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| << | < | > | >> |IndiceAl lettore 7 Requiem per un lunario 11 Morte per strada 17 Vivere di nulla 23 L'angelo e il fungo 29 Quando Muratori sognava un bagno 35 C'era una volta l'inferno 42 Ospedali dello Stivale 47 La sindrome di Lucullo 53 Moderata refectio 59 Carnivori all'inferno e bestie in paradiso 65 Il diavolo nella bottiglia 71 L'ultima frode 75 Sigari e belle mulatte 80 Bagatelle eleganti 85 Il postinferno 90 Nasuti e snasati 94 Gli ultimi giorni di Lodovico Antonio Muratori 99 Cucina casalinga 105 I figli della notte 111 Il triangolo liquido 117 Cioccolata a colazione 122 Euclide tra i formaggi 128 La «nuova cirugia» di Leonardo Fioravanti 137 La scienza astuta del mugnaio 143 L'incubo al colesterolo 148 Ginofobia e igiene intima 154 Indice dei nomi 165 |
| << | < | > | >> |Pagina 65Ci fu un tempo in cui si sentiva ripetere per le case, rivolto ai figli insoddisfatti o disappetenti, un ruvido precetto di mensa: «O mangiar questa minestra o saltar dalla finestra». Non risulta che nessun bambino (almeno per questo motivo) sia mai stato defenestrato o che, spontaneamente, abbia preferito prendere alla lettera la seconda parte dell'ingiunzione, optando per il fatale salto. Non era infatti un ordine temerario e iniquo, ma una moralità domestica profondamente educativa che riproponeva, seppur in versione tirannica, la stessa aurea esortazione che Cristo rivolse agli Apostoli: «Mangiate quello che vi sarà posto innanzi». Precetto rivoluzionario che liberava il cristiano dalla opprimente rete dei tabù alimentari e dalla paura dei cibi immondi che il Levitico e il Deuteronomio riversavano sulla tavola ebraica. Mangiare quello che ci viene portato, sia di nostro gusto oppure non lo sia, rappresenta un piccolo sacrificio o, secondo un altro punto di vista, una mortificazione che (lo faceva notare anche san Francesco di Sales) è «singolarmente propria alla vita civile». «Rifiutare una vivanda e pigliarne un'altra, pizzicare e rivoltare ogni cosa», riconosceva nella Introduzione alla vita divota (1608) il dolce e comprensivo vescovo di Ginevra, «non trovare mai cosa ben condita, far misteri ad ogni boccone, questo sa di un cuore molle e che pensa molto ai piatti e alle scodelle». È probabile che anche nel nostro paese si pensi troppo ai piatti e alle scodelle, anzi alla carne, all'equivoca carne, cibo voluttuoso ma obitoriale, le cui tetre fermentazioni cadaveriche sembrano sollecitare nei meandri intestinali cancri divoratori e incrementare irreparabili tumori. Certo è difficile seguire l'esempio di san Francesco d'Assisi (uso peraltro, per ubbidienza evangelica, a «conformarsi nella qualità dei cibi a quelli che l'albergavano», cortese verso il prossimo anche nella «civile condiscendenza del mangiare») il quale un giorno, convalescente, avendo pensato di «riaversi alquanto per mezzo di polli e d'altri cibi saporiti della campagna», subito pentito e volendo punirsi per «aver solamente ascoltato un tal pensere», raccolse un pollo mezzo putrefatto trovato sopra il letame e se lo portò al naso dicendo a se stesso «tieni, goloso: ecco la carne di pollo che tu hai bramata, contenta pure la tua gola e mangiane quanto vuoi». Perfino l'austero e «orribilmente superstizioso» Pitagora, teorizzatore di un enigmatico regime alimentare fitto di inesplicabili divieti, il controverso «vitto pitagorico», consistente – sembra – nell'uso libero di tutto ciò che è «vegetabile, tenero e fresco» (ad eccezione delle aborrite fave), secondo una antica aneddotica confortata da serie testimonianze «mangiava per sé e consigliava anco gli altri a mangiare di quando in quando senza scrupolo alcuno de' pollastri, de' capretti e de' teneri porcelli, della vitella di latte e de' pesci», ad eccezione delle parti più tenere e sfatte, interne e delicate, le «glandule e le viscere» (quelle che noi chiamiamo frattaglie) ritenendole sospette, anzi perniciose per la «loro più forte ferina esalazione» (Antonio Cocchi). Certo è che discepolo, seguace e amico di Pitagora fu Milone di Crotone, uno dei più popolari atleti dell'antichità, famoso per la mostruosa forza muscolare e leggendario divoratore di vitelli. Dopo di lui cadde in profondo disuso l'antica dieta dei ginnasti a base di fichi secchi, di legumi e di cacio. Anche se, come deprecavano medici e filosofi, lo smoderato uso delle carni e del vino, mentre donava al corpo un vigore gladiatorio, rendeva ottusa la mente, flaccido e umido lo spirito. Ottima e sapientissima era ritenuta invece l'anima asciutta (anima sicca). Ma, accantonando il secolare problema delle interdizioni pitagoriche che anche recentemente ha attirato l'attenzione di Mirko D. Grmek in Le malattie all'alba della civiltà occidentale, è incontestabile che la ripulsione verso il massacro degli animali e lo scempio edonistico delle loro carni fosse largamente diffusa fra i sapienti e i moralisti del mondo antico. E ancor più esecrate le tecniche crudeli con le quali venivano seviziati per soddisfàre le libidini di gola. Cigni e gru dagli occhi cuciti perché in quel buio le carni, impregnandosi d'oscure, inedite sensazioni, trasmettessero al palato brividi di nuove voluttà. Troie sul punto di partorire calpestate nelle mammelle perché da quei feroci aborti schizzassero sfatti bocconi di feti intrisi di sangue, latte, umori usciti insieme dalla matrice infiammata, lacerata e spasimante. Maiali trucidati con spiedi arroventati perché il sangue diffuso ed egualmente sparso nei tessuti ne rendesse più molli e delicate le carni. | << | < | > | >> |Pagina 143Maestro nel domare l'acqua, inventore e manovratore di congegni e ordigni che, imbrigliandone e guidandone la forza, potessero addomesticare e controllare il selvaggio fluire del liquido elemento, l'uomo delle mole, il molinaro, esercitava il suo potere sulle acque piegandole al servizio degli uomini. C'era qualcosa di magico e di sacrilego in chi catturava l'energia primordiale del flusso che nasceva dalle caverne della Grande Madre, nei seni gonfi e negli umidi uteri della Terra e la incanalava per torturarla con ruote, pale, magli, rendendola, da libera e fecondatrice, schiava e sterile. Il mugnaio non era circondato dall'alone magico del mastro del fuoco, del «fabro ferrario» che plasma e modella e crea gli oggetti col calore e la fiamma, eroe culturale civilizzatore che tresca con un elemento sacro, piegandolo al suo volere di demone metallurgico. Il carattere demoniaco delle attività fabrili richiedeva nelle culture arcaiche sacrifici umani di espiazione. Ma riti di riparazione fino al sacrificio cruento prescriveva, in età precristiana, anche la costruzione di strutture edilizie, e in particolare di ponti che offendevano gli spiriti delle acque. La sacralità dell'acqua offesa dall'artificio umano che turbava l'equilibrio delle invisibili e segrete potenze naturali esigeva cerimonie di risarcimento e di espiazione per ripristinare l'ordine interrotto e violato dalla mano dell'uomo. Santuari idrici, culti delle acque, demoni delle sorgenti, ninfe dei fiumi costellano la religiosità arcaica con forti permanenze anche nel folclore dell'Europa cristiana. Ponti e mulini del diavolo, frequenti nella toponimia popolare, attestano questa particolare sfera di sacralità delle acque che si manifesta nella demonizzazione di manufatti stupratori della verginità dei fonti e dei fiumi. Macinare l'acqua (il verbo contiene una forte pregnanza sessuale), trasformarla da sostanza primigenia in energia addomesticata e servile, dovette apparire un'attività particolare, anomala in un certo senso, deviante rispetto all'uso «naturale» dell'elemento inafferrabile.
Anche per questo motivo l'invenzione del mulino ad acqua
apparve come un portento non umano, una specie di prodigio
voluto dalla divinità e realizzato dagli spiriti stessi delle acque.
In età augustea un epigramma tradizionalmente attribuito ad
Antioco di Tessalonica esprime la meraviglia e lo stupore per
l'ingegnoso ritrovato che finalmente affrancava le mani femminili (soprattutto
quelle delle schiave) dal lavoro pesantissimo di tritare le granaglie:
Macinatrici accordate riposo alle mani: dormite, dormite, anche se l'alba di già cantano i galli. Cerere impose alle ninfe dell'acque il lavoro: d'un balzo si lanciano esse al sommo d'una rota e fan che l'asse giri... Siamo all'età dell'oro tornati di nuovo, se i doni di Demetra possiamo gustar senza fatica. Le Naiadi divenute - come nelle fiabe - aiutanti magici dell'uomo, demonizzate poi dal cristianesimo si trasformeranno in spiriti delle acque, demoni, streghe, fate, eguane. Queste origini misteriose e mitiche del mulino ad acqua tennero a battesimo anche la figura del mugnaio e continuarono impalpabilmente a modellarne l'immagine nell'epoca medievale e premoderna, attribuendogli anche uno status sociale atipico, difficilmente catalogabile: un po' artefice e inventore, esperto di macchine e di meccanica, un po' artiere e lavoratore, un po' mercante. Certamente la sua era una professione non ignobile (nei Racconti di Chaucer compare un mugnaio che aveva sposato una donna della piccola nobiltà), circondata da un prestigio particolare: nella tradizione scritta colta e in quella orale viene sottolineata la confidenza del mugnaio con le questioni astruse e gli ardui problemi astratti, la familiarità con gli enigmi e gli indovinelli, la sua perspicacia di sofo ispirato e la sua sottigliezza che poteva imbarazzare i potenti e umiliare i falsi sapienti. Uomo appartato e solitario, viveva in un umido spazio fra acque e ruote, mole e tramogge, in una officina molitoria che trasformava i grani della terra, con il complice governo delle acque, in preziosi beni commestibili. Uomo vestito di bianco (colore al quale si associavano suggestioni di sacralità e di autorità), figura cui si attribuivano conoscenze particolari, poteri sfuggenti e obliqui e forse canali sotterranei per mettersi in contatto con verità occulte. Nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti, Bernabò Visconti, crudele signore di Milano, appare «trafitto» con «belle ragioni» da un mugnaio che seppe rispondere ai quattro quesiti che l'irascibile despota aveva dato da risolvere a un suo ricco abate il quale, disperato, si era fatto sostituire dal mugnaio del monastero: «quanto ha di qui al cielo; quanta acqua è in mare; quello che si fa in inferno; e quello che la mia persona vale». Scoperta da Bernabò la vera identità dello scioglitore d'enigmi, «avisando lui essere troppo maggiore uomo di scienza che l'abate non era», il severo ma giusto signore ordinò che «da qui innanzi tu sia l'abate, ed elio sia il mulinaro, e che tu abbia tutta la rendita del monasterio, ed elio abbia quella del mulino». «Uomo di scienza», cervello alacre e sottile il mugnaio umilia (seppur involontariamente) il ricco padrone ecclesiastico e' lo sostituisce al governo dell'abbazia. In Lu mulinaru e lu re (novella siciliana raccolta da Giuseppe Pitrè) un sagace mugnaio con un suo indovinello («vivu [bevo] acqua, pirchì 'un haju acqua; s'avissi acqua, vivirria vinu») dà scacco matto al re e ai suoi baroni. È significativo che questa novella popolare (peraltro l'indovinello del mugnaio vive anche in numerose versioni d'altre regioni italiane) attribuisca ad un mugnaio lo scioglimento dell'enigma che nel Novellino - in una situazione del tutto uguale - un fabbro propone a Federico II, con grave scorno e vergogna dei reali «savi», incapaci di spiegarlo. Fabbro e mugnaio, personaggi intercambiabili dei racconti popolari, ripropongono nelle vesti di ideatori o di risolvitori d'enigmi il possesso di una «scienza» e di una sapienza ignota a principi, a savi di corte e a sacerdoti dell'alto clero. Chi operava nella sfera del fuoco e in quella parallela dell'acqua, chi dava vita e forma agli inerti metalli e chi si serviva dell'energia idraulica per trasformare i chicchi in farina, appariva nel mondo magico premoderno personaggio in possesso di poteri superiori. | << | < | > | >> |Pagina 154Passare dai giorni delle diete calibrate, bilanciate, meticolosamente studiate da esperti, da terapeuti, da maghi del metabolismo, da prestigiosi conservatori della salute, della bellezza, della snellezza all'età dei filtri, delle pozioni, degli elettuari, degli unguenti afrodisiaci e dei regimi alimentari corroboranti, tonificanti, restaurativi che li accompagnavano per potenziare le energie nelle lunghe e defatiganti battaglie veneree, è come precipitare in assurde lontananze nelle quali lo sperpero della vitalità, la dilapidazione delle risorse sessuali, la perdita dei sughi vitali, il consumo della propria carne appartenevano alla quotidiana logica del vivere. Il sogno contemporaneo della «lunga vita» che si accompagna in perfetto parallelismo a quello della ormai famigerata «qualità della vita» (puntualmente contraddetto dal numero sempre più alto di gente che preferisce sbrigativamente uscire anticipatamente dalla scena del mondo con il suicidio) fa parte ormai di una cultura collettiva alla cui soddisfazione attendono agguerriti potentati: le oasi protette delle beauty farms, i «centri di trattamento interdisciplinare reintegrativo», i laboratori di restauro dei corpi deteriorati o in decadimento, la potente catena dell'industria farmaceutica. In questa grande, operosa officina di restauro un posto notevole spetta alla chirurgia estetica, di cui un quarto degli interventi (secondo la nuova moda furoreggiante negli USA) viene eseguito su ragazzi d'ambo i sessi, su quei poveri, inutili, annoiati teen-agers del ceto medio che ha trovato nelle plastiche facciali un nuovo status symbol regalato da genitori che vogliono tutto, proprio tutto, per i loro figli, dal naso nuovo ai seni ingrossati o (se è necessario) alleggeriti. Rinnegando la sua antica funzione, la farmacia è diventata un operoso centro di guerriglia anticucina, una bottega in dura concorrenza con i negozi di generi alimentari nella quale si vendono ad alto prezzo tutte le infinite specialità della nevrotica dietetica contemporanea che fa coincidere la salute con la snellezza e la felicità col sentirsi in forma. La bilancia si è conquistata un potere smisurato, quasi dittatoriale: il suo ago, controllore della corporeità «giusta», si è surrogato la missione di vicario laico dell'occhio di Dio che tutto squadra e valuta, angelo-demone iatromeccanico cui debbono rimanere estranee le ingiustificabili ragioni del benessere del ventre e del piacere delle parti basse. Nata per la misura e la valutazione dei gravi, la libra-bilancia, applicata al corpo, ha finito per simboleggiare, insieme al metro, un canone quantitativo della condizione umana sondata in pesi e misure, la cui trasgressione coincide con la caduta nel peccato sociale di disubbidienza alle leggi della valutazione dell'apparenza estetica e con l'oltraggio al nuovo idolo delle masse, la fitness, il desiderio tutto narcisistico di piacere a se stessi, la sensazione di uno stato di grazia fisico da non sciupare in nessun modo, l'illusione dell'autogratificazione epidermica e la sublimazione dell'egoismo corporeo che implica la fondamentale incapacità di darsi al prossimo, la paura di sciuparsi, di spendersi (anche sessualmente) per l'altro. «Figurella. Snellezza programmata. La misura della felicità. Volersi bene, vivere meglio» predica dal cartellone pubblicitario la giovane semidiscinta che, metro in mano, sta prendendosi le misure della coscia, dove il «volersi bene» è il puro e semplice amore della propria espressione carnale, la «filautia» fisica, la cura del proprio corpo agile, flessuoso, leggero. «Sentirsi leggeri per sentirsi vivi», la leggerezza diviene prova dell'esserci, del Dasein, segno di riconoscimento dell'esistere dentro e per il corpo, come vorrebbe lo slogan di una nota fabbrica di biscottini e di crackers che s'insinua nell'inconscio collettivo delle nuove generazioni per le quali la modernizzazione del palato procede in sintonia con la sfera del sesso. La vecchia querelle moralistico-teologale del Cinquecento se la continenza (e all'estremo limite la castità) fosse preferibile alla sobrietà e alla temperanza, oggi non avrebbe più senso. In una società in cui la secolarizzazione degli atteggiamenti verso la vita e verso la morte ha di fatto portato sugli altari due nuovi venerati totem, i detersivi e i preservativi, non c'è più posto né per l' outrance sessuale né per la bombance polifagica, né per la sua variante gastronomico-afrodisiaca. Dioscuri vincenti in un'epoca dove solo agli oggetti viene riconosciuta dignità, autonomia, personalità: stretti alleati entrambi nella funzione di detergere, di ripulire o di proteggere, di allontanare, di evitare contaminazioni e infine di esorcizzare il Male, sia esso lo sporco o la sua variante sinistra, l'infetto. La ricerca del bianco che più bianco non si può, la paura nevrotica della macchia e dell'unto, ha limato l'ormai arcaico timore del peccato, della sporcizia morale, della bruttura etica. Il bianco e la sua forza lavante hanno intaccato, se non dissolto, inveterati imperativi morali: la candeggina ha sostituito fra le donne di casa le vecchie liturgie domestiche, le sacre novene e le memorie degli antenati. Così come la leggerezza (relativamente) sicura del preservativo ha eliminato in un solo colpo sentimenti di colpa, responsabilità morali, terrori igienici. Il Male, sia quello individuato nello sporco, nel nero del luridume o nella sua ombra maligna (il sangue infetto nella sua bianca versione, lo sperma) ha trovato nuovi argini e terrapieni.
Tuttavia, rispetto ai secoli passati, alle età cloacali quando
non era ancora platealmente diffuso l'odio viscerale per gli intestini e la
grossolana vita dell'istinto, non abbiamo ragioni di
ritenere che l'«estre des femmes», «de soy insatiable» – come
diceva Panurge – abbia di che rallegrarsi, anche se l'igiene
(soprattutto quella intima) è riuscita non solo a detergere ma
addirittura a dissolvere un allarmante fantasma che si era a
lungo aggirato nelle fantasie erotiche, nelle selve teologiche,
nelle dottrine mediche dell'Europa premoderna: quello lurido
della donna-matrice. Il ventre femminile,
caveau
di tesori estremamente appetibili ma insidiosi, nascondeva un
effrené animal
(Rabelais, Pantagruel, 22), un «membro» famelico dotato di
vita autonoma, libero e indomabile, senza statuto morale, un
organo separato e irresponsabile, nervoso, emotivo, irrazionale. «Cestuy
terrible animal», «ce membre... tout nerveux, et de vif sentiment» – sono parole
del rabelaisiano dottor Rondibilis – «posé en lieu secret et intestin» era,
naturalmente, l'utero.
«Fontana di seicento calamità» fin dai tempi della medicina
ippocratica, all'inizio del Settecento era ancora ritenuto da
tutti e fra gli altri dal grande naturalista Antonio Vallisnieri
«un'Africa fecondissima di mille mostri, tanto diversi dall'umana natura quanto
i serpenti, gli elefanti, i leoni e simili sono
diversi dagli uomini»
(Considerazioni, ed esperienze intorno alla generazione de' vermi ordinarj del
corpo umano,
Padova 1710). Nella oscura e putrida palude uterina, come nelle morte acque
stagnanti nelle quali pullulavano idre, tarasche, serpenti e incubavano,
fermentando, mostruosità d'ogni genere, potevano
annidarsi «cose» deformi, animalità abnormi, «portenti strabocchevoli». «Tutte
le cose de la palude», scriveva il medico
astrologo italiano Michelangelo Biondo, contemporaneo di
Rabelais, «sono piene di malignità». Anche il ventre muliebre
nascondeva nell'utero una potenziale fucina di mostri. Questo
membro bestiale, inquieto, tormentoso, insaziabile, dal quale,
come dalle acque malsane di uno stagno, si alzavano talora
«humeurs salses, nitreuses, bauracineuses, acres, mordicantes, lancinantes,
chatouillantes amerement», perché fosse condotto alla ragione, perché le sue
furiose smanie cessassero almeno temporaneamente, aveva bisogno di essere
«assouvy (si assouvy peut étre), par l'aliment que nature luy a preparé en
l'homme» (Rabelais).
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