Copertina
Autore Piero Camporesi
Titolo Le vie del latte
SottotitoloDalla Padania alla steppa
EdizioneGarzanti, Milano, 2006 [1993], Saggi , pag. 136, cop.fle., dim. 137x210x10 mm , Isbn 978-88-11-74055-1
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe storia sociale , alimentazione , sensi
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Indice


La via lattea                     5

Il padano Petrarca               49

Mediterraneo e dieta padana     103



 

 

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La via lattea



Ogni liquido è acqua e ogni acqua è latte. La sacra umidità primigenia stillante dal corpo della terra madre, fonte perenne di forme vitali, era al centro dei culti arcaici dell'Europa neolitica preindoeuropea. Nell'inafferrabile elemento, ricco di germi, fermentante di inespresse latenze, super-latte inesauribile, si acquattava l'energia vitale primordiale, l'oscuro segreto dell'esistenza, della generazione, della fertilità, l'umido lievito che presiedeva ai meccanismi della nascita, della crescita, della rigenerazione. L'estinzione e l'annullamento venivano dal secco (alíbantes, nel mondo antico, erano i morti, i rinsecchiti o disidratati), la vita al contrario germinava nel liquido, nel molle, nel bagnato. Vita est per humiditatem, aveva sentenziato Aristotele. Il potere dell'acqua, la sua vis genitiva, era intercambiabile con quello del latte, entrambi princìpi creativi, l'uno variante dell'altro: dall'acqua che purificava, fecondava, guariva, reintegrava, ringiovaniva, scaturiva con fatale parallelismo, per inestricabile simbiosi, la «virtù» del latte di alimentare, accrescere, moltiplicare. Fonti magiche, i seni muliebri costituivano fertili serbatoi di vita, sorgenti distillatrici di linfe tiepide e dolci, ubera, matrici di riproduzione e di abbondanza, metafore universali di fertilità per uomini, animali, campi.

Indissolubilmente connessa al latte nella sensibilità arcaica, nella mentalità magica e nell'inconscio collettivo, l'acqua, «material principio di tutti i composti» (Talete), s'integra con la donna, umida come la luna, le rugiade e le piogge, s'identifica con l'archetipo femminile e materno che secerne il latte. La dea iranica delle acque «dà loro [alle donne] il latte di cui hanno bisogno». «Le acque, che sono le nostre madri e che desiderano partecipare al sacrificio», recitava un inno vedico, «vengono a noi seguendo le loro vie e ci distribuiscono il loro latte». Nello Avesta-Yasna l'ambivalenza dell'acqua/latte, del primordiale principio nutritivo che presiede alla nascita di tutti gli organismi viventi, brodo incubatore di tutte le forme che animano il globo, si sublima in un inno-preghiera di singolare, suggestiva potenza: «Onoriamo questi princìpi della nutrizione, della formazione, dello sviluppo... Alle acque intanto offriamo questo sacrificio, all'acqua della rugiada, dei torrenti, della pioggia, delle sorgenti, all'acqua santa, all'acqua seminale... veniamo a rendervi onore, o voi acque e liquidi sanguigni e seminali. Vogliamo invocarvi, acque che penetrate in ogni cosa, acque perfettamente buone e belle. Vi chiamiamo perché vi spandiate, o acque sante. O liquido dell'azione estesa, che ti divini e ti spandi in tutto il corpo dell'uomo, noi ti invochiamo, o latte».

Il rapporto fra acqua e latte è una costante pressoché universale: offerte di latte e cerimonie di mungitura per invocare la pioggia s'incontrano dai Balcani alla Baviera (qui l'acqua di grandine nell'acquasantiera accresce la produttività di latte), dall'Africa all'India (in aree periferiche sopravvive la figura del lattaio-sacerdote), dove le fanciulle nel giorno del solstizio d'estate innalzano inni magici per implorare acqua per i campi e latte per le mucche.

La polivalenza sacrale dell'acqua/latte si esprimeva nel culto arcaico (sopravvissuto nelle campagne fino a pochi decenni or sono) delle acque galattofore (le «madonne del latte» nella versione cristiano-cattolica) che ripristinavano nelle madri il latte perduto e alle greggi e mandrie animali restituivano la funzione lattea scomparsa o la potenziavano. Grotte del latte, «fonti lattaie», «pietre lattaiole», selci e pietre serene, bianche steatiti (dette nell'Italia centrale «mamme longobarde») erano luoghi e oggetti magici d'intenso culto nelle campagne. Nel folto dei boschi di querce sacre si celavano antichi santuari della lattazione. Fin dal Paleolitico superiore la secrezione lattea languente o scomparsa delle puerpere chiedeva aiuto e medicina alle acque delle sorgenti galattofore. Non solo le madri, ma anche gli animali da latte venivano condotti a bere le acque restauratrici della secrezione perduta. Acque sorgive che, poste in età romana sotto la protezione di Giunone Lucina (nell'antica religio laziale alla Bona Dea si offrivano coppe di latte), passarono poi sotto la tutela della Vergine Maria, di sant'Anna, di santa Elisabetta, di sant'Eufemia. Nell'Europa cristiana, dall'Irlanda alla Bretagna, dalla Francia all'Italia le madonne e le sante del latte presero il posto (senza però eliminarle del tutto) delle pre-cristiane «fonti del latte». I «miracoli del latte», gli interventi di forze soprannaturali nei delicati periodi dell'allattamento nelle società agrarie non protette, in cui lo stato d'ansia e di paura per la crisi alimentare sempre incombente rendeva la lattazione uno dei momenti più delicati all'interno delle famiglie e dei gruppi sociali, s'infittiscono nelle leggende e nelle forme devozionali, quasi a sottolineare la delicatezza e l'urgenza perentoria di proteggere questa bianca linea della vita, la liquida via lattea terrestre, anello indispensabile della trasmissione e della continuità dell'esistere.

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Non solo nelle campagne a sud delle Alpi e fra le tribù slave balcaniche e sarmatiche, ma ancor più nelle terre del Settentrione, nell'Europa scandinava del latte e del burro, nelle fredde e sterili regioni, povere di cereali, abitate da pastori, pescatori, cacciatori dove il latte (insieme alla pesca) costituiva un insostituibile mezzo di sopravvivenza, i malefici verso le bestie lattifere erano particolarmente temuti. Nel più povero di questi paesi, nella terra di quei Finni che vivevano da millenni in estrema povertà e in condizioni di primitiva selvatichezza («Fennis mira feritas, foeda paupertas» aveva lasciato scritto Tacito nella Germania), dediti quasi esclusivamente alla caccia e all'allevamento del bestiame, riparati in minuscole capanne di rami intrecciati (tali erano rimasti fino agli ultimi decenni del XVII secolo quando furono visitati da Francesco Negri, viaggiatore ravennate), il mondo magico-stregonesco legato al latte emerge con singolare potenza. Nel Kalevala, il poema nazionale dei Finni, folletti che s'impadroniscono del latte altrui su comando di potenti stregoni, occhi e dita divenuti strumento di sortilegi, spiriti maligni, canti magici, scongiuri e formule apotropaiche recitate a protezione del latte fresco e di quello accagliato costituiscono un sottofondo perenne alla dura vita dei pastori allevatori sempre ansiosi per le loro mucche. Nel trentaduesimo runo, come mai forse in nessun altro canto di qualsivoglia paese, esplode incontenibile l'adorazione verso il latte insieme all'angoscia di possibili malefici:

Scava un'aurea fontanella / per la gregge, da due parti, / donde il gregge l'acqua beva, / lecchi il miele a poco a poco / pe' capezzoli gonfiati, / per le turgide mammelle, / sì che vibrino le vene, / sì che scorra il latte a rivi, / sgorghi il latte a ruscelletti / e trabocchi qual fiumana, / si diffonda in canaletti, / in rigagnoli giù sprizzi, / per largire in ogni tempo, / per sgorgare ad ogni volta, / del malevolo a dispetto, / non ostante i malefici...

Finlandia a parte, tutta l'Europa celtica, teutonica e slava aveva trovato nel latte una fondamentale sorgente di vita fin dalla preistoria. Le tribù germaniche, che non praticavano l'agricoltura, si nutrivano prevalentemente, oltre che di carne, di latticini. «Agricolturae non student», aveva lasciato scritto di loro Giulio Cesare nel De bello gallico, «maiorque pars victus eorum in lacte, et caseo, et carne consistit». Anche secondo Tacito il lac concretum (cagliato) rappresentava un perno importantissimo dell'alimentazione «barbarica», semplice e priva di raffinatezza, limitata, al di fuori del latte e dei suoi derivati, alla selvaggina fresca («recens fera») e ai frutti della terra («agrestia poma»). Con l'aggiunta di quelle dolciastre pappe o polentine di latte e avena o miglio, forse aromatizzate dal comino, che rivivono anche nelle fantasie arcaico-matriarcali del Rombo (Der Butt) di Günter Grass.

I Celti della selvaggia Irlanda, dell'isola nota col nome di Hybernia o Hyrlandia, soliti a sfamarsi talvolta con un miscuglio semisolido di latte bollito insieme a sangue di mucca ed erbe aromatiche, avevano nella cosiddetta «carne bianca», un impasto di latte cagliato e ricotta (bonaclabbe), il loro cibo nazionale. Nelle remote e desolate Ebridi dove i cereali nobili non riuscivano a maturare, le tribù gaeliche di pescatori e pastori si nutrivano — come raccontava nei Mores, leges, et ritus omnium gentium Ioannes Boemus Aubanus (Iohan Von Aub) nel secondo decennio del XVI secolo — quasi unicamente di latte e di pesci: «incolae fruges nesciunt, piscibus tantum ac lacte vivunt». Nelle isole Orcadi, dove accanto alle grandi distese di erica nascevano grame spighe d'avena e d'orzo, latte, burro, formaggio caprino e pecorino costituivano il cibo quotidiano degli isolani, variato con la carne degli uccelli marini che nidificavano in branchi sterminati fra le scogliere e i dirupi a picco sul furioso mare. In Groenlandia, arrivata la primavera, i pastori andavano a vivere fra gli armenti dopo che, durante l'inverno, si erano nutriti quasi esclusivamente di mele lasciate a macerare nel latte. I Norvegesi avvicendavano all'onnipresente pesce (sulle loro tavole mancava soltanto il giorno di Natale) il latte munto da piccole vacche senza corna, alternandolo a un formaggio molle, liquefatto e verminoso. Nella parte australe della «Gothia» o Svezia, dove per «la grassezza e la fecondità del terreno» (sono parole di Olao Magno, arcivescovo di Uppsala, celebre storico delle genti del Settentrione) crescevano erbe «d'una qualità dolcissima, delle quali satollandosi le mandrie delle vacche» producevano grandi quantità d'un latte così soave e nutriente che perfino gli ammalati senza speranza, ormai abbandonati dai medici, potevano ritrovare, bevendolo o mangiandolo sotto forma di burro, la perduta salute.

Non solo l'Europa «barbara» celto-germanico-scandinava e il mondo latino-mediterraneo, dove l'olio e i cereali costituivano però valide alternative ai latticini, ma anche l'Est balcanico e slavo, anzi tutto lo sterminato territorio che si estendeva dalla Vistola alla Grande Muraglia — confine simbolico fra i popoli lattofili e quelli dell'Estremo Oriente refrattari se non ostili a burro, formaggio, latte — si muoveva e navigava in un mare di latte le cui onde s'arrestavano là dove le orde mongoliche, grandi consumatrici di questo vigoroso propellente, cozzavano contro le difese erette dal Celeste Impero lattofobo per preservarlo dall'invasione dei nomadi lattofili. Una linea alimentare che si dimostrò più solida e persistente di qualsiasi barriera difensiva.

Fuori dello sconfinato asse Est-Ovest, nei paesi del Medio Oriente, nei grandi spazi indo-iranici, in larghe zone del continente africano, dai nomadi Berberi all'Egitto, all'Etiopia, alla Nigeria, l'«alimento perfetto» ha nutrito popoli, mosso carovane, ispirato cosmogonie, innervato (insieme al burro liquido e al miele) grandiose metafore bibliche. Latte vaccino, ovino, caprino (ma anche bufalino e asinino) in Europa, Persia, India, nei grandi, antichi regni africani, latti dolci che «ad usum christianorum veniunt tantum», come li classificava alla fine del XV secolo il maestro dello Studio padovano e medico dei duchi d'Este Giovanni Michele Savonarola nella Practica maior, riferendosi ai consumi di latte nell'Europa evangelizzata; latte equino e di cammella, acri all'olfatto e pungenti nel sapore, nell'universo errante delle steppe e dei deserti. Le divisioni geografiche ed etniche non furono però mai troppo rigide. Basterebbe ricordare che la selvaggia e quasi ferina vergine Camilla, campione delle più antiche genti italiche del Lazio, era stata allevata con latte di cavalla dal quale sembrerebbe avesse attinto la sua scalpitante, indomita natura: «armentalis equae mammis et lacte ferino/nutribat» (Eneide, XI, 570-71).

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Il latte allo stato naturale e particolarmente quello delle nutrici, umidificante e rinfrescante, ha un potere sedativo e calmante, tranquillizzante come una tenera carezza materna. Egli è, in una certa misura, incubatore di quiete sognante, di serenità emolliente, diluitore organico di tensioni e di paure. A parte la sua insostituibile funzione nella crescita (perfino gli enciclopedisti, non troppo teneri con questo alimento, trovavano «admirable cependant combien le lait pris en très-petite quantité pour toute nourriture, nourrit et soutient, lorsqu'il réussit, les personnes mémes les plus vigoureuses»), gli anticorpi di cui è riccamente dotato innalzano una preziosa barriera protettiva che respinge insidiosi agenti patogeni, mentre la lattoferrina — una proteina capace di fissare il ferro — riduce le probabilità d'infezioni intestinali. Questo dolce brodo bianco svolge inoltre la funzione di un vero e proprio sedativo in virtù di una sostanza, recentemente individuata nei laboratori svedesi, affine alle benzodiazepine (farmaci ansiolitici) che facilita il sonno tranquillo del bambino.

Il latte, se «conciato» o «medicato», invece, se sottoposto all'artificio distillatorio, da liquido balsamico della tranquillità e del sonno sereno, diventava potus vinosus o spiritus ardens trasformandosi in un esilarante «vino bianco». Dal punto di vista storico la contrapposizione fra la tumultuosa eccitazione dionisiaca del vino e la tranquilla compostezza del supposto antivino, fra le sguaiate visioni indotte dalla bacchica ebrezza col suo corteo di fantasie torbide, di sogni proibiti, di illuminazioni eccitanti e la pacata serenità arcadica ed edenica della pastorale bevanda, non ha solidi motivi di esistere. Come il rosseggiante vino era sentito dalla mentalità premoderna alla stregua di «sangue della terra», così il latte, sangue concotto, candida linfa filtrata e spremuta dai tiepidi alambicchi naturali formati dagli interni torchi femminili, possedeva una vitalità animale (contrariamente a quanto sosteneva Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale «le lait, bien qu'élaboré dans le corps de l'animal, est une substance végetale») che, se manipolata e affatturata, poteva soddisfare l'universale, umanissimo bisogno di staccarsi dal mondo, dal tormentoso presente, dalla perenne tragedia della storia, per trasferire, seppur temporaneamente, gli uomini in una dimensione diversa, per riportarli nella sognata terra promissionis, nella mitica terra di Canaan dove perennemente «scorreva latte e miele», nell'eden effimero della dolce vita lattata e mielata, nel confortevole paradiso del ritorno all'infanzia smemorata del mondo.

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Il padano Petrarca



Lasciata Mantova in un tardo pomeriggio di giugno, costeggiando il Po gonfio per le nevi che sulle Alpi stavano sciogliendosi sotto il soffio di venti sciroccali all'inizio difficile di una estate umida e ritardata, dopo aver faticosamente galoppato per piste fangose assediate da un mare di melma («omnia circum limo obsita», Fam., ix, 10), finalmente, al cader della notte, Francesco Petrarca riuscì ad arrivare a Luzzara dove avrebbe sostato per proseguire il giorno dopo, diretto a Parma e a Selvapiana. A Luzzara, in una signorile dimora, lo attendeva una sontuosa cena. Aveva scelto a malincuore il cavallo perché la navigazione su canali e fiumi lombardi, da lui sempre preferita («sieno rese grazie ai nostri fiumi, il Po ed il Ticino», scriverà nel 1368 a Giovanni da Mandello, «e a quel canale che è stato con ingente fatica di manuale opera scavato»), era divenuta impossibile in quei giorni di piena.

Tutto, in quell'umida serata del 1350, fu gradevole: la cena splendida («apparata opipare cena»), le vivande ricercate («peregrine epule»), i vini scelti che venivano da lontano («externa vina» ossequiosi e premurosi gli anfitrioni che erano stati preavvertiti dai Gonzaga, simpatiche e allegre le facce dei commensali («leti vultus»). Ogni cosa fu perfetta tranne il luogo dove si svolgeva la cena, del quale (osservava Petrarca) si poteva avere un'idea quale fosse d'inverno vedendo quello che vi succedeva in estate. Quel palazzo era una vera e propria casa delle mosche e delle zanzare («muscarum domus et culicum»). Il minaccioso, sibilante ronzio di quest'ultime preavvertì tutti che non era il caso di ritardare ancora il levarsi da tavola («quorum murmur admonuit maturius e convivio fugiendum»). Le sorprese spiacevoli non erano però terminate: all'imminente pericolo delle zanzare si era aggiunta la sgradevole invasione di rane che, sbucate in massa dai sotterranei e dalle cantine, si affollavano, come in un brulicante mercato, saltando e gracidando sul pavimento della sala («inter cenam e caveis ingressas et per cenaculum nundinantes cerneres»).

Mantova, la città da cui Petrarca era partito, il dantesco «loco ch'era forte / per lo pantan ch'avea da tutte parti», posto in mezzo a una «lama / ne la qual si distende e la 'mpaluda», non era propriamente un paradiso climatico; ma anche a Luzzara stava sopraggiungendo l'estate greve della Bassa, stagione contraria alla sua complessione tanto calda da dover ricorrere a generosi salassi ogni primavera e ogni autunno e incompatibile col suo temperamento umorale («nature mee infesta estas»). Le insopportabili zanzare di Luzzara insieme all'invasione dei batraci lo fecero fuggire frettolosamente nella camera da letto. Nonostante i disagi del clima, le estati soffocanti e gli inverni glaciali (rigidissimo fu quello del 1358-59, quando si scatenò un «tempus intractabile sine exemplo... nunquam enim in memoria hominum inter Alpes et Appenninutn tanta vis nivium incubuit... nichil algentius, nichil hiementius videbatur»), il dafneo e solare poeta, dopo aver abbandonato per sempre Valchiusa e il Midi gallo-provenzale, evitò l'antica paterna Etruria, non lasciando più le terre padane. Le stagioni lombarde lo videro salire e scendere da cavallo, imbarcarsi su chiatte e barconi, respirare l'immobile nebbia autunnale, scuotersi dalla pelliccia il ghiaccio, la neve, la galaverna, inzupparsi di sudore nei torpidi giorni canicolari. Lo tormentava spesso un dolore alla tibia sinistra, postumo d'una rovinosa caduta da cavallo, una vecchia ferita solita a riacutizzarsi, una piaga inciprignita dal cavalcare. Ma in barca o a cavallo, questo coriaceo oratore-poeta innamorato dell'Italia, delle sue genti e ancor più della bellezza del suo paesaggio che non finiva mai di riempirlo d'ammirazione («italice telluris aspectu satiari nequeo» confessava nel 1362 al suo grande amico Giovanni Boccaccio in una lettera senile, I, 5), era infaticabile nel percorrere le fertili pianure («ditia rura») bagnate dal grande maestoso fiume «Rex padus ingenti spumans intersecat amne». Inafferrabile e irrequieto, curava le sue ansie con la medicina del viaggio («locorum mutatione»), rompendo la monotonia sedentaria con la varietà del movimento («quotiens identitas, taedii mater, offenderit, aderit optima fastidii medicina varietas»). Dissipava così la malinconia e l'acedia che tanto frequentemente lo possedevano: «unde omnis tristitia quam longissime relegata est». Poteva viaggiare in lungo e in largo l'Italia e l'Europa senza problemi economici: chierico illustre, letterato squisito, signore della penna, maestro dell'oratoria, diplomatico e ambasciatore di sommo prestigio presso principi, papi, imperatori, poteva anche disporre delle rendite sostanziose di quattro benefici ecclesiastici.

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Araldo della vita in villa e della «santa agricoltura», predicava un ideale di vita separata eppur attiva e fertile che solo nel Cinquecento troverà ampia e grandiosa realizzazione.

Aveva nel sangue l'eredità genetica tirrenica e, nel fondo della memoria, la Provenza odorosa di aromi mediterranei. Il rosmarino gli ricordava il mare che più volte aveva avventurosamente solcato fin da quando, ancora bambino, si era imbarcato a Pisa con la madre e col padre Ser Petracco per raggiungere, dopo una sosta a Genova, Marsiglia. Vide allora dalla nave profilarsi uno spettacolo d'incredibile bellezza, un paesaggio di sogno, quasi una visione ultraterrena. Il golfo di Genova e le sue riviere, le convalli verdeggianti, le coste e i colli ricoperti di viti, di cedri, di ulivi, una natura addomesticata dal lavoro sapiente («arte perdomitam naturam») e, sotto le alte rupi, marmorei, regali palazzi: «infans ego tunc eram, et vix velut in somnis visa commemini, quando sinus ille vestri litoris, qui et solis ortum respicit et occasum, non terrena sed celestis habitatio videbatur et qualem apud Elysios campos memorant poete...» (Familiares, XIV, 5).

Il Mar Ligure e le terre riarse di Provenza, soleggiate e ventose, fragranti di pini, di gelsomini, di capelvenere, di ginestre, di zagare, di rosmarino, di maggiorana, di salvia, di menta gli avevano instillato il gusto delle erbe aromatiche. Simbolo d'immortalità come l'alloro e pianta magica come la ruta e l'issopo, il ros marinum, la rosa del mare, possedeva anche molteplici virtù medicamentose. Petrarca doveva particolarmente apprezzare il suo potere di acuire la vista (dopo i sessant'anni aveva dovuto ricorrere agli occhiali) se ne mangiava i delicati fiori violacei spigati e i teneri rametti con pane e sale, ogni mattina, per tutta la durata della fioritura. Forse ne faceva frittate accompagnate dalle foglie della salvifica salvia.

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Eppure questo illustre oratore e conte palatino ricevuto con grandi onori a Praga come a Parigi, il filosofo morale che detestava le lunghe cene e ancor più gli estenuanti banchetti signorili («conviviorum gloriosa fastidia», Fam., X, 13), dovette in una calda giornata del 1368 (era il 15 giugno) partecipare a uno di quei barbarici pranzi lombardi quando Violante, figlia di Galeazzo Visconti e di Bianca di Savoia, celebrò le sue nozze con Lionello Plantageneto, duca di Chiarenza e figlio di Edoardo III re d'Inghilterra. Al tavolo degli sposi, accanto al duca di Savoia e a molti baroni e dignitari, sedeva anche lo «eximio poeta», secondo la particolareggiata ricostruzione fatta all'inizio del Cinquecento, su solidi documenti, dallo storico di cose milanesi Bernardino Corio, ciambellano del duca Galeazzo Maria Sforza. Sopportò senza batter ciglio, dissimulando la noia e il rammarico per la fuga dell'irrimediabile tempo, lo «splendidissimo convito», l'interminabile susseguirsi delle diciotto portate inframmezzate da sfilate di bracchi e levrieri, di falchi, di astori, di sparvieri incappucciati, di corsieri sbuffanti e di lustri, placidi e grassi buoi, di corazze e di armature d'argento, di bacili di pietre preziose, di vesti guarnite da splendide perle, di mantelli foderati d'ermellino, di selle decorate con le armi viscontee e plantagenetiche. La parata dei doni nuziali terminò con il regalo di settantasei cavalli da guerra (molti donativi servivano alla caccia e alla guerra, come conveniva ai grandi, sanguigni signori) ai baroni al seguito del nobilissimo duca di Chiarenza.

Nessuna minestra, nessuna zuppa, nessuna liquida poltiglia, che al poeta sarebbe stata gradita, fu messa in tavola. L'inizio del convito fu invece molto brusco e impegnativo: doppia portata di carne e di pesce cui seguirono due maiali arrostiti e dorati col fuoco in bocca e due storioni, pure addobbati con scaglie d'oro. Il cantore di Laura, ormai incanutito e leggermente curvo, si sforzava di sorridere e discorreva amabilmente con i commensali, ma lo aduggiava il triste ammonimento che pochi anni prima aveva rivolto a chi si abbandonava ai «mali dilettamenti della gola», ai «cibi esquisiti e vini di strani paesi», alle «vivande delicatissime».

[...]

L'ordine delle portate obbediva a un confuso disegno, seguiva lo stesso ritmo ondivago, lo stesso ordinato disordine, le stesse brusche altalene, gli stessi salti dell'incomprensibile giuoco dell'esistenza umana, rappresentazione insensata de «la vita che trapassa a sì gran salti» (R.V.F., 148).

L'agrodolce non gli era mai piaciuto, eppure anche lui si era stranamente abbandonato al gusto del suo tempo, alla precettistica invisibile alla quale obbedivano, senza nemmeno accorgersene, ars dictandi e ars coquinaria. Aveva abusato d'accostamenti verbali peregrini e contraddittori (vere spezie piccanti), coniugando lo sciocco con l'acuto alla stessa maniera dei cuochi scellerati, criminali maestri nell'amalgamare aceto e zucchero, il mielato con l'asprigno; aveva costruito ossimori su ossimori, mescolando in nozze stranamente assortite (come quelle che aveva sotto gli occhi fra il britanno duca delle isole, solito, come tutta la sua stirpe, ad entrare in battaglia gridando il nome del favoloso re Artù e dei mitici antenati troiani, e la giovane di terraferma devota alla biscia dei progenitori usciti dalle paludi) termini ripugnanti fra loro come «viva morte» o «dilettoso male». Incominciava a capire che l'agrodolce rappresentava la versione culinaria, il tropo commestibile della figura ossimorica. Se lui trovava repellente l'agrodolce — e a questo punto si sentì avvolto da una malsana vampa di calore — come avrebbero apprezzato i mangiatori di versi, i consumatori di metafore le sue male assortite acutezze?

[...]

Assaggiò appena la carne di bue e gli inzuccherati capponi in agliata, ma non toccò la settima portata di pesci e capponi in «limonìa» gonfi di latte, galleggianti in una salsa acida di agrumi ed agresto. Bevve qualche sorso di una malvasia fortemente aromatica e ripensò ai vitigni transmarini che aveva disseminato nei suoi orti. I signori di Lombardia preferivano i bianchi austeri o gli ambrati, giallastri vini di Grecia e del Sud ai rossi, a differenza dei cardinali francesi che sul rosso borgogna avevano costruito una fantastica mitologia, vantandone, fra gli altri pregi, la segreta virtù d'indurre alla castità. Da giovane, attraversando la Germania, aveva conosciuto i vini della Mosella e quelli del Reno, bianchi, forse dello stesso ceppo dell'italico trebbiano.

Ci fu una breve pausa. I trincianti e i siniscalchi avevano interrotto le loro plateali esibizioni. Stavano sfilando nella lunga sala dodici armature da guerra (due, d'argento, erano per lo sposo inglese) cesellate dagli artieri milanesi, i più famosi d'Italia. Ma subito dopo vide apparire enormi pasticci di carne di manzo accompagnati da imponenti torte d'anguille. L'intera cornucopia padana stava rovesciandosi sulle mense, il meglio dei suoi campi, dei suoi laghi, dei suoi fiumi, dei suoi stagni, dei suoi monti: lucci, storioni, trote, carpe, tinche, anguille, anitre, aironi, capponi, lepri, pernici, vitelli, buoi. Mancavano solo le oche. Ma si era alla metà di giugno mentre questi fastidiosi palmipedi si arrostivano di solito in novembre, in particolare nel giorno d'Ognissanti, quando «esse sono più grasse ed a mangiare più buone» (Senili, VIII, 7). Intravide, alla nona portata, gelatina di carne e di pesce; lamprede, nella decima. Come gli storioni, quei pesci strani, simili alle anguille, abbandonato il mare nel periodo della riproduzione, risalivano le acque dei placidi fiumi padani. Poi, quando fu l'ora dei dodici cavalli e delle selle argentate, arrivarono i capretti arrosto in compagnia degli agoni, essi pure arrostiti. Un altro momento di ictiofagia padana, come i pesci in umido della undicesima e i carpioni della quindicesima portata. Lombardi anche i cervi, le lepri e i caprioli stufati «in civiere» (civet) della tredicesima imbandigione, lombardi i capponi e i pollastri «in savore rosso e verde» con «pomi citroni», unica concessione all'esotismo arabo-siculo, un frutto portato dagli Arabi in Sicilia, ma quasi sconosciuto al Nord nel Trecento. A meno che non fossero quei cedri che crescevano sulle sponde del Lago di Como e del Garda fino dai tempi di Carlo Magno.

[...]

Il banchetto, lento e sinuoso come il Po, procedeva senza fretta verso la fine. Comparve la lingua salata, di cui era ghiotto ma alla quale, per la sete, fu costretto a rinunciare. Seguirono poi pavoni sposati a verze e fagioli. Non toccò la carne, che i suoi denti malfermi, dura com'era, non riuscivano più a masticare. Ma non mancò di mangiare con vero diletto i cavoli e i fagioli a navicella. Erano passate quindici portate prima che facessero la loro apparizione le verdure: furono però anche le ultime. Magari non molto raffinate (i cuochi avevano dimenticato, chissà perché, le rape), però lombardissime e decisamente molto viscontee: quei signori appassionati follemente di cani, cavalli e animali esotici, avevano gusti plebei per quanto riguardava la cucina. Vecchio «ortolano», apprezzava particolarmente i doni di Pomona la placida, sorridente dea dei frutti e della terra feconda. Uscito dalle nebbie della memoria gli apparve un orto, quello milanese di Sant'Ambrogio in cui, quindici anni prima, aveva seminato, un po' titubante, gli spinaci, un'«herba nuova» venuta dal Sud, nota però da tempo ad Alberto Magno, ad Arnaldo di Villanova, a Pier Crescenzio e non sconosciuta a Bonvesin dalla Riva ma ancora poco coltivata a Milano. L'aveva seminata anche se gli sembrava che «dall'Arabia non ci fosse mai venuto nulla di buono» (Senili, XII, 2). Odiava gli Arabi, aborriva la loro medicina e in particolare Avicenna, detestava i loro poeti «fiacchi, snervati, turpi» (ibid.). Ma per gli spinaci (spinargia) arrivati a Milano dal Meridione attraverso quella razza malnata, aveva fatto un'eccezione. Ricordava perfettamente quella semina autunnale, azzardata come sempre: la stagione era ormai troppo avanzata, il terreno umido e opaco, la luna non propizia. Altri tempi. Vagava ora da Venezia a Pavia dove Galeazzo Visconti lo ospitava per mesi e mesi nel suo nuovo, immenso castello; ora da Pavia a Padova, braccato dalla morte mentre i giorni si scioglievano velocemente fra le dita.

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Non era la Lombardia una fetta di paradiso calata in terra, colma «di tale indicibile varietà di cose di ogni genere, di quelle che danno profitto, di quelle che danno piacere» simile ai «Campi Elisi», come apparve agli occhi di Thomas Coryat che la contemplò dall'alto del duomo di Milano (le sue Crudities uscirono nel 1611); era una terra di laboriose, ciclopiche formiche, un grande laboratorio sperimentale dove i saperi delle arti, le tecniche degli «inzignari» idraulici, i denari dei mercanti e la fatica dei lavoranti avevano costruito un gigantesco orto irriguo e navigabile. Era un verde paese dove i contadini e le loro donne, tutti a piedi nudi, lavoravano chini sotto il sole di giugno, una enorme piana nella quale, scomparse le vecchie colture, il riso e il granturco crescevano accanto alle erbe foraggere. È la Lombardia antica e nuova attraversata nell'estate del 1803 da Chateaubriand, il «pays fort riche» che, ancora una volta, aveva acceso le brame degli antichi Galli, come Petrarca aveva profetizzato.

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Mediterraneo e dieta padana



Le mutazioni dei modelli alimentari e le metamorfosi del gusto possono essere lente, diluite in cicli interminabili, oppure improvvise, rapide, tumultuose. A lunghe epoche di stagnazione succedono instabili e imprevedibili periodi di cambiamento, di tempo accelerato. Alla vecchia grammatica si sostituisce un discorso nuovo, una nuova e talvolta inedita logica alimentare.

Se i Napoletani (o almeno il «popolo basso»), universalmente conosciuti come mangiafoglie o divoratori di verdure («in Napoli», osservava alla fine del Cinquecento Vincenzo Giustiniani, «non si mangia generalmente se non foglie, broccoli e frutti in quantità, senza moderazione») si trasformarono in breve tempo, nei primi decenni del Seicento, in mangiamaccheroni sotto la spinta non solo del rincaro dei prezzi della carne ma soprattutto per la felice applicazione del torchio meccanico alla lavorazione delle paste alimentari, senza aver subito condizionamenti pubblicitari e subliminali, sarà facile spiegarsi i vertiginosi mutamenti dei nostri giorni pensando alla forza della moderna industria alimentare e all'imponente apparato promozionale che le dà spinta commerciale e penetrazione suasoria. La nuova retorica nutrizionale ha un potere irresistibile e il bombardamento televisivo quotidiano ne ha dilatato enormemente l'egemonia catturando gli occhi di molti Italiani che ormai sembrano avere rinunciato agli altri sensi. Nel regno delle apparenze non solo le tradizioni cambiano ma, quando è utile, addirittura s'inventano.

È il caso di quest'ultima trouvaille che va sotto il nome di «dieta mediterranea», una specie di codice dietetico artificiale, o di vangelo della buona novella alimentare che apre la strada alla felicità e alla salute terrena del consumatore moderno liberandolo dal peso del passato. Inutile precisare che nessuna delle genti che vivono ai bordi di questo glorioso mare l'ha mai conosciuta e tantomeno praticata. Se è vero che esistono molteplici sistemi alimentari e diversissime cucine mediterranee che possono in qualche modo essere lontanamente apparentate, le differenze fra costa e costa, fra paese e paese rimangono fortissime. Fra la mielata e agrodolce Catalogna e la piccante Andalusia, fra la cucina dalmata e quella turca (che ha lasciato la sua impronta sulla cucina balcanico-danubiana, su quella greca e su buona parte del mondo arabo), fra quella dei paesi arabo-musulmani del Nord-Africa e la cucina provenzale-occitanica (per non parlare di quella ligure o campana o pugliese) le disparità appaiono enormi. Le civiltà, le culture, le religioni hanno lasciato segni profondi che la storia e l'economia hanno ulteriormente approfondito. Non bastano alcune consonanze paesaggistiche e alcune similarità geografiche a modellare e a penetrare negli strati profondi di delicate e complesse strutture alimentari. Non basta scorgere un pino marittimo o un fico, un olivo o una palma, per gridare «thalatta, thalatta!». L'oleografia paraturistica porta poco lontano.

L'olio d'oliva non lubrifica tutto il grande organismo alimentare che in molti paesi rivieraschi conosce la dittatura del grasso di montone, oltre che l'ostracismo religioso del maiale e del vino. I Turchi, che generalmente, come le tribù carovaniere del Medio Oriente e dell'Africa settentrionale, non mangiano pesce per antica fedeltà biologica alla cucina nomade dell'Asia centrale, hanno diffuso il kebab, lo spiedino di carne di montone o di bufalo frammista a verdure, nei Balcani ottomani e, in pratica, fra tutte le popolazioni non cristiane del bacino mediterraneo. Anche la Sardegna non costiera, l'isola dei pastori (i pescatori sardi sono quasi tutti di origine siciliana), non ama il pesce ma ha adottato l'uso di abbinare allo stufato di capretto il riso, nel pilau o pilafi, strettamente imparentato col pilaf, portato in Occidente dalla colonizzazione turca.

Paradossalmente si potrebbe sostenere che se c'è un elemento unificante nell'universo composito di tante cucine, questo è proprio un piatto ben diverso da quello che ci si aspetterebbe da una dieta mediterranea: uno stufato di carni, talvolta uniche talvolta di diversa e mescolata provenienza, cotto in pentola o cazzeruola con l'abbondante aggiunta di vari ortaggi: il cuscus arabo, il pote gallego della penisola iberica, la garbure del Sud-Ovest della Francia, la potée gallica, il cassoulet della Linguadoca (terra nella quale, come in tutto il Sud-Ovest, è molto vivo il tradizionale confit d'oie, l'oca cotta e conservata nel suo grasso, l' oca in onto dei Veneti e dei Piemontesi) e... la cazzoeûla milanese. Cui si potrebbero aggiungere il pot-à-feu francese, la olla podrida spagnola e il pignato maritato napoletano. Ma non pare che questa ingegnosa miscela di carni congiunte a varie verdure rientri nel canone nuovo della dieta mediterranea.

A parte l'enorme differenza nelle bevande dove contrastano l'area del vino e quella del tè e soprattutto del caffè (turco), rimarrebbe la birra (che fu già bevanda nazionale degli antichi Egizi), ora però troppo compromessa con l'immagine dell'Europa continentale e nordica; e rimarrebbe lo yogurt, anche questo venuto con l'invasione ottomana (ma il suo diritto di cittadinanza italiana è troppo recente per poter essere preso in considerazione). La spaccatura fra Mediterraneo cristiano e Mediterraneo turco-musulmano è troppo profonda per autorizzare parentele, affinità, consanguineità indebite.

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La dicotomia grano tenero/grano duro è alla base della coppia oppositiva fresco/secco (o essiccato) che contraddistingue le paste alimentari del Nord da quelle del Sud Italia, la chiave genetica dell'originario sistema di minestre padano. Tortelli, tortelloni, tortellini, ravioli, orecchioni, agnolotti, anolini, cappelloni, cappellacci, cappelletti, nelle innumerevoli combinazioni locali che vanno dai bresciani e bergamaschi casonsèi ai cremonesi marubini, ai tortei mantovani, ai caplazz ferraresi (in entrambi la zucca è ingrediente dominante), agli anolèn parmensi in una grande varietà di forme e di contenuti (i casonsèi, versione moderna dei casoncelli folenghiani, hanno un ripieno diverso sia dai tortelli che dai ravioli) nei quali il compenso di carni tritate, arricchito da formaggi, ricotte, sughi, aromi, si alterna a varie misture vegetali. Paste fresche come le lasagne e le tagliatelle (le foiade mantovane di Merlin Cocai), diffuse dal Piemonte (taiarin) alla Cispadania, in certe zone si assemblavano in monumentali pasticci con involucro o cassa di pasta frolla (farina di frumento, strutto, burro, uova) dolce.

Ma ad unire in un alimento agglutinante le popolazioni del Nord padano (a Sud del Po la sua presenza è minore, decrescente in senso latitudinale con una significativa frequenza di «bombe» o pasticci nelle terre del vecchio ducato di Parma e Piacenza) è il riso, la graminacea che introdotta dall'Oriente dall'agronomia araba nel nostro Mezzogiorno, trovò nelle terre umide del Settentrione, a partire dal basso Medio Evo, la sua patria ideale. Cibo nazionale dei Lombardo-piemontesi e dei Veneti che nei risi e bisi della Serenissima, nel risotto alla milanese (il gaddiano «risotto patrio» allo zafferano), nelle zuppe e nei vari risotti paesani sembra costituire l'identikit della cucina padana, il più comune alimento nazionalpopolare diffuso fino al lontano Friuli. Riso, burro, brodo: un triangolo che in una irripetibile sintesi culinaria riflette l'incontro fra il campo-risaia governato dalle tecniche irriguo-idrauliche sperimentate nelle marcite e nei coltivi bagnati, la vocazione foraggera dei grandi prati insubri, premessa indispensabile all'allevamento del bestiame, alla produzione casearia, prologo a sua volta dell'entrata in scena del burro. La catena alimentare si prolunga al terzo vertice del triangolo con la forte presenza delle carni bovine, e non ovine come al Sud, presupposto del brodo di manzo la cui polpa, stufata nel vino, portava quasi fatalmente al brasato. Propaggine addomesticata del campo, l'orto lombardo medievale faceva arrivare alle cucine, oltre alla senape, la borragine, la ruta, il papavero, la salvia, l'anice, il cerfoglio, la nepitella, «semplici» confortativi e ristorativi dalla doppia funzione, alimentare e medicinale.

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