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| << | < | > | >> |Pagina 9Malgrado la comune decisione di porre fine al loro rapporto, Guido aveva di nuovo telefonato a Chiara, almeno per risentirla dopo la morte della madre. Era stato un breve e asciutto colloquio: Chiara appariva determinata, forse troppo per essere vero: la voce priva d'ogni inflessione lamentosa o anche soltanto commossa. La scomparsa della madre sembrava averla fatta maturare di colpo: non più una donna scontenta di sé, della propria insicurezza e dei suoi stessi rapporti amorosi, né una militante di movimenti estranei alla sua fragile natura, resa aggressiva unicamente dalle sconfitte e dalle umiliazioni subite. Si era detta decisa a "ricominciare tutto da capo", tornare con il collega italianista, di cui era stata a lungo la "fidanzata" prima del tempestoso rapporto con Guido, sposarlo, avere dei figli, prepararsi a una vita forse modesta e raccolta, senza voglie spregiudicate ed effimere trasgressioni. Quelle parole furono una frustata anche per Guido, pur se non immotivati gli sembravano i propri dubbi sulla perseveranza di Chiara nel mantenere quei saggi propositi. Anche lui meditava talvolta di abbandonare un lavoro che gli procurava ormai soltanto insoddisfazione, e talora persino disgusto: da anni capo redattore interni di un telegiornale, obbligato a confezionarlo con mille accorgimenti, farcirlo di notizie sensazionali, patetiche o accattivanti, dosarlo su dissidi politici e personali o su pressioni di notabili "esterni", si era sentito come annegare in una palude di conformismo, se non addirittura di connivenza. Il giornalismo, prima quello della carta stampata, poi della TV, era stato a lungo per lui un'autentica vocazione. Aveva cominciato giovanissimo, cronista in un quotidiano, visitando commissariati, ospedali, ospizi, seguendo piste appena tracciate, pedinando pregiudicati e spacciatori, poi intervistando "persone comuni" timide o saccenti, e ottenendo da esse dichiarazioni strampalate o fatui luoghi comuni. E tuttavia, nella fase iniziale in un quotidiano della capitale, proprio quella superficialità e a volte quel cinismo, oltre ai rischi cui talvolta la professione lo esponeva, avevano fatto di lui un cronista "d'assalto" allora scarsamente pagato, ma ugualmente appassionato al proprio mestiere, e per proprio conto impegnato in un lavoro letterario inconfessato: scrivere racconti e versi era, fin dagli anni dell'università, la sua più autentica passione.La carriera non era stata facile. Anche nel quotidiano allignavano invidia, gelosia, mormorazioni calunniose, ma lì il rivale o il nemico lo avevi al tavolo accanto, c'era il vantaggio del confronto e dell'ingiuria faccia a faccia, del turpiloquio greve ma liberatorio, e magari anche, per effimera riconciliazione, la pizza a taglio o il cappuccino portati dal ragazzino del bar di fronte. In quelle acque torbide ma non melmose, Guido era riuscito a navigare con l'ostinata dedizione di chi non rifiuta mai un incarico anche sgradevole o pericoloso, raggiungendo il vertice della cronaca: imprecisa, macabra e compiaciuta quella "nera"; tendenziosa e prostituita ai padroni quella "bianca". Ma lì c'era il contatto con la vita, anche se nei suoi risvolti più ripugnanti, ridicoli, a volte osceni. Poi il passaggio in TV, propiziato dai suoi indubbi meriti e da qualche "buona parola" di personaggi influenti in precedenza conosciuti e magari "serviti" in particolari circostanze, ciò che aveva cominciato a corrodere in lui la stima di se stesso insinuando nel suo animo il seme di una strisciante insoddisfazione per ciò che aveva cercato ad ogni costo di ottenere. Per di più, l'alluvione di notizie non più distribuite in pagine diverse, come nei quotidiani, ma rovesciate sui telespettatori in un congesto e indiscriminato catalogo di orrori misti a notizie edificanti e conclusi talora dall'apparizione della starlet raccomandata di turno o dei soliti autori di best seller, aveva finito per suscitare in lui una tentazione di fuga a stento repressa dai fruscianti fogli di cartamoneta che mensilmente costituivano la base della sua esistenza. Guido non era un'"anima bella" né un moralista. Fin dai tempi del giornalismo "di strada" conosceva bene il marcio della vita e della politica: era necessario immergervisi, non disprezzare l'informatore che ti dà la dritta giusta, né la prostituta o la fotomodella che ti offre sesso per avere una foto in cronaca da mostrare al protettore o al regista d'infimo ordine documentando così il valore del proprio corpo e l'efficienza nel "mestiere": ma tutto ciò aveva il sapore amaro, appunto, della vita. In TV tutto era invece cellophanato, i rischi della strada lontani, l'aria "condizionata", il turpiloquio limitato ad espressioni fisse. E la lotta con lo stiletto invece che con il machete, il sorriso ironico più micidiale di un insulto, la mediocrità e l'ignoranza mascherate dalla cipria dell'informazione, avevano finito per riuscirgli insopportabili. L'indole di Guido - una miscela di orgoglio, ombrosa sensibilità, timidezza che poteva rovesciarsi in ostentazione di duro coraggio - non si era mai completamente adattata alla condizione di privilegio nell'aggrovigliato e insieme sfuggente contesto del mezzo televisivo. Tuttavia i modi cortesi, il buon retro terra culturale, la routine all'inizio accettata con buona volontà e in discutibile spirito d'iniziativa, avevano trasformato il cronista errante in efficiente funzionario, e il rimpianto della "carta stampata" in epidermico compiacimento per la vantaggiosa posizione raggiunta. Ma da qualche tempo tutto gli riusciva indigesto intorno a lui: le mura asettiche, le pareti di cristallo, i telefoni di continuo trillanti, l'affaccendarsi di colleghi intorno a questioni irrilevanti o ad immani tragedie affrontate con la libidine dello scoop e nello stesso tempo con il cinico distacco del mestiere. Gli accadeva allora di vagheggiare - consapevole tuttavia del proprio velleitarismo - condizioni diverse ed estreme, un ascetismo monastico, il volontariato laico, il tardivo ritorno agli studi di medicina interrotti poco prima della laurea. In realtà, ciò che più lo turbava, superata la soglia dei quarant'anni, era il desiderio di amicizie o amori intensi, frustrato dalla sua natura schiva, feribile, ombrosa. Il rapporto con Chiara all'inizio era stato completo ed esaltante, poi, allorché le motivazioni sentimentali e intellettuali erano andate affievolendosi, una sazietà triste che insorgeva al termine degli incontri aveva provocato, soprattutto in Chiara, una sempre più evidente volontà di rottura, espressione di una irrequietezza di fondo, che aveva fatto di lei una partner a volte evasiva, altre volte persino riottosa, forse per i segreti conflitti di una femminilità ferita dal necessario prostituirsi al potente "barone" universitario che in passato, subito dopo la laurea, le aveva fatto ottenere un dottorato di ricerca, poi il "posto fisso", la cattedra di storia e filosofia in un importante liceo della capitale. | << | < | > | >> |Pagina 26All'inizio della riunione Guido prese per primo la parola:"Anche se è argomento che riguarda gli esteri, tuttavia..." Il direttore lo interruppe: "Se riguarda gli esteri, pensa ai tuoi interni, e lascia parlare Cordace. Se vuoi potrai intervenire dopo di lui." Cordace, venuto dalla gavetta e cresciuto in TV, fece il suo rapporto sull'Algeria e propose di dare la notizia degli assassinii quotidiani, insistendo poi sull'atrocità delle esecuzioni: vittime sgozzate - anche donne e bambini innocenti - e fatte a pezzi a colpi di scure. "I particolari agghiaccianti," sottolineò Cordace, "susciteranno ancor più l'indignazione dei telespettatori contro gli aguzzini." "Oppure li vaccineranno contro l'emozione e il disgusto, cioè accresceranno la loro insensibilità a tutte le notizie orripilanti che gli rovesciamo addosso ogni sera." "Ciò è opinabile," ribatté Cordace. "In ogni modo il dovere di cronaca viene prima di tutto. Inoltre le emozioni aumentano l' audience." E proseguì: "Quanto all'Albania, basterà la notizia dei tre o quattro morti di ieri, e degli scontri fra bande rivali." Il direttore assisteva al duello con provvisorio distacco. Cordace odiava Guido, non poteva sopportare - lui autodidatta e non più che infarinato di cultura politica, ma molto abile nel manovrare i corrispondenti dall'estero e gli inviati speciali, alcuni dei quali molto esperti e taluni brillanti - l'alta estrazione sociale e l'efficacia dello stile giornalistico di Guido. Direttore della sezione esteri, aveva in redazione pochi avversari; del resto tutti ne rispettavano i meriti aziendali oltre che la capacità di adattarsi alle circolari di servizio di qualsiasi direttore generale, o presidente. Mettersi contro di lui poteva significare trasferimento da un luogo di lavoro all'altro, vuoto intorno all'eventuale "ribelle", in ogni caso guai. Perciò tutti rimasero stupiti dell'audacia di Guido che non si diede per vinto: "O dài la semplice notizia, o devi spiegare brevemente la ragione di quei fatti tremendi. In Algeria si tratta di stragi politico-religiose, ma perché in quel villaggio e non in un altro? E cosa c'è dietro il fanatismo degli islamici? Quanto all'Albania, si tratta di episodi di cronaca nera e di pura criminalità, oppure è in atto una vera e propria guerra civile? Se è così dobbiamo anche tentare un'identificazione delle forze politiche in lotta. Se non spieghi, non fai un telegiornale ma un museo degli orrori. E poi perché non la smettiamo con questa valanga di notizie? Un massacro, poi un processo, un aereo schiantato al suolo, un qualsiasi mostro sbattuto in prima pagina, un suicidio collettivo, uno sciopero selvaggio, Schumacher sul podio, o l'attricetta 'più amata dagli italiani'. Una marmellata che stordisce il pubblico e a lungo andare lo anestetizza, o lo spedisce alla ricerca di quiz che finiscono per istupidirlo." Cordace schiumava di rabbia. Gisella era impallidita. Il direttore si schiarì la voce: "Guido, decisamente non sei di buon umore stasera. Datti una calmata. La grande famiglia della TV..." All'udire questa frase, Guido perdette completamente il controllo di sé: "La grande famiglia TV è un'azienda che incassa e paga miliardi con bilancio sempre in rosso, e di solito offre spettacoli e servizi di mediocre o infima qualità. Sarebbe meglio una TV povera che desse poche notizie, ma spiegandone le premesse e le conseguenze, e buoni vecchi film, sport, cultura, musica, teatro." "E in una TV povera chi lo pagherebbe il tuo ricco stipendio, figlio di papà che neanche ne avresti bisogno?" Ora anche Cordace era uscito allo scoperto. I redattori ammutolirono. Il direttore, avvezzo a litigi anche perfidi ma più soffici, si accese una sigaretta e si alzò: "Sospendiamo qualche minuto," e uscì dalla sala. Gisella si avvicinò a Guido, lo prese sottobraccio e lo invitò al bar. Quando risalirono in redazione nessuno aveva più voglia di discutere. La riunione scivolò via rapida e vagamente depressa. Era su questi mutamenti di umore e sulla stanchezza degli eventuali contendenti che il direttore contava per antica esperienza. | << | < | > | >> |Pagina 92TOMMASO G.Tommaso G.
12 marzo 1996
Tommaso G., sessantenne, scrittore, è un veterano della nevrosi: psicanalisi, psicofarmaci, cliniche per malattie nervose e mentali, persino qualche elettroshock. È infermo da trent'anni, ma li "porta bene", nel senso che dopo un paio di decenni di lotta corpo a corpo con il male, è giunto a un armistizio con esso. Attualmente ci convive con relativa naturalezza, e - poiché è uno spirito lucidissimo e caustico - persino con un evidente sense of humour. Il suo male, dopo la violenta aggressione iniziale che potrebbe essere definita con l'attuale volgare espressione "crisi di panico", ha avuto costantemente due aspetti: una depressione di fondo, e una estesa e in certi periodi paralizzante ritualità fobico-ossessiva, caratterizzata da una vera "tirannide della simmetria" (nel disporre gli oggetti d'uso, nei gesti, e persino nei contatti o scontri casuali con persone e cose), e quindi da un continuo "stato di attenzione" nei confronti di quanto egli compia o accada intorno a lui. Tommaso G. non è perciò mai distratto, deve tenere sempre tutto sotto controllo. Essenziale per lui è la numerazione: in certi casi giunge a contare i passi, le espirazioni e respirazioni, il numero dei sorsi d'acqua o dei bocconi che ingoia. Tale invincibile ritualità - che spesso determina comportamenti "anomali" anche in pubblico - è praticamente illimitata. Egli è simile a un sacerdote che offici messe ininterrotte per l'intera giornata. Tale tormentosa e sempre controllatissima ritualità obbedisce a uno psichismo deviato dal piano dell'utilità pratica e del funzionale a quello fantasiosamente gratuito e apparentemente insensato di movimenti - ma anche di iterazioni ideative - che solo il paziente conosce e solo lui ha "inventato". Che cosa rappresenti tale ritualità metamorfica - cioè mutevole nei lunghi periodi, con modificazioni anche profonde delle attitudini e delle espressioni psicofisiche, ma quasi mai ridotte nella quantità e nella durata, come se si trattasse di vasi comunicanti - è difficile dire: nessuno dei precedenti e valenti psichiatri che hanno avuto in cura per anni questo difficilissimo paziente è riuscito a capirlo fino in fondo. Ciò che si può dire con relativa certezza, è che essa abbia prevalentemente una funzione esorcistica: con esse Tommaso sembra appunto difendersi da qualcosa di misteriosamente inquietante che agisce nel profondo del suo essere. Certo è facile ipotizzare che egli esorcizza l'angoscia e le fobie; ma a questo punto il problema si ripropone: qual è l'origine di tale angoscia e di tali fobie, che necessitano di riti così complicati e defatiganti per essere tenute continuamente sotto controllo e in un certo senso depotenziate? Se si chiede al paziente che cosa accadrebbe se egli costringesse se stesso (o fosse costretto da altri) a non compiere i propri riti, egli risponde, sulla base di esperienze sofferte o tentate, che si produrrebbe in lui una terribile confusione mentale, molto vicina alla follia; egli perderebbe persino la capacità di orientamento e di azione. Ma è possibile ipotizzare che tale caos mentale sarebbe non altro che un effetto dell'interruzione improvvisa e forzosa di abitudini consolidate (cioè, press'a poco, dei "riflessi condizionati" di Pavlov), e della irruzione dell'angoscia fino a quel momento tenuta a freno e come "controllata" dai riti stessi? Ciò che meraviglia i profani è l'alta qualità dell'intelligenza e l'estrema lucidità razionale di Tommaso: non a caso alcuni sprovveduti - purtroppo anche professanti l'arte medica - gli hanno chiesto com'è possibile che egli non riesca a reprimere con uno sforzo di volontà le proprie "sciocche" anomalie comportamentali. Costoro non comprendono che in realtà egli non vuole rinunciare ad esse, in quanto da lui "sentite" come il prezzo da pagare per una vita affrancata da una altrimenti insopportabile invasione di un probabile caos. Ma qual è l'origine remota e primaria di tutto ciò? Alcuni anni fa un critico molto acuto, recensendo un lavoro letterario di Tommaso, a proposito della nevrosi che lo pervadeva e insieme lo ispirava, parlò di "ansia metafisica". Penso che fosse non troppo lontano dal vero. Infatti anche alcuni colleghi psichiatri che seguivano pazienti ipersensibili e inclini alle astrazioni filosofiche - al pari di Tommaso hanno pensato ad un'"angoscia metafisica" derivante dalla consapevolezza di vivere in un mondo avvolto nel mistero e orbitante nello spazio infinito e per un tempo eterno. L'angoscia di Tommaso è forse, almeno in parte, la semplice angoscia di un "vivere privo di senso" al centro di un mondo privo anch'esso di senso e di un universo inconoscibile e incomprensibile. Essendo inoltre egli un "non credente", non può esorcizzare l' horror vacui con il conforto di una divinità che gli appaia meno misteriosa e inconoscibile dell'universo stesso. Ma c'è sicuramente anche un'altra causa alle coazioni di Tommaso. Nella sua depressione di fondo - cioè anche quando il paziente sembra non depresso -, egli continua a sentirsi estraneo alla realtà: non se ne sente quasi mai pienamente coinvolto. Non è azzardato forse credere che egli, con i suoi riti "assurdi", ponga dei limiti alla propria visionaria intelligenza o, meglio, alla sua rigorosa lucidità intellettuale. Più volte mi ha confessato di temere la follia totale a causa della sua capacità di "sentire", al di fuori del proprio esistere "relativo" (sanamente egoistico), il Weltschmerz (il "dolore del mondo"), e cioè tutto ciò che di mostruoso accade simultaneamente nel mondo, guerre, torture, stupri, catastrofi, atrocità intollerabili nei mattatoi, "ignobili e vergognose" - così egli le definisce pratiche nei laboratori della vivisezione con i loro "pseudoscienzati spregevoli, sadici, criminali". | << | < | > | >> |Pagina 129Rientrò al lavoro il giorno dopo come "capo". Cordace non era ancora tornato con il figlio dalla visita al miracoloso fisioterapista. Il direttore era in ferie. Le prime decisioni di Guido furono una drastica depurazione del linguaggio del telegiornale (via "tormentone", "mandare in tilt", "mettere a segno" "crisi annunciata", "ordinaria malasanità", con grave imbarazzo di redattori e speaker privati così delle comode espressioni del mestiere), ma anche di argomenti: niente pettegolezzo trash, più storia politica, e sociologia, niente "bellone" né autori di best seller in chiusura; al loro posto una breve intervista a Italo per ovvie ragioni, e presentazione di promettenti scrittori semisconosciuti.Risultato: un calo vertiginoso dell' audience. Fu convocato d'urgenza dal direttore centrale, esperto manager, pugno di ferro in guanto di velluto, come si dice. "Mi descriva la sua antica classe liceale," gli disse cortese, ma gelido. "Prego?" chiese Guido imbarazzato. "Voglio dire: quando frequentava il liceo, sui venticinque alunni della sua classe, supponiamo, quanti ce n'erano eccellenti?" Guido cominciava a capire: "Un paio." "E mediocri?" "Diciamo una ventina. Fra i quali io." "E gli altri due o tre pessimi, immagino. O stupidi, o più intelligenti di tutti, ma ribelli a ogni istituzione, soprattutto a quella scolastica. E così?" "Press'a poco." Questo in una classe. Trasferisca la proporzione al pubblico televisivo, milioni di persone. Ecco dunque: noi dobbiamo fare informazione soprattutto per la moltitudine dei mediocri. È chiaro?" "Chiarissimo. E allora?" "E allora penso a una promozione per lei..." "Promoveatur ut...?" "Esattamente. Lei è acuto e pronto di riflessi, anche relativamente colto. Le va la commissione per i programmi culturali, del resto assai rari nelle nostre reti?" "Veramente..." "So che ha il giornalismo nel sangue, ed è migliore di quasi tutti i suoi colleghi. Ma loro hanno il diritto di usare le parole che a lei non piacciono e che invece stabiliscono un contatto diretto con il pubblico. È dunque lei in torto, in questo caso. Massmedia significa..." "So cosa significa, signor direttore. Accetto la sua proposta." "Tuttavia anche i programmi culturali dovranno essere agganciati all'attualità. E niente voli naturalmente." "Cultura nazionalpopolare. È così, direttore?" "Press'a poco. Le va?"
"Per essere sincero, vorrei dirle di no. Ma non posso.
Non ho ancora la certezza di poter ottenere un posto di cicerone nei musei e nei
parchi archeologici. Dunque la sua proposta mi va, cioè me la faccio andare."
Il direttore centrale si alzò, stirò le labbra in un accenno di sorriso e accompagnò Guido alla porta. Ebbe il buongusto di non battergli una mano sulla spalla mentre gli diceva: "Prenda contatto con Battistelli, lei sarà il suo vice, per un po'. Battistelli è in procinto di andare in pensione. Mi spiego?" "Perfettamente. Grazie di tutto, direttore." Scendendo al suo piano, Guido pensò: "Mio padre sarebbe contento di me. Sono io che mi faccio schifo." Qualche giorno dopo incontrò per le scale Cordace, che lo ringraziò per la promozione del figlio, anche se lui attribuiva il fausto evento agli effetti miracolosi - dal punto di vista anche psicologico e intellettuale - delle manipolazioni fisioterapiche dell'anzidetto luminare, anziché alla raccomandazione del preside Italo. Guido passò dal secondo piano al terzo. Battistelli, oltre che anziano, era totalmente disincantato. "Finalmente potrò andarmene in pensione," salutò Guido. Dopo qualche settimana Guido traslocò anche dalla sua mansarda, trasferendosi nell'appartamento prenotato in uno dei più esclusivi quartieri della città ("non il centro storico per carità, invaso da paperoni americani, sottobosco letterario, ed eserciti di scarafaggi"). Anche il suo stipendio era salito dal secondo al terzo livello. Della vecchia mobilia da mansarda portò via con sé la sola poltroncina di vimini. Lo contrariò l'idea di non poter più lasciare le briciole al merlo ("ma anche la vecchia signora del piano di sopra lo fa", si consolò). Quanto all'amichevole gestore del ristorante dei fior di latte e delle frittate al parmigiano, avrebbe potuto venire a trovarlo di tanto in tanto, e parlare con lui di acquisti e cessioni di calciatori. Ma la cosa che fece subito, precedendo anche i preparativi di trasloco, fu cercare in libreria i thrilling per Prisca, che le inviò subito per mezzo d'uno speedy boy. Il nuovo lavoro gli riservava anche qualche soddisfazione: andirivieni di poeti e soprattutto di poetesse, alcune delle quali molto graziose, anche se mellifluamente rampanti. Ma nessuna che riuscisse a fargli dimenticare Gisella, definitivamente accasata con Chiara, e nei ritagli di tempo platonicamente trescante con Cordace. Noiosi erano i servizi sulle innumerevoli presentazioni di libri in incongrue sedi solenni (persino protomoteche e lussuosi residence), ma per ciò erano a sua disposizione volenterosi "contrattisti a termine".
Resisteva in lui un accenno di nausea di sé, ma lentamente anche quello
sgradevole disturbo psicosomatico scomparve, lasciandosi dietro solo un lieve
rallentamento dei riflessi polemici che erano stati sempre per lui, nel bene e
nel male, lo stimolo ad agire, ma soprattutto a pensare. Era forse andato oltre
il consiglio di suo padre: l'indulgenza e il compromesso erano ormai applicati
da lui - senza la dovuta "misura" - soprattutto a se stesso.
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