Copertina
Autore Piero Camporesi
Titolo Il pane selvaggio
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1980], Saggi , pag. 246, cop.fle., dim. 140x210x20 mm , Isbn 978-88-11-67711-6
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe storia sociale , alimentazione , medicina , sensi , salute
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Indice

    Introduzione                                      5

 1. La « miserabile malattia »                       19

 2. Il pane fuggente                                 31

 3. Cannibalismo sacro e profano                     39

 4. « ... se ne vanno per il mondo malabiando »      63

 5. « Computruerunt in stercore suo »                73

 6. Il « mondo a capinculo »                         93

 7. La « carestia di vivere »
    e il « tempo del sospetto »                     103

 8. Il tempo di notte                               111

 9. Battaglie rituali e furori popolari             125

10. « Medicina pauperum »                           131

11. « Strettezza di borsa »                         141

12. Vertigini collettive                            149

13. Sogni iperbolici                                163

14. Paradisi artificiali                            171

15. Il pane papaverino                              185

16. La « volubile e verminosa colonna »             193

17. Putridi vermi e sordide lumache                 209

18. Una città di mummie                             221

19. Il trionfo della povertà                        227


    Indice dei nomi                                 239


 

 

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La fuga nei paradisi artificiali, nei mondi rovesciati, negli impossibili sogni di compensazione delle folle stracciate e affamate dei secoli moderni nasce dalla invivibilità del reale, dal basso dosaggio vitale, dalle carenze e (per contrapposto) dagli eccessi alimentari che inducono a una interpretazione sussultoria, incoerente, spasmodica della realtà e alla costruzione d'un modello d'esistenza e d'una immagine del mondo differenziata, dissimile da quella elaborata, nella stessa età, dagli intellettuali razionalisti che, come Galilei, Bacone, Cartesio, pongono ben squadrati mattoni nella fabbricazione d'una macchina del mondo, d'un «opificio» fisico e mentale regolato da un coerente congegno meccanico e logico, da un assetto d'incastri e di rimandi perfettamente organico e inesorabilmente condizionante.

Nella parte bassa della società «civile», invece, nell'universo della subalternità, degli uomini strumentali e «meccanici», tiranneggiato dall'uso quotidiano di «pani ignobili», dove le miscele di cereali inferiori, spesso corrotti e deteriorati da una cattiva conservazione o, come non infrequentemente accadeva, miscelati (anche dolosamente) con vegetali e granaglie tossiche e stupefattive, il ritmo sconcertato d'una esistenza alle soglie dell'animalità contribuiva alla delineazione di modelli devianti e di ottiche deliranti. La dicotomia fra «pane da prìncipi e da gran maestri» e «pan da cani» (efficacemente rilevata da Giovanni Michele Savonarola «fisico eccellentissimo» dello studio padovano nel secondo Quattrocento) si trasforma in metafora alimentare di due differenti sistemi culturali che nel pane trovano il loro luogo topico. Il pane, oggetto polivalente da cui dipendono la vita, la morte, il sogno, diventa nelle società povere soggetto culturale, il punto e lo strumento culminante, reale e simbolico, della stessa esistenza, impasto polisemico denso di molteplici valenze nel quale la funzione nutritiva s'intreccia con quella terapeutica (nel pane si mescolavano le erbe, i semi, le farinate curative), la suggestione magico-rituale con quella ludico-fantastica, stupefattiva e ipnagogica.

Il pane papaverino (il papavero veniva coltivato in vaste zone d'Europa con metodi, si direbbe oggi, industriali), il pane truccato e drogato, aromatizzato per sovrappiù con semi di coriandolo, di anice, di comino, con olio di sesamo, con tutti i possibili additivi voluttuosi reperibili in un «regno vegetale» col quale gli uomini vivevano in intima domestichezza, oggi impensabile; o addirittura, nelle zone in cui veniva coltivata, la farina di semi di canapa, adoperata in cucina per preparare paste e pane la quale «fa perder lo intelletto» e «genera un'ebriacheza domestica e una certa stupidità», erano fra i più diffusi e popolari strumenti che consentivano il passaggio da una condizione umana alle soglie dell'invivibilità a una dimensione stupefattiva e paranoide che non è forse azzardato ritenere non tanto programmata dall'alto (come talvolta si può supporre) quanto voluta e ricercata dalle stesse plebi, macerate dai morbi, dalla fame, dalle paure notturne e dalle ossessioni diurne.

Il viaggio collettivo nel sogno, perseguito con la «ubriachezza domestica», con l'ausilio dei semi e delle erbe allucinogene, nato da un sottofondo di cronica sottoalimentazione e molto spesso di fame (che è il più semplice e naturale produttore di alterazioni mentali e di stati sognanti), aiuta a spiegare il manifestarsi di deliri mentali collettivi, di transe di massa, d'esplosioni coreutiche d'intere comunità e di villaggi. Ma può anche essere la strada che ci permette d'intravedere una costruzione mentale del mondo a doppia faccia, nata sotto il segno ambiguo ed equivoco della bivalenza, condizionata da una presa di coscienza allucinata e alterata della realtà in cui i piani si sono capovolti, gli universali rovesciati, il mondo finito a «capinculo», con la testa per terra e i piedi nelle nuvole, in una misura alterata dello spazio e del tempo, in una geometria non euclidea e in una prospettiva magico-onirica in cui i rapporti e le proporzioni vengono regolati da strumenti d'accertamento e di misura diversi da quelli praticati nelle aree culturali ad alto livello di razionalità classica e che tuttavia non riescono a sottrarsi del tutto all'inquinamento inoculato dalla cultura della fame.

Appare a questo punto evidente come la povertà, i bassi livelli di sussistenza, abbiano «inciso sulle categorie logiche, ancora una volta dimostrate non universali e, invece, generate dalle situazioni culturali» (A. M. Di Nola), investendo anche il senso del tempo che nel mondo dell'indigenza non si declina mai, se non ironicamente, al futuro (eredità dei ricchi), ma viene consumato nel presente o nella ossessiva ripetizione d'un passato sempre identico, immutabilmente ritornante come un incubo permanente, a data fissa.

Così come dannazione ed incubo della carne guasta e dello spirito deteriorato erano i lombrichi che rodono i visceri ancor prima che sopraggiunga la morte, ospiti pressoché permanenti d'un corpo sociale infetto, ossessione ineliminabile d'una verminosità generale che si proiettava, divenuta metafora ripugnante, sopra il «popolo verminoso» degli straccioni e dei pitocchi, bruchi voraci dei granai dei ricchi. Ma anche proiezione globale d'una demonicità diffusa, d'una contaminazione maligna che, sotto il travestimento in repellenti insetti, servendosi della maschera d'immondi animalcula, prendeva possesso, invasandoli e maleficandoli in nome di Satana, dei corpi e delle anime.

Si profila il fantasma d'una vampiresca società d'ossessi, in fuga dal senso tormentoso della brevitas vitae e dalla paura della morte, che tenta disperatamente e crudelmente di prolungare la vita suggendo sangue giovane, aprendo e chiudendo vene del proprio e dell'altrui corpo, posseduta da una cultura corporale nevroticamente sensibile alla circolazione interna degli umori e convinta del primato assoluto del buon sangue umano la cui «mirabile virtù», se distillato all'alambicco e divenuto «elixir di vita cioè fuoco vitale» (come scriveva nei Secreti diversi et miracolosi l'anonimo che si spacciava per il grande Gabriele Fallopio), non solo cura ogni infermità ma ritarda la morte e ridona la giovinezza.

La purgazione del sangue e l'evacuazione dell'impurità («i mali genii — ricordava Levino Lennio — si mescolano con gli umori») segnavano i momenti decisivi d'ogni attività terapeutica fondata sull'espulsione della corruzione e del male, perché «il tetro e negro umore misto col sangue genera spiriti orribili e, se non si purga il sangue, fa licantropia e paure e pensieri brutti, che si veggono gli uomini smaniare e dilettarsi delli luoghi fetidi e lordi, delle sepolture e cadaveri, perché lo spirito infetto desidera cose simili a lui».

Vista da questa angolatura si delinea l'immagine d'una società febbricitante e insonne che tentava di contrastare le visitazioni notturne, le presenze degli abitatori della notte (incubi, folletti, vampiri, streghe, licantropi), di difendersi dall'aggressione tormentosa dei sogni paurosi e orribili con tutta una farmacologia apotropaica che inducesse oblio e serenità, dispensatrice di «giovialità» e di «cordialità», euforizzante per il cuore, mondificativa del sangue, smemorante e narcotizzante. E che allontanasse anche la nevrosi farmacopeica di arrivare a mettere le mani su qualche mirabolante ricetta segreta che potesse offrire la chiave per entrare finalmente in una esistenza protetta, non faticosa, non corrosa dai morbi. Calate in questa dimensione negromantica e alchimistica di affinità, di simpatie, di sensi e consensi fra le cose e gli elementi, di corrispondenze, di rapporti analogici, di signaturae rivelatrici, la farmacopea popolare e quella dotta, indistintamente, coinvolgevano nella propria area magica anche le ricette culinarie in cui le piante fatate entravano con tutta la loro potenza di demonicità vegetale. L'artemisia, ad esempio, pianta di «significato femminile, lunare e notturno», impiegata «in special modo per il trattamento della dismenorrea e dei parti difficili» (Lévi-Strauss) dalle tribù dell'America settentrionale, ritenuta provvidenziale alla matrice anche dalla erboristeria del vecchio continente, era considerata l'erba capostipite da cui per filiazione discendevano tutte le altre, herbarum mater. «Semplice» di valenza tutta femminile «multi eam matricariam vocant, praecipue dominae, quibus ipsa est thesaurus, et ex qua cum caseo, ovis etc. faciunt tortellos tempore festivitatis sanctae Mariae. Unde et quaedam dominae eam herbam sanctae Mariae vocant».

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2. Il pane fuggente



Gli intellettuali e i letterati barocchi, sfiorati dalle minacciose folle dei pezzenti e dei montanari senza pane, dalle scomposte e ululanti processioni della fame, si difenderanno — secondo la loro tradizionale inclinazione — sparando ciniche, velenose bordate sopra la marea dei pitocchi, contro i «formiconi scioperati». È questo il caso di Baldassarre Bonifacio che nel 1629 vive a Treviso una agitata crisi pauperistica, trasferita di lí a poco nei sonetti impietosi e sulfurei de Il paltoniere.

L'angoscia dei pochi di fronte al fluttuare impazzito, per le strade, degli innumerevoli divoratori di rifiuti, gli uomini-bruchi, gli uomini-insetto; l'ansia dei gruppi di potere nei confronti dei grandi, minacciosi numeri, della proliferazione non controllata dei miserabili, dello spettro d'una società negativa che, renitente all'integrazione, agita la illusoria bandiera d'una società oppositiva, innervano nei sonetti del Bonifacio l'immagine ossessiva della marea montante, dell'acqua che sale irresistibilmente per provocare l'asfissia finale. La tensione fra le caste si trasferisce nelle serie metaforiche di versi da cui trasuda il pauroso disprezzo degli uomini del pane bianco verso gli uomini del pane nero o dei senza pane, i «picchia-porte» o «matta-panes» che dilatavano — minacciosi come una rabbiosa calata di locuste — la «gran nuvola di picari e di furbi».

In realtà, al di là dell'effetto letterario e della drammatizzazione rituale del tumulto e della paura, le turbolenze pauperistiche, se potevano suscitare ansie e raccapricci, non andavano oltre a qualche saccheggio incontrollato, incapaci di trasformarsi in qualcosa di piú d'una rabbiosa ma caotica ed effimera ribellione. Gli stereotipi linguistici della violenza e della rivolta si trasmettono di secolo in secolo secondo litanie della disperazione che hanno in comune lo stesso registro teso e concitato: cosí nel trecentesco Libro del biadaiolo dove la carestia (come del resto nei sonetti del Bonifacio) parla con le voci della tregenda dantesca. Ma restano stereotipi linguistici, mentre gli stessi protagonisti delle sommosse «non si mostravano interessati a cambiare le strutture della società in cui vivevano».

In una società frammentata e chiusa in un numero altissimo di corporazioni, la nozione di «classe» non poteva avere alcun senso. I medievali status formavano la struttura di un mondo in lentissima evoluzione in cui la vita collettiva si modificava con estrema difficoltà e, si direbbe, quasi con riluttanza. Caste e corporazioni bloccavano la nascita dell'idea, tutta ottocentesca, di «classe». La liberazione dal «male di vivere» non veniva perseguita politicamente, ma attraverso metodi di affrancazione diretta come il grande uso di bevande alcoliche, le pratiche sessuali, smodate e «selvagge», le feste rituali, la trasgressione privata o di gruppo della norma, civile o religiosa. I sogni non stimolavano fermenti rivoluzionari ma viaggi nell'evasione fantastica. Le utopie — anche le piú radicali — sfumano nell'affabulazione dottrinale e sapienziale. Anche il grande mito di Cuccagna, pur nel desiderio diffuso dell'equo possesso comunitario dei beni materiali e della proprietà, pur nel sogno dell'eterna giovinezza, dell'amore non controllato socialmente, dell'eros non istituzionalizzato, non diventa mai momento trainante di autentico rinnovamento politico e sociale.

Negli anni d'infausta congiuntura i piccoli proprietari terrieri, costretti a vendere i loro campi alla grande proprietà a prezzi di strozzinaggio, finivano con l'accattare per le strade. Anche l'olimpico Alvise Cornaro ampliò enormemente le sue già estese proprietà utilizzando spesso come uomo di fiducia, mediatore e sensale, Angelo Beolco, il Ruzante...

Il pane dei poveri, degli straccioni, dei disoccupati e specialmente di coloro che, vittime di una logica economica e sociale paradossale, lo producevano, i contadini, è un pane sempre in fuga, inafferrabile come in un incubo al rallentatore, d'interminabile durata. Nelle annate cattive il tempo dei nuovi raccolti, dell'estate e dei suoi frutti, della stagione in cui si poteva risentire il sapore del «pan novelo» era sognato, nella sospirata attesa, a partire dal tardo autunno.

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In questa dimensione, per noi quasi archeologica, di familiarità fra la carne viva e quella rinsecchita dei morti, la coabitazione (che presuppone ovviamente una coesistenza spirituale) con vistosi frammenti di corpi incartapecoriti dalla «morte secca», la presenza di crani e di ossa, appaiono non allarmanti, confidenziali, quasi naturali. Nella vecchia società il mondo dei vivi era legato a quello dei morti da mille fili. La presenza delle ombre, le loro voci, i loro segnali, il loro misterioso linguaggio condizionavano l'esistenza dei non ancora defunti.

Lo stesso cimitero, spazio polivalente usato per tutte le attività umane (molto spesso serviva anche da mercato), era luogo mortuario e ludico nel medesimo tempo, area protetta dalle ossa di qualche potente santo. All'interno del «sacro» recinto si celebravano i riti della morte e della vita, del pianto e del riso, del corporale e dello spirituale. La danza si accompagnava al mortorio, il lamento funebre al banchetto rituale. La cultura folclorica (e in generale la società d' ancien régime) aveva con la morte un rapporto sanamente ambiguo, naturalmente «equivoco» perché sentiva che il ritmo ambivalente morte/vita costituiva l'oscuro, possente principio dell'umano. L'«altro mondo» viveva dentro il mondo dei vivi, costituiva l'altra faccia dell'esistenza.

In questa continua e vitale presenza della morte le categorie del «macabro» e del «lugubre» non avevano il senso che oggi viene loro attribuito. La frequentazione e la confidenza quasi tattile coi prodotti della morte, col cadavere, con le ossa, col malato o col morente portavano anche a un rapporto diverso col corpo umano. Esso, nella sua carnalità e fisicità, era luogo di confine nel quale s'incontravano la sapienza popolare e la cultura «scientifica», in un sincretismo in cui le tradizioni si distinguevano con estrema difficoltà. Le ricette mediche, sia della medicina popolare sia della medicina ufficiale, costituiscono una selva di microtesti in cui l'enciclopedismo terapeutico della vecchia società, nel complicato intreccio delle «simpatie», delle «repulsioni», delle «affinità», svela il carattere magico di ogni pratica attinente al de conservanda valetudine.

Le ricette dell'età preindustriale possono servire a restaurare il volto e il senso della morte antica, a interpretare con piú pertinenza il rapporto corpo-malattia-morte, a sentire piú palpabilmente lo spessore corporale e la fisicità di un'esistenza che, nel suo sincretismo a doppia faccia, utilizzava lacerti e brandelli di morti per curare i vivi. Un dato balza agli occhi con grande evidenza: la familiarità con la carne umana e animale, con le deiezioni del corpo umano, coi sottoprodotti fisiologici piú scostanti; la disinvolta confidenza con il mortuario, col laido, con l'impuro, col marcio, col putrido e il nauseabondo.

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In realtà — come è noto — la ottusa ferocia dei popoli iberici (famosa fin dall'antichità) costituiva il peggior caso possibile di barbarie:

V'è chi pretende essersene trovati alcuni [fra gli spagnuoli] cotanto barbari, che avessero accostumati i loro cani a scuoprire ed a divorare i selvaggi; ed altri che avessero fin fatto voto di trucidare, in onore de' dodici Apostoli, dodici indiani il giorno...

Di fronte a questo immane genocidio apostolico, l'antropofagia rituale o pur anche quella praticata per «inclinazione alla carne umana» trovano una assoluta comprensione. Senza essere antropologo, anche l'abate Raynal sapeva che dalla «fame violenta nessuna società è moralmente protetta» (Lévi-Strauss); «il selvaggio — notava Raynal — può essere assalito da una fame canina nella stessa maniera che l'uomo civilizzato... Tutti i vizi morali che trasportano l'uomo civilizzato al furto, devono anche trasportare i] selvaggio al delitto medesimo. Ora, il solo furto che un selvaggio possa esser tentato di fare, si è la vita d'un altro selvaggio, ch'egli crede buono ad esser mangiato. La pigrizia è dappertutto un'antropofagia; e sotto tal punto di veduta l'antropofagia è piú comune nella società che nel fondo delle foreste... se l'opulenza è la madre de' vizi, la miseria lo è de' delitti; e questo principio non si verifica meno ne' boschi che nelle città... l'uomo civilizzato ruba ed ammazza per vivere, il selvaggio ammazza per mangiare».

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6. Il «mondo a capinculo»



Se l'inverno era sempre durissimo per i poveri, nelle annate di carestia l'esistenza si faceva maggiormente penosa e i piú indifesi si vedevano «giacer per terra poveri e meschini». Cercavano riparo fra la paglia, sullo strame, sul letame. Tormentati dai geloni, spezzati dalla tosse, infestati dai pidocchi e dalla tigna, emananti fetori intollerabili, letamai ambulanti che nel «proprio letame anco s'ingrassano / come se fosser scarafaggi o vermini», pance insaziate «ond'è poi ch'il letame e n'esca e v'entri» (B. Bonifacio), quando arrivava la buona stagione e il morso della fame si attenuava e la carestia sembrava debellata, rinascevano lentamente alla vita. L'esultanza dei sopravvissuti alimentava ingiustificati miraggi di futura salute, robustezza, vigore. Si rimuovevano le immagini avvilenti della prostrazione e dell'inedia.

    Né piú si vederan sopra il letame
        Star tanti meschinelli, afflitti e smorti,
        Involti ne la paglia o ne lo strame.
    Saran per l'avvenir gl'uomini forti,
        Fieri e robusti, e prenderan vigore,
        Non debil come prima e semimorti;
    Tornerà ne le faccie il buon colore ... .

La resurrezione dei lazzari affamati, dei «semimorti» dalla cute cinerea e rinsecchita, l'abbandono del giaciglio di letame e dell'involucro di paglia, segnavano il primo tempo d'un ritorno a una dimensione sociale piú umana. Ma il recupero della salute (se mai fosse stato possibile), il riaffiorare del «buon colore», dovevano essere incerti, difficili per tutti, impossibili per molti. I disastri d'una epidemia di fame, d'una carestia settennale (come quella che imperversò in buona parte dell'Italia settentrionale fra il 1590 e il 1597) lasciavano tracce troppo profonde perché potessero essere cancellate da un giorno all'altro. Il «trionfo dell'abbondanza» (dal poemetto omonimo di Giulio Cesare Croce sono tratti i versi sopra riportati) era unicamente un tópos letterario, un'iperbole trionfalistica che aveva scarsi riscontri nella realtà delle cose. Il deterioramento accelerato della salute fisica e mentale durante gli anni dell'inedia ebetizzante, segnava per molta gente un processo irreversibile verso il disordine e la degradazione intellettuale che il ritorno alla «norma», al basso livello della sottoalimentazione quotidiana, non riusciva a cancellare. Dal caos alimentare, come da un tormentato labirinto fisiologico, si usciva a stento: molto lentamente si riemergeva dal buio fangoso del viaggio nel paese dello stento e dell'indigenza. I guasti, nel corpo malato di questa società febbricitante, erano spesso irreparabili.

Non è perciò troppo azzardato supporre che la cultura della povertà (e perciò, a buon titolo, quasi tutta la cultura folclorica) non potesse rappresentare il mondo se non sotto la forma che i suoi strumenti di conoscenza le avevano indicato. Gli statuti conoscitivi d'una cultura povera differiscono da quelli elaborati delle élites intellettuali, anche se le sfere di contaminazione, le suggestioni, le interferenze fra l'una e l'altra possono essere molteplici. L' imago mundi elaborata dalle rappresentazioni mentali popolari dell'età preindustriale diverge dal modello classico utilizzato dai clerici e dai literati, cosí come le categorie logiche (alla stessa stregua dei canoni estetici) appaiono diversi. Essi fruiscono della realtà in modo divergente. Il bello, l'armonico, il simmetrico, il geometrico non coincidono con l'ottica popolare del deforme, dello smisurato, dell'iperbolico (o del miniaturizzato), del mostruoso, del debordante, dell'informe. L'immagine del mondo, vista dal basso, si profila incerta, slabbrata, equivoca, traballante e disomogenea, come nelle visioni degli allucinati e dei posseduti: le immagini possono ribaltarsi, le figure capovolgersi, i rapporti di tempo e di spazio alterarsi, l'edificio stesso del mondo divenire illusionistico e umbratile. L'ordine naturale e divino si scompone e si altera, il caotico prende il sopravvento sopra un disegno razionale che presuppone un centro verso cui tutta l'immensa periferia converga ad unità. La «coscienza allargata» deborda ovunque. La stessa scansione del tempo muta ordine di riferimento: il «tempo fuori del tempo» si pone come antimodello al «tempo che è dentro al tempo», il progressivo si annulla nel regressivo. La città di Balordía, reame dei poltroni, vive in una mitologia di riflusso, disancorata dal tempo della storia. Il sogno compensativo proiettato dall'utopia popolare conquista territori sempre piú estesi in cui la razionalità «superiore» non trova piú cittadinanza. Il modello culturale fondato sulle categorie logiche non ha presa su questa società dove la «poltroneria» (il povero ridotto a poltrone) diventa registro interpretativo della storia, antidoto ai veleni d'un corpo sociale malato, iniquo, unidimensionale. Il povero/poltrone vive nel «tempo della pigrizia», nel tempo metastorico della prevedibilità e della insicurezza istituzionalizzata in sicurezza, disancorato dal tempo del lavoro, dal rischio del futuro e dalla paura della storia. Cuccagna, nella logica oppiata dell'impossibile, diventa una immagine pilota idonea a penetrare nel cosmo mentale in cui il naturale (e il reale) è stato soppiantato dall'artificiale e dall'irreale. In questo universo onirico le leggi della meccanica e della fisica non hanno piú senso: i maccheroni, pioggia commestibile, cadono dal cielo; la terra, non lavorata, produce mirabilmente cibi precotti; gli alberi non buttano gemme e foglie ma prosciutti e vestiti; gli animali, carnefici di loro stessi, si arrostiscono spontaneamente per la consolazione del ventre degli uomini. Abolita la fatica, sospeso il tempo, bloccata la fatale vecchiaia dalle fontane di giovinezza, trionfanti le donne, nel loro fulgore corporale, sui mariti cavalcati e sottomessi.

Ma questo tetro paese dell'ozio, da cui il rischio è stato bandito, non sfiorato dalle bufere della storia, senza paura e senza futuro, appare calato in una scenografia non solo onirica ma addirittura mortuaria, in un mondo dove l'abbondanza si specchia nel volto negativo della sterilità, dove la natura capovolta delinea paesaggi disumani e mostruosi al di là d'ogni logica possibile e lontano da ogni prospettiva di vita: una natura dove l'artificiale ha distrutto, capovolgendolo, il naturale, alterandone la legge biologica, i tempi di maturazione dei prodotti, addirittura il tempo di gestazione degli animali.

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9. Battaglie rituali e furori popolari



Con involontaria ma certamente amara ironia molti andavano dicendo e ripetendo che il vero e unico tesoro della povera gente, il thesaurus pauperum, consisteva nella conservazione della salute. Molti poveri, invece, preferivano la malattia e la morte ad una salute che li avrebbe costretti a vivere una vita insoffribile, a sopportare l'intollerabile tormento della fame. In ogni caso, rapidissimo era il decorso delle malattie dei contadini: «La malatia di lu viddanu dura vintiquattr'uri: a la sira lu medicu, a lu 'nummani lu Signuri [il Viatico]». Tanto veloce, come si vede, da entrare nella triste «saggezza» del contadino siciliano.

La medicina pauperum cercava di applicare terapie di poco prezzo usando rimedi preservativi e curativi la cui composizione non richiedeva ingredienti rari e costosi. Il doppio binario medicinale portava, per un verso, alla complicata e costosissima «triaca» dei ricchi, ritenuta portentoso rimedio per quasi tutti i mali, panacea universale; e, sull'altro versante, alla «triaca de' poveri» composta di sole erbe. Per la gente di «stomaco gagliardo e usata alle fatiche» come contadini e facchini, il grande preservativo della salute era l'aglio, la «triaca de' rustici», adatto a gente rozza e meccanica, selezionata alla rovescia, dalla quale — secondo la scienza del tempo — non poteva nascere che progenie rustica e ottusa, atteso che «niun figliuolo nasce che non cavi la qualità e 'l temperamento dal cibo che i suoi padri mangiorno finanzi che generassero». Da questo presupposto, che pare essere stato largamente condiviso, discendeva che

la carne di vacca, di manzo, di porco, il pane di grano rosso, le fave, il cascio, l'olive, il vino negro e altri cibi grossi fanno il seme grosso e di cattivo temperamento: il figliuolo che si genererà averà forza grande, ma sarà furioso e d'ingegno bestiale. Di qui avviene che fra gli uomini di villa, è miracoloso che uno riesca acuto d'ingegno e atto alle lettere, massime dove s'usano cibi cosí rozzi. E perciò nascono tardi e rozzi per essere stati generati di cibi tali. Il contrario avviene ne i cittadini i cui figliuoli vediamo che hanno piú ingegno e abilità.

Per la fortuna dei villani di pianura e dei «cacamarroni» di montagna, la medicina popolare era meno tossica e probabilmente piú efficace di quella dei ricchi. Tuttavia la piú efficace delle terapie, la dietetica, era impraticabile sia dagli uni che dagli altri. I poveri di città, infatti, erano costretti a ingurgitare molto spesso cibi «fetidi, fracidi e verminosi... per fino di sorci, di vermi, di serpi o d'altri animali schifosissimi e abbominevoli».

I ricchi invece, dal «ventre incontentabile... bestia insaziabile» per le cui «delizie» è necessario che «si logorino i cuochi il cervello piú collo studio che col calore del fuoco per solleticar l'appetito», si suicidavano a tavola sedotti dall'«incanto obbrobrioso» e dalle «imposture» della «sottile filosofia di nostra gola». L'eccesso da una parte, la carenza dall'altra, tracciavano un fosso invalicabile fra salute e malattia: le diete mostruosamente ipercaloriche (7000-8000 calorie giornaliere) erano altrettanto micidiali di quelle, gelidamente inconsistenti, dei poveri che non riuscivano a raggiungere il tetto minimo delle 1000.

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Uno degli aspetti collaterali della carestia — di cui non si è tenuto il debito conto — era dato dal calo sorprendente di una igiene mentale già organicamente precaria e traballante, poiché anche nella «normalità» mentecatti, idioti, cretini costituivano una fauna umana densa e onnipresente (ogni villaggio o borgo, anche il piú minuscolo, aveva il suo scemo). La cattiva alimentazione aggravava una deficienza biologica e un equilibrio psichico già profondamente compromesso (sifilide, alcolismo... ecc.) e vistosamente deteriorato. Se sono noti gli effetti devastanti (a partire dalla metà circa del Settecento) della pellagra sull'equilibrio mentale e i guasti dovuti alla monoalimentazione maidica, ignoti o pressoché inosservati sono rimasti gli effetti prodotti da erbe e grani alienanti e stupefattivi. Il fenomeno appare straordinario e sotto molti aspetti sconvolgente. È come se un maleficio si fosse abbattuto sopra vaste comunità, incantandole e addormentandole; come se le folle fossero divenute preda di una colossale vertigine sonnolenta indotta da una droga campestre e familiare, vittime di un istupidimento collettivo che, pur se temporaneo, portava a disertare il lavoro e le abituali occupazioni. Paradisi artificiali insospettati si aprivano ai sottoalimentati e agli affamati: il sonno, il sogno, il torpore, il rallentamento e l'incoerenza delle funzioni afferravano vasti strati di popolazione non solo marginale, ma attiva e produttiva. Se l'assenteismo nelle botteghe artigiane e nelle manifatture di seta e di canapa non è quantitativamente dimostrabile, non mancano però gl'indizi e anche le prove per poter iniziare lo studio di una problematica nuova e di grande attualità. È sconcertante imbattersi in una società non lontana nel tempo e vicinissima nello spazio largamente avvolta nella narcosi indotta da pane adulterato: scoprire il mondo dei lavoratori urbani sottoposti a frenesie o a torpori che nelle campagne erano ancor piú frequenti, specialmente nelle terre della «bassa» dove la coltivazione della canapa, in tutte le sue varie fasi, dal campo al macero, al filatoio domestico, producendo effetti afrodisiaci, contribuiva ad alimentare una sensualità agraria della quale la meccanizzazione delle campagne ha cancellato ogni traccia.

Gli effetti del loglio ( l'ivraie dei francesi, dalla trasparente etimologia, ebriaca), mescolato in quantità eccessiva col grano, erano noti fin dai tempi piú remoti. Ne sortiva un pane alloiato (il termine è del Croce) dalle conseguenze devastanti, ben noto ai botanici e agli aromatari:

... il pane, in cui ne sia notabile quantità, fa diventar gli uomini, che se lo mangiano, stupidi e come ubbriachi, presi da gravissimo sonno, e però caviamo noi in Toscana — sono considerazioni del senese Pietro Andrea Mattioli — con grandissima diligenza dalle biade il loglio, per fuggire il nocumento che fa egli alla testa imbriacando e facendo dormire.

Quando si panificava alla disperata con le misture piú impure ed eterogenee, tutte le avventure venefiche erano possibili e il loglio «maligno» (C. G. Croce)

            ... pe' muri
            batter fa spesso il capo alle persone.

Le folle dell'età preindustriale, sofferenti di carenze proteiche e vitaminiche, mal protette dagli attacchi delle malattie infettive da diete precarie e inadeguate, flagellate dal «fuoco di S. Antonio» particolarmente diffuso nelle aree di consumo della segala, sottoposte alle frustate repentine delle convulsioni e della epilessia, ai deliri delle febbri, alle piaghe inciprignite, alle ulceri che rodevano i tessuti, alle cancrene implacabili e alle scrofole ributtanti, ai folli tresconi del «ballo di S. Vito» e delle epidemie coreutiche, all'incubo perenne dei lombrichi e delle diarree coleriche, pativano anche gli effetti malefici dei pani «ignobili» (P. A. Mattioli), i deliri tossici delle impure miscele di farinacei, l'istupidimento, la balordaggine e l'ottundimento demenziale del veneficio alimentare. Uno scenario allucinante, in cui accanto ai monchi, ai ciechi, agli scrofolosi, agli infistoliti, agli impiagati, ai tignosi, agli storpi, agli attratti, ai gozzuti, ai ventruti, agli idropici, si muovevano ebeti e dementi, pazzi e frenetici, «alloiati» e «alloppiati», ubriachi cronici ed effimeri, sborniati dal vino o, cosa incredibile, dal pane.

Allucinogeni e sonniferi derivati dal papavero, distillati oppiacei rozzi e rischiosi usati come sedativi e antidolorifici anche dalla medicina pauperum pollini e fibre della canapa (una pianta con cui i contadini della «bassa» emiliana e romagnola vivevano in stretta, familiare simbiosi), delineano un panorama umano drammatico, delirante o catatonico, inerte o epilettoide, frustato dall'uso consapevole o involontario di droghe e di prodotti tossici.

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14. Paradisi artificiali



È errato supporre che sia necessario arrivare al capitalismo ottocentesco o addirittura all'imperialismo per veder sorgere il problema della diffusione di massa dei derivati dell'oppio (quella che poi sarà la morfina ed oggi l'eroina) per neutralizzare il furore delle folle e ricondurle — attraverso il sogno — alla «ragione» voluta dai gruppi di potere. La guerra dell'oppio contro la Cina, le Black Panthers «domate» dalla droga, il «riflusso» degli studenti americani ed europei (ammesso che — secondo taluni credono — gli allucinogeni possano essere per quest'ultimo caso chiamati in ballo), sono gli esempi piú comunemente usati, non sappiamo con quanta pertinenza, per dimostrare come l'imperialismo e il capitalismo «avanzato» abbiano utilizzato, per imporre il loro ordine, gli strumenti che conducono al sogno collettivo e smorzano coi «viaggi» visionari l'ansia di rinnovamento.

Anche l'età preindustriale ha conosciuto — seppur in maniera piú imprecisa, rozza, e «naturale» — strategie politiche alleate alla cultura medica, sia per smorzare i morsi della fame, sia per contenere i furori della piazza. Certo si può sorridere di fronte ad interventi tanto blandi da apparire quasi surreali, dilettanteschi, improvvisati, ma non si può trascurare che, sia nella teoria, sia nella pratica un «trattamento del povero» curato con ansiolitici ed allucinogeni rispondeva a un progetto medico-politico meditato. I tentativi piú interessanti e le sperimentazioni piú disinvolte s'indirizzano verso la confezione di pani truccati, leggermente allucinanti e blandamente stupefacenti, come quel «pane papaverino», lodato anche dal Montalbani che, conosciuto dalla medicina galenica come ipnotico, sedativo della tosse stizzosa e del catarro, finisce col prendere un inusitato ed inquietante posto fra i rimedi succedanei al pane di frumento. Il problema dei surrogati del pane — secondo una teoria escogitata dalla scienza in sintonia col potere politico — poteva essere in parte risolto praticando una politica alimentare fondata sull'uso massiccio di allucinogeni non pesanti, come si direbbe oggi: il pane «alloiato» finiva logicamente per fornire il modello del pane «alloppiato». Meglio una città popolata da stupidi — sembra essere stata la tentazione, non vogliamo dire la strategia di alcuni gruppi dirigenti — che una città sconvolta da tumulti e sollevazioni, tenuta sotto la paura costante di rivolte rabbiose e cieche.

Anche l'Ottocento ha conosciuto proposte simili a quelle avanzate dal secentesco Montalbani. Un contemporaneo di Carlo Marx, un filantropo umanitario amico delle classi subalterne, il medico e antropologo Paolo Mantegazza (1831-1910), docente universitario e senatore, eminente rappresentante della «scienza» e della politica ufficiale del Regno d'Italia, era profondamente convinto della necessità sociale d'introdurre fra le classi diseredate e specialmente fra la classe operaia l'uso della suzione della foglia di coca, i cui benefici effetti aveva personalmente osservato durante un viaggio fra gli indios del Nord-Ovest dell'Argentina.

Gli intellettuali, eruditi ma attenti alla realtà sociale, dell'età barocca, i medici, i matematici, i filosofi, gli uomini di Chiesa, avevano lungamente elocubrato e meditato sopra un fantomatico «pane sovventivo spontenascente», un pane selvaggio di brughiera e di landa che potesse agevolmente sostituirsi a quello di frumento. Ignorando i meccanismi politici della fame e non discutendo neppure il principio della disuguaglianza e il problema della ridistribuzione dei beni e delle risorse, essi fantasticavano in modo allucinato, sopra questo irrisolto teorema della fame, sopra questa impossibile incognita alimentare con una serietà stupefacente. A questa chimerica strategia dell'invenzione e del reperimento d'improbabili succedanei al pane di frumento (o anche di granaglie inferiori e «ignobili») mancava solo di consigliare, come alternativa annonaria, quel pane di locuste che i popoli d'Arabia «panizzavano» applicando il semplice «recipe» consistente nell'ucciderle, nell'essiccarle al sole, e nel ridurle quindi in farina.

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