Autore Albert Camus
Titolo Il diritto e il rovescio
EdizioneBompiani, Milano, 2018, Tascabili 609 , pag. 76, cop.fle., dim. 13x19,8x0,7 cm , Isbn 978-88-452-9946-9
OriginaleL'envers et l'endroit
EdizioneGallimard, Paris, 1958
TraduttoreYasmina Melaouah
LettoreMargherita Cena, 2019
Classe narrativa francese












 

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Indice



Prefazione                                   7



L'ironia                                    23

Fra il sì e il no                           35

La morte nell'anima                         47

Amore di vivere                             61

Il diritto e il rovescio                    69



 

 

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Pagina 47

La morte nell'anima



Arrivai a Praga alle sei di sera. Andai subito a lasciare i bagagli al deposito. Avevo ancora due ore di tempo per cercare un albergo. E mi sentivo colmo di una strana sensazione di libertà perché non avevo più il peso delle valigie. Uscii dalla stazione, costeggiai un parco e mi ritrovai di colpo in pieno viale Venceslao, ribollente di folla a quell'ora. Intorno a me un milione di individui che avevano vissuto fino a quel momento, e della loro esistenza non mi era trapelato nulla. Vivevano. Ero a migliaia di chilometri dal paese familiare. Non capivo la loro lingua. Camminavano tutti in fretta. Mi superavano e si allontanavano. Persi la bussola.

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Pagina 54

Di lì a poco lasciai Praga. E, beninteso, mi sono interessato a quel che vidi poi. Potrei descrivere una certa ora nel piccolo cimitero gotico di Bautzen, il rosso squillante dei suoi gerani, e il mattino azzurro. Potrei parlare delle lunghe pianure della Slesia, implacabili e tristi. Le ho attraversate all'alba. Un pesante stormo di uccelli passava sopra le terre molli nel mattino nebbioso e greve. Mi piaceva anche la Moravia tenera e solenne, i suoi orizzonti puri, i suoi sentieri fiancheggiati da pruni dai frutti aspri. Ma conservavo dentro di me la vertigine di chi ha guardato troppo a lungo in un crepaccio senza fondo. Arrivai a Vienna, ripartii dopo una settimana ed ero ancora prigioniero di me stesso.

Eppure, sul treno che da Vienna mi portava a Venezia, aspettavo qualcosa. Ero come un convalescente che dopo essere stato alimentato a brodini pensa a come sarà la prima crosta di pane che mangerà. Nasceva una luce. Adesso lo so: ero pronto per la felicità. Parlerò soltanto dei sei giorni che passai su una collina vicino a Vicenza. Sono ancora lì, o meglio talvolta mi ci ritrovo, e spesso basta una folata di rosmarino perché tutto mi sia restituito.

Entro in Italia. Terra a misura della mia anima, riconosco tutti i segni che l'annunciano. Ecco le prime case con i tetti a squame, le prime viti addossate a un muro che la ramatura ha colorato di azzurro. Ecco la prima biancheria stesa ad asciugare nei cortili, il disordine delle cose, la sguaiatezza degli uomini. E il primo cipresso (così esile eppure così dritto), il primo ulivo, il fico polveroso. Piazze ombrose delle piccole città italiane, ore meridiane in cui i piccioni cercano un riparo, lentezza e pigrizia, qui l'anima consuma le proprie rivolte. La passione si avvia piano verso le lacrime. E poi ecco Vicenza. Qui le giornate girano su se stesse, dal risveglio del giorno gonfio del grido delle galline fino a questa sera incomparabile, dolce e languida, setosa dietro i cipressi e ritmata a lungo dal canto delle cicale. Il silenzio interiore che mi accompagna nasce dalla corsa lenta che conduce la giornata a un'altra giornata. Cos'altro posso desiderare che questa stanza affacciata sulla pianura, con i suoi mobili antichi e i suoi pizzi all'uncinetto? Ho tutto il cielo sulla faccia, e il ruotare delle giornate credo che potrei seguirlo senza sosta, immobile, ruotando con loro. Respiro la sola felicità di cui sono capace - una consapevolezza attenta e amichevole. Cammino tutto il giorno: dalla collina scendo verso Vicenza oppure mi inoltro nella campagna. Ogni persona che incontro, ogni odore di questa strada, ogni cosa è per me un pretesto per amare smisuratamente. Ragazze che sorvegliano una colonia estiva, il campanello dei gelatai (il loro carretto è una gondola su ruote munita di stanghe), le bancarelle della frutta, angurie rosse dai semi neri, grappoli d'uva traslucidi e viscosi - altrettanti appigli per chi non sa più stare solo. Ma il flauto aspro e tenero delle cicale, il profumo di acqua e di stelle che si avverte nelle notti di settembre, i sentieri odorosi fra i lentischi e i giunchi sono tutti segni d'amore per chi è costretto a stare solo. Così passano le giornate. Dopo le ore abbacinanti di sole viene la sera, nello scenario splendido dell'oro del tramonto e del nero dei cipressi. Cammino allora sulla strada, verso le cicale che si odono lontanissime. Via via che avanzo, mettono una a una il canto in sordina, e poi tacciono. Avanzo con passo lento, schiacciato da tanta ardente bellezza. Una a una, dietro di me, le cicale gonfiano la voce e poi cantano: un mistero in questo cielo da cui vengono l'indifferenza e la bellezza. E, nell'ultima luce, leggo sul frontone di una villa: In magnificentia naturae, resurgit spiritus. Qui bisogna fermarsi. Ecco già la prima stella, poi tre luci sulla collina di fronte e di colpo, senza preavviso, il buio, un mormoreggiare e un soffio di brezza nei rovi dietro di me, la giornata se n'è andata lasciandomi la sua dolcezza.

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Pagina 67

So di sbagliarmi, e che occorre darsi dei limiti. Solo a questa condizione si crea. Ma non ci sono limiti per amare e non mi importa di stringere malamente se posso abbracciare tutto. Ci sono donne a Genova di cui ho amato il sorriso per un'intera mattina. Non le rivedrò più e forse non c'è niente di più semplice. Ma le parole non copriranno la fiamma del mio rimpianto. Piccolo pozzo del chiostro di San Francisco, guardavo passare stormi di piccioni e dimenticavo la sete. Ma arrivava sempre un momento in cui la mia sete rinasceva.