo e in proporzione e in conformità e in analogia, nulla poteva sostituire l'efficacia terapeutica e il sano nutrimento offerto dal corpo umano e dai suoi derivati o sottoprodotti. Nulla poteva surrogare l'eccellenza del sangue, nulla poteva avere maggiore nobiltà terapeutica della polvere di teca cranica, compendio del microcosmo semovente, nulla maggiore virtù del cerotto di pelle umana, o della «mumia» (carne di cristiano rinsecchita e stagionata, solitamente affumicata sotto il camino dagli apotecari); oppure dell'orina (preferibilmente di fanciullo), delle unghie, dei capelli, del cerume, dello smegma prepuziale, delle deiezioni solide, del latte di donna (incomparabilmente nutritivo), del liquido seminale o sperma. La formula globale delle inesauribili virtù terapeutiche nascoste nel corpo umano era magnificamente condensata nel memorabile apoftegma di Ulisse Aldrovandi: homo homini salus. Vivo o morto, l'uomo era un serbatoio dovizioso di segreti salvifici. | << | < | > | >> |Pagina 18Ma, ritornando al nostro giardino, è necessario ribadire con necessaria fermezza che l'esercizio copulatorio, in passato, era una attività a rischio, soprattutto per gli intellettuali. Non a caso Marsilio Ficino, medico e platonico, aveva predisposto per queste fragili creature un circostanziato manuale di salvaguardia, un enchiridion di sopravvivenza. È appena il caso di ricordare che Ippocrate aveva paragonato il coito al malcaduco. Questo peraltro piacevole e universalmente praticato esercizio (ma «il fatto che tutti lo pratichino - ammoniva Musil - non significa che sia così semplice come ritengono gli sciocchi») poteva in ogni caso risultare pericoloso e destabilizzante perché la fuoriuscita del seme veniva valutata equivalente a quaranta volte la perdita di sangue. Concentrato elettissimo del più generoso e prezioso dei liquidi vitali («sangue perfetto, che mai non si beve / dall'assetate vene», Purg., XXV, 37-38), doveva venire amministrato e distribuito con oculata saggezza e ponderata parsimonia. L'uso troppo spensierato e avventuristico dell'amplesso era non solo rischioso, ma in certi casi riprovevole, perché, come cercava di spiegare Marsilio Ficino, il corto circuito dell'orgasmo e l'emissione cruenta «percuote e ferisce la mente, che è una cosa sacra».Non solo gli intellettuali, ma anche i robusti uomini d'arme dovevano guardarsi dalla venerea cupido, gli effetti della quale erano tali che, aggiunti alla amoris perturbatio, sapientissimos quosque, nec non fortissimos duces, nullis bellorum aestibus aut machinis territos, invadat et concutere soleat, imo expugnet et prosternat: acutissimos reddat stupidissimos, et qui iudicio pollent dementes, prudentissimos ad insaniam redigat, moderatos effrenet, denique hominem in brutum commutet. Quest'atto fondamentale entrava prepotentemente nella sfera — come avrebbe detto Ernesto De Martino — dei momenti critici dell'esistere. Non c'è da stupirsi che l'atto sessuale sia capace di provocare svenimento, vomito, eccesso epilettico, morte. Nell'uso popolare francese è chiamato «la petite mort», la piccola morte. È una esperienza «pericolosa»: nelle immagini che ne dà una società androcratica la donna è Giftmächen, la Poucelle venimeuse [il «vemineuse» del testo demartiniano è probabilmente un refuso]. Nel vertice dell'orgasmo — scriveva il compianto antropologo parafrasando Roger Caillois - la eiaculazione: cioè la separazione del plasma germinativo dal soma, come espulsione di materia virtualmente immortale. Il vertice dell'orgasmo e la eiaculazione somiglia alla morte, e negli esseri inferiori all'atto procreativo segue la morte. È una vera fortuna che l'uomo non appartenga al numero degli esseri inferiori e che possa, senza pensarci su tanto, praticare con serena incoscienza e immeditato abbandono una cosa tanto rischiosa. E anche complicata. Visto con l'occhio dell'etologo più che del mitografo, del fisiologo più che dello storico delle religioni e dei riti, l'amplesso ha in sé qualcosa di sommamente allarmante. In una prima fase l'organismo è in uno stato di crescente iperattività — De Martino traduce dal lavoro di R. Caillois, Le mythe et l'homme, 1938, p. 92 ss. —. Si pensi non solo ai fenomeni vascolari, turgore del pene nell'uomo e turgore della clitoride e delle piccole labbra della vagina della donna, ma anche alla accelerazione concomitante della maggior parte delle funzioni: respirazione corta e rapida, tendente alla soffocazione e comportante un aumento del tasso di sangue venoso, aumento che a sua volta mette capo ad un'alta pressione sanguigna, a precipitose e violente pulsazioni cardiache, ad intensa attività glandolare (traspirazione, secrezione dei diversi muchi), e infine attività motrice dapprima tonica, poi clonica, cioè agitata, irregolare e in parte involontaria. Il tutto, diretto verso il parossismo della eiaculazione, che, nella donna, ha il suo equivalente in una forte contrazione dell'utero che provoca la discesa di questo organo, con espulsione di muco, giunto al vertice rompe bruscamente il suo ritmo crescente, e ad una serie di impulsi lanciati verso un processo di accelerazione continua, apparentemente fine a se stessa, fa seguire una caduta improvvisa, verticale, nella immobilità forzata, nel riposo, nella semicoscienza. Quasi in requiem aeternam, nell'eterno riposo, verrebbe da aggiungere. Il quadro clinico di questa piccola apocalisse privata è piuttosto inquietante. Anche se Roger Caillois non poteva sapere (è una recente scoperta di un etologo inglese, reso celebre dai suoi studi sulle scimmie, Desmond Morris ) che perfino la temperatura del naso (omologo alla verga e sensibile al suo incremento termico) cresce in quei momenti paurosi di crisi, generalmente da uno e mezzo a tre gradi centigradi. Non avevano poi tutto il torto gli antichi medici a consigliare cautela, prudenza e misura nell'esercizio acrobatico di un'attività così ciclonica e non priva d'insidie, soprattutto cardiocircolatorie. Tuttavia uno storico delle religioni e delle tecniche dell'amore indiane, Mircea Eliade, avrebbe potuto suggerire qualcosa per tranquillizzare gli incontinenti d'Occidente, proponendo le tecniche di risparmio del sacro e prezioso soma messe in atto da certi guru e santoni dello yoga. Del resto anche in Occidente c'era stato chi, nel Cinquecento inoltrato, nell'età classica degli «scrupoli», aveva riflettuto perplesso, se non proprio preoccupato, sul «misterio del coito». | << | < | > | >> |Pagina 30Confezionato con dosi massicce di «testicoli delle volpi... radici bulbose chiamate volgarmente satirii», il «diasatirione di Mesue» godé di larghissima fama dal Medio Evo al Barocco. Elettuario di virtù preclara, infallibile a «provocare i desideri venerei», «moltiplica lo sperma, il desiderio di coire e fa erigere la verga virile». Di questa gemma della farmacologia erotica non sarà forse inutile dare il recipe secondo la vulgata secentesca.Piglia una libra di secacul bianco e mondo, bollito nel secondo brodo di ceci, testicoli di volpe oncie otto, radice di rafano oncie tre, radice di dragontea oncie due. Si pestano, e se gli pone sopra di latte vaccino o pecorino che gli cuopra due dita; oglio sesamino e butiro vaccino fresco ana oncie quattro: si cuocono (con fuoco conveniente) fino alla spessezza, e non essendo cotte bene vi s'aggiunge nuovo latte, oglio e butiro e si fanno divenire perfettamente cotte; allora vi si meschiano sei libre d'ottimo mèle, di sugo di cipolla umida una libra e mezza. Si fa cuocere di nuovo ogni cosa, finché acquista buona consistenza: si leva poi dal fuoco e vi si pone dentro la seguente polvere. Di coda e lombi di scinco dramme otto, seme d'eruca, di nasturzio, di pastinaca, di senape, d'asparago, gengevo, cinnammomo, pepe lungo, lingua avis ana dramme quattro. Meschiate che saranno con la detta polpa, vi si aggiunge pignoli mondati una libra e mezza, pistacchi mondi oncie due; meschia bene ogni cosa ed aromatiza con una dramma di muschio buono». Compendio e summa dell'erotismo artificiale, questa panacea sessuale attribuita all'arabo Mesue conosceva la variante del «diasatirion Nicolai» (dal nome di Niccolò da Salerno vissuto nel XV secolo) che «libidinem provocat» e del «diacameron Nicolai» che «luxuriam provocat». Nel Rinascimento la sua fama permaneva intatta, ma, al solito, l'incertezza nell'identificazione di questo portentoso additivo vegetale era grande. Il fondatore di questo mito afrodisiaco moltiplicatore di desideri e dispensatore di portentose energie, pare essere stato il discepolo d'Aristotele, Teofrasto, l'autore del De historia plantarum. Era veramente mirabile, per eccitare gli appetiti venerei — racconta Pietro Andrea Mattioli descrivendo il Satiro Eritronio — un'erba, la quale aveva portata un indiano; imperocché non solamente mangiata, ma toccata, tanto incitava gli uomini al coito, ch'essa li faceva potenti ad esercitarlo quante volte lor fosse piaciuto. Di modo che dicevano, che coloro che l'avevano usata, l'avevano fatto più di dodici volte, come che più volte fosse stato udito dire quell'indiano, il quale era di corpo grave e robusto, averlo fatto tal giorno settanta volte; ma però con spargimento di poche gocciole di seme per volta, il quale similmente si convertiva in gocciole di puro sangue. E dicevasi che molto più si scaldavano, togliendo questo medicamento, le donne, che gli uomini. Meglio non fare paragoni e, ad ogni modo, non lasciarsi impressionare: exploits fachireschi, magie esotiche, «mirabilia» indiche, racconti favolosi arrivati in Occidente da quell'Oriente leggendario, incubatoio di sogni, anche erotici, di cui l'Europa si nutriva avidamente; approdati fin da noi dalle terre del paradiso terrestre o dal reame di Prete Gianni, laddove l' hortus sanitatis sconfinava nell' hortus voluptatis. | << | < | > | >> |Pagina 41Caterina da Forlì era molto sensibile ed attenta a tutto ciò che riguardava sia la «natura» sia il singolare e mirifico strumento modellato per ararne i campi. E in particolare ai segreti accorgimenti intesi «ad magnificandum virgam» (a «magnificare il membro») id est a perfezionare l'artificio di dilatarne innaturalmente le dimensioni: «modus procedendi ut addatur in longitudine et grossitudine virge ultra misuram naturalem». Non è il caso di dare notizia esauriente di quelle cose («de hiis») «qui ingrossant et ellongant virile membrum». Il recipe era fondamentalmente basato sopra «virgam asini exiccatam» e Caterina assicurava che «cum predicto unguento omni die enim magnificabitur virga mirabiliter». L'interesse di Caterina era soprattutto professionale. Moltissimi ricettari a stampa (fra gli altri quello di Guglielmo da Piacenza) e manoscritti, come i Segreti experimentati di Pietro Veneto, erano ricchi di ricette «ad errigendum» e abbondavano d'unguenti efficacissimi «per fare sentire d'amore la donna» o «ad avere dilectatione con una donna»: insegnavano ad ungere con efficacia «la verga quando userai con donna» offrendo anche consolanti rimedi «a chi non potesse usar con donna».Naturalmente i «mirabilia» sessuologici della magnifica signora di Forlì e di Imola non si limitavano «a fare lussuriare inestimabile», come lei amava esprimersi, né a fare lievitare le proporzioni e le misure dell' organum. La sua gamma d'interessi e d'interventi era molto più vasta. Questa negromantica madonna sembra conoscesse il segreto infallibile «a fare tirare il membro». E un altro ancora — come lei si esprimeva — «a fare stare duro il membro». Con un'oncia di polvere di stinco marino (come in Alessandro Petronio e in altri trattatisti de re venerea, lo stinco marino svolge un ruolo di grande rilievo) «in bono vino mesticato... sempre starà duro et potrai fare quanto vorrai et la donna potrà fare el fatto suo». La sua delicata attenzione ai problemi della voluttà della donna che con pieno soddisfacimento «potrà fare el fatto suo» se il cavalcatore non sarà sceso intempestivamente dalla sella, è un segnale evidente della intensa richiesta femminile di piacere durante l'età rinascimentale, in tempi nei quali (come ha notato con evidente sorpresa G. Rattray Taylor in Sex in History) il «ruolo dominante [in questi affari di letto] era di competenza più delle donne che degli uomini». Erano le donne che prendevano l'iniziativa in matter of sex. Né è un caso che monsignor Giovanni Della Casa scrivesse il suo discusso capitolo sul «forno» e sull'«arte santa» delle «fornaie», quasi a sottolineare l'inesausto calore e le indomabili fiamme che la «natura» femminile alimentava in tutte le ore e in tutte le stagioni («os vulvae est insaturabile: ignis vero numquam dicit sufficit») con una spiccata predilezione per la stagione estiva che per gli uomini è purtroppo la più sfibrante e debilitante. | << | < | > | >> |Pagina 79Il rapporto fra vecchia e nuova scienza è complesso: Newton , ad esempio, l'«ultimo dei maghi», il «mago babilonese» (come fu definito nel 1947 da John Maynard Keynes ) era un divoratore di manoscritti alchemici. Eppure riuscì a teorizzare la legge della gravitazione universale. Il pregiudizio è l'altra faccia della cosiddetta scienza, destinata dopo un certo numero di generazioni, invertitisi i ruoli, a diventare essa stessa un pregiudizievole, se non risibile, errore popolare. E se è vero che «non impariamo se non collo scordarsi, e per giugnere a certo numero di verità incontrastabili siamo costretti ad abbandonare molte cose che avevamo imparato» — come scriveva Thomas Browne nella prima pagina dei suoi Pseudodoxia epidemica (1646) —, rimane pur tuttavia sempre valida la perplessità di un nipotino di Galileo , già segretario del Cimento, Lorenzo Magalotti , quando, rispondendo a un suo ideale interlocutore sicurissimo che «gl'intelletti del tempo presente abbiano fatto progressi maggiori nelle scienze» rispetto a quelli del passato, confessava che non riusciva a liberarsi da «un dubbio, se per questo essi si siano inoltrati verso la verità, più di quel che s'accosti verso l'infinito, chi multiplicando i numeri col contare, si scosta dall'unità». Che cosa è questa? esclama un grande autore di morale, che vive in oggi {1681]. Se non si distingue la strada, un si smarrisce; se se ne vede più d'una, un si confonde. Quell'intelletto, che vede più, è anche più capace d'ingannarsi di quell'altro che non vede nulla. Spesso c'inganniamo, perché ci fanno impressione gli errori degli altri, e spesso c'inganniamo, perché scopriamo gli errori degli altri. Mentre essendo talvolta errori solamente in parte, gli vogliamo far essere in tutto, Gran miseria! È di questi giorni (dicembre 1987) la notizia che il fisico sovietico Gribov ha giudicato non consistente il «modello quark», «quei mattoni ultimi della materia ormai popolari anche a livello televisivo» che sarebbero alla base dell'attuale visione dell'architettura delle particelle fondamentali della materia. Nuovi «pseudodoxia epidemica», nuovi «errori popolari»? Non sarebbe forse inutile ricordarsi qualche volta di quella graziosa historiette narrata da Magalotti che vede l'autore del Bacco in Toscana, grande indagatore della natura, sorridere finemente sulle pretese dell'umano intelletto. E non sono molti giorni, che discorrendo io seco [con Redi] di non so qual pretesa nuova ricetta per la sciatica, mi disse ridendo che in capo a tanti secoli, che vi son medici e poeti, Ei non ha per meno difficile il trovar una ricetta nuova in medicina, che un pensier nuovo in amore. Per ritornare ai nostri giorni, ci sarebbe da divertirsi a tenere il conto delle innumerevoli, continue palinodie, smentite, ritrattazioni, inversioni, pseudoritorni, restaurazioni, restauri, riciclaggi, pseudoinnovazioni che la dietetica «scientifica» sforna a getto continuo col risultato d'inferire un colpo mortale alla equilibrata saggezza alimentare della gente. Meglio poi non parlare dell'immoderato consumo astrologico di massa (che pare frutti un giro d'affari di diecimila miliardi all'anno) offerto giornalmente dai media tecnologicamente più avanzati per consolare, consigliare, illuminare, euforizzare o richiamare alla prudenza le masse che ancora oscuramente sentono di appartenere a un sistema cosmico del quale sfugge non solo la chiave d'interpretazione ma soprattutto il senso.
Se riflettiamo sui miti terapeutici e dietetici del nostro tempo, se
pensiamo alla credenza magica nei poteri
delle vitamine, delle pappe omogeneizzate al plasmon,
delle caramelle integrative, delle merendine per l'infanzia, della pappa reale
per i vecchi e gli estenuati, del ginseng, la mirabolante radice che ha
sostituito l'affascinante mandragola senza peraltro eccitare la fantasia di un
nuovo Machiavelli; se prendiamo per un attimo in considerazione i poteri
taumaturgici attribuiti alle insalate impreziosite dal cerfoglio e dal
dragoncello o alla follia collettiva per l'ortica, per le tagliatelle al
mirtillo o per il risotto al kiwi, o all'irresistibile successo delle porcherie
della cucina orientale di quart'ordine, dovremmo guardare con più serena
indulgenza alla vecchia dietetica elaborata sopra un'immagine dell'uomo molto
diversa dalla nostra, se ancora una, una qualunque immagine, ci resta.
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