Copertina
Autore Luca Canali
Titolo Reds
SottotitoloRacconti comunisti
EdizioneBompiani, Milano, 2003 , pag. 140, dim. 150x210x10 mm , Isbn 978-88-452-5380-5
LettoreGiovanna Bacci, 2003
Classe narrativa italiana
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Indice

Fioravanti                            5
Storia di una pistola e altre armi   32
Zimbo                                48
Ultimi fuochi                        59
Tramonto                             69
In memoria                           81
Una lezione inattesa                 86
Giro a vuoto                         95
Sconfitte parallele                 103
Lapo G.                             115
Rosso, verde, grigio                131
 

 

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Pagina 5

Fioravanti



Nell'immediato dopoguerra in alcune borgate della cosiddetta (allora) "cintura rossa" di Roma - le più misere e disastrate -, giovani disoccupati iscritti al PCI, privi di qualsiasi fonte di sostentamento e possibilità di lavoro onesto, erano costretti a rubare. Ma prima di sparire nelle tenebre della notte e raggiungere le diverse zone della città ritenute "agiate" o meno povere della loro, depositavano nelle mani del segretario della Sezione le loro tessere di iscrizione al partito, affinché in caso di arresto la polizia non le trovasse nelle loro tasche e non si potesse leggere sui giornali reazionari del mattino dopo il titolo "Assicurata alla giustizia una banda di ladri comunisti". Poi al levar del sole tornavano in borgata e il segretario restituiva a ciascuno la sua tessera. Devo confessare che ho sempre considerato quel duplice rito il segno di una "moralità politica" rigorosa, anche se discutibile. Per dovere di cronaca va inoltre detto che quei giovani non erano armati, e che mai durante tali "spedizioni" furono coinvolti in gravi fatti di sangue, come invece accade oggi con sempre maggiore frequenza e ferocia.

Era loro amico, ma non tesserato e non disoccupato - lavorava infatti nell'unico cantiere attivo in quella landa di casupole e di casermoni -, un giovanotto massiccio come un tronco di quercia, forte come un bue, rude di modi, ma generoso, amato o temuto da tutti.

Quella sera piazza Barberini sembrava un campo di battaglia: gli agenti del III reparto Celere, sporgendosi dal bordo delle jeep che viravano improvvise e fischianti tra la folla, picchiavano con gli sfollagente su qualunque cranio o schiena capitasse a tiro intorno alla fontana del Tritone, sui marciapiedi davanti al Supercinema, fino alle propaggini di via Veneto, dove tumultuava una violenta manifestazione di protesta contro il generale americano Ridgway, comandante della NATO, venuto a Roma per colloqui militari e politici con il governo italiano e altri rappresentanti dei paesi membri di quella potente coalizione occidentale. I manifestanti, quasi tutti comunisti, urlavano la loro protesta tentando di bloccare il traffico a un paio di centinaia di metri dall'Ambasciata USA: staccavano i trolley dei filobus dalla rete elettrica aerea, seminavano chiodi a tre punte, contrapponevano gruppi mobili alle cariche della polizia che agiva a folle velocità e a sirene spiegate. Mi trovavo tra un filobus immobilizzato e i passeggeri impauriti che ne scendevano a precipizio, quando sentii una mano rude serrarsi sulla mia spalla e tirarmi di lato con una irruenza che mi fece quasi perdere l'equilibrio. Pensai subito a un poliziotto appiedato che mi dichiarava in arresto. Contemporaneamente avvertii lo spostamento d'aria d'uno sfollagente vibrato con violenza a pochi centimetri dal mio capo. Assecondai dunque la mano che provvidenzialmente mi sottraeva a quel colpo micidiale, mentre una jeep si allontanava zigzagando verso altre teste da colpire, dopo aver fallito la mia. L'epicentro degli scontri s'era spostato in via Veneto; ebbi dunque il tempo di guardare il mio salvatore: un viso quadrato, duro, bruciato dal sole come quello di chi ha a lungo lavorato all'aria aperta. Il busto e il corpo intero sembravano una minacciosa macchina da guerra.

"Se non stai attento, qui ti spaccano la faccia," mi disse lo sconosciuto. Ma era lui che aveva vigilato per me, e lo ringraziai.

Non si perdette in convenevoli, e prima di avventarsi di nuovo nella mischia, mi chiese: "Di che Sezione sei?"

"Centro," risposi.

"Io sto a Pietralata, ma non sono ancora un 'compagno'"; e mentre si scaraventava contro un groviglio fibrillante di corpi e di lamiere poco lontano: "Se vieni a Pietralata chiedi di me, Fioravanti, e basta."

Pochi giorni dopo, durante una riunione del sindacato-edili in Federazione, lo intravidi fra i partecipanti, tutti loquaci, lui muto, quasi torvo. All'uscita lo affiancai e percorremmo insieme un tratto di strada fino alla vecchia moto Benelli che era - mi disse - il suo abituale mezzo di locomozione. Parlammo poco, tuttavia seppi di lui l'essenziale: non era ancora nel PCI, ma soltanto un "simpatizzante", come allora si diceva, iscritto però alla CGIL, sindacato-edili. Giovanissimo, durante la Resistenza aveva militato nel movimento "Bandiera Rossa", per il partito un concorrente anarcoide, temerario, e, si temeva, infiltrato da spie. Perciò lui, a quasi trent'anni, aspettava, quasi fosse in quarantena, che i comunisti gli concedessero l'iscrizione regolare al loro partito. Ma volle precisare: "Della tessera non è poi che mi freghi molto. Ma vorrei lottare a fianco degli operai nella loro organizzazione politica. E questo mi basterebbe. Per il resto, penso ai fatti miei."

"Quali fatti?" chiesi con un eccesso di confidenza, o piuttosto con avventata ingenuità.

Mi rivolse uno sguardo strano, quasi di sospetto, poi tentò di sorridere, senza riuscirci: evidentemente le sue labbra tirate e sottili non c'erano avvezze. Ma correggendo lo sguardo che mi aveva messo a disagio, mi batté ora amichevolmente una mano sulle spalle:

"Monto ponteggi nei cantieri. Tu invece sei un colletto bianco della Sezione Centro, un po' ficcanaso, ma anche un ragazzo di fegato che non ha paura dei manganelli della Celere."

Guardò anche, squadrandomi, il mio vestito di buon taglio, e aggiunse:

"Ma a te chi te lo fa fare?"

Evidentemente aveva una concezione duramente schematica della lotta di classe. Mise in moto la Benelli e mi salutò così:

"Pietralata, Fioravanti; se ti serve qualcosa."

La moto sferragliò per qualche decina di metri, poi rombò via.


Frequentavo la Federazione del partito in occasione della riunione settimanale dei responsabili stampa (detti agit-prop) delle cinquanta Sezioni urbane. Eravamo quasi tutti molto giovani, e prima o dopo la riunione ci trattenevamo a discutere fra noi di politica o altro. Feci così lega con Ivo, un venticinquenne operaio della Romana Gas, che parlava uno strascicato dialetto romano, vestiva jeans logori e vecchi maglioni, ma aveva occhi limpidi e sguardo penetrante, e durante le riunioni interveniva spesso con obiezioni intelligenti sostenute anche in contrasto con il relatore federale. Qualche volta raggiungevamo insieme la fermata dell'autobus, e una sera, saputo che lui era l'agit-prop della Sezione Pietralata, non seppi resistere alla tentazione di chiedergli notizie su Fioravanti. Mi guardò con curiosità:

"Come l'hai conosciuto?"

"Durante la manifestazione contro Ridgway."

"Ah, in quelle cose è forte. Ma non è ancora nel partito."

Gli chiesi qualcosa di più su di lui, e Ivo, mostrando la dimestichezza e anche l'affetto che lo legavano a Fioravanti, mi raccontò la vicenda umana e politica del nostro comune amico. Ex "bambino della ruota", e allevato in orfanotrofio, era uscito sedicenne da quella condizione di semiprigionia, adottato da un anziano muratore, Beppe Borghi, che aveva sempre anteposto la sua attività di cospiratore antifascista al desiderio, talvolta affacciatosi in lui, di farsi una famiglia. Borghi era stato per due anni il primo vero maestro di Fioravanti, poi, arrestato e deportato, aveva lasciato al suo figlioccio soltanto qualche libro di pensatori rivoluzionari, oltre al ricordo di un'intera vita di lavoro e di rischio. Privo dunque di qualsiasi retroterra familiare e sentimentale, con l'unica fede in un comunismo immaginario, elementare, riparatore di tutti i dolori e i torti del mondo, Fioravanti aveva preso allora a frequentare i compagni di lotta di quell'effimero "padre": da qui, durante il periodo dell'occupazione nazista di Roma, la sua adesione appassionata al movimento "Bandiera Rossa", nelle cui fila ebbe il compito - adatto alla sua, robustezza, agilità, decisione - di trovare con ogni mezzo fondi per la causa, giacché "Bandiera Rossa" era una formazione povera, priva dei finanziamenti di cui fruiva invece l'organizzazione comunista clandestina da parte di intellettuali, professori universitari, piccoli industriali, artigiani. Così, a poco più di diciotto anni, Fioravanti, esperto com'era rapidamente diventato nell'uso delle armi, s'era trasformato nel terrore dei pochi negozianti ricchi e filotedeschi della zona, oltre che di qualche banca di gente ricca nel quartiere nordest della città. Ma suo merito anche in quell'attività estrema, era stato il rifiuto di uccidere a freddo chiunque: facevano eccezione gli scontri a fuoco con la polizia e i reparti nazisti incaricati della caccia ai "sovversivi", durante i quali sparare per colpire, e quindi per uccidere, era inevitabile. Ma Fioravanti era ormai un perfetto tiratore, e perciò, durante le "rapine politiche", era sempre riuscito a impadronirsi della refurtiva senza lasciare vittime sul terreno. Tuttavia questo suo passato aveva indotto i capi della Sezione Pietralata a tenerlo ugualmente ai margini del partito, rinviando a prove pacifiche l'accertamento della sua adesione sincera ai metodi democratici voluti ora da Togliatti. Finita la guerra, quel giovane reduce da tante rischiose avventure - giovandosi dell'insegnamento del muratore Borghi che aveva voluto lasciargli in eredità oltre ai pochi libri e al ricordo della sua breve e affettuosa "paternità" anche il bene prezioso d'un mestiere - aveva avuto la fortuna di trovare lavoro come montatore di ponteggi nell'unico cantiere attivo nella zona.

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Pagina 48

Zimbo



Zimbo, Trippa, Pizzina - inseparabile trio di "picchiatori" rossi negli scontri di piazza durante gli anni roventi dell'immediato dopoguerra -, provenivano tutti e tre dal Testaccio, e malgrado l'amicizia erano diversissimi di carattere e di aspetto.

Zimbo, longilineo, scattante, carnagione bruna, sorriso ironico ma indulgente anche quando scaricava il suo sinistro doppiato dal destro sul viso o al bersaglio grosso dell'avversario: non considerava nessuno "nemico di classe", come invece voleva l'ala dura comunista, e i suoi colpi appartenevano al repertorio "dolce", secchi, fulminei e senza spinta della spalla o del braccio, così che l'avversario si trovava improvvisamente col culo per terra, magari farfugliando imbambolato "cameriere, a me un cappuccino", credendosi al bar. Gommista di professione con un negozietto suo a soli venticinque anni, e fidanzato con la ragazza più carina del rione, fino a qualche anno prima aveva sbarcato il lunario disseppellendo nella pineta di Tombolo salme di fanti USA della V armata, che dovevano essere traslate nel cimitero monumentale presso Firenze, un vasto semicerchio tutto croci bianche e prato verde. Poi esibendosi nelle balere in maratone di boogie-woogie di cui era indiscusso campione.

Pasta diversa quella di Trippa e Pizzina. Trippa, spalle tonde e cascanti, magliette sbrindellate, colorito terreo di chi ha sempre mangiato troppo e male, stomaco prominente per eccesso di coca-cola mista a gazzose o spuma, precoce commerciante di vuoti a perdere e cartacce da rivendere a peso, era tuttavia considerato l'eroe dei ventimila licenziati del Genio civile che nel '46 avevano invaso il centro di Roma, fracassato vetrine, rovesciato automobili, ma rinunciato al saccheggio solo per riguardo al buon nome del partito, e soprattutto per le sberle terrificanti del servizio d'ordine proletario capeggiato dal Trippa, appunto. Fra le cariche della Celere e dei carabinieri a cavallo, verso la fine della bagarre durata due giorni, per la scarica di mitra sfuggita a un poliziotto troppo nervoso erano rimasti sul terreno quattro operai in un lago di sangue, mentre una fila di cavalli - vuoti e contorti i foderi metallici delle sciabole penzolanti dalle selle senza cavalieri - zoccolava in lugubre cadenza sui selciati verso le scuderie delle caserme, guidata per le briglie da carabinieri senza elmetto, le giubbe sbottonate, qualcuna anche lacerata negli scontri.

Pizzina, muratore e scalpellino di poche parole, spigoloso, magro ma implacabile colpitore, aveva due soli amori nella sua vita: una sorella che l'aveva allevato, e il partito, che gli faceva da padre giacché un vero padre lui non l'aveva mai conosciuto. Durissimo qual era, quando passava davanti a una banca sputava in terra sibilando: "Sporchi capitalisti."

Tutti e tre erano stati iniziati al comunismo dai discorsi di quanti, prelevati dalla Suburra sventrata per fare largo alla via dei Fori Imperiali, erano stati trasferiti nelle case popolari del Testaccio dai camion della Milizia.

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Pagina 59

Ultimi fuochi

Non c'è follia sanguinaria o ridicola, che l'umanità cosiddetta savia non abbia compiuto.

Il nostro zelo era soltanto ridicolo, ma avallava sanguinosi misfatti. Non dico che non potesse esservi altra scelta, dico solo che altra scelta non v'è stata.

È venuto un tempo senza illusioni, che rinnega quella falsa saggezza. Ma l'attuale lucidità e disincanto che pochi professano con mitezza e i più vivono con violenza, non può mutare una storia di sangue in una opposta vicenda d'amore. Alla ipocrita saggezza di sempre, si è sostituita un'aperta follia.

Eravamo degli onesti giullari; la nostra lealtà era una beffa che giocavamo soprattutto a noi stessi. Ma era anche una genuina passione, che l'avvento di un'èra di plastica, alienata fino al vertice estremo dell'incoscienza, dell'impotenza, della cieca efficienza, ha reso un antico frammento indisponibile a una moderna utopia.

Eravamo isolati, immaturi, vibranti nel vuoto. Pochi illusi rimasti in città per adempiere un dovere fallito. Ma i doveri falliti, gli amori incompiuti di allora, ci aiutano a restare, qui e ora, ai margini della comune follia, oscuri quanto essa è lucente, anomali, dispersi, fiutanti, quanto essa è normale e inodore.

Non so se Otello credesse ancora nella rivoluzione quando lasciò cadere se ce la sentivamo, l'indomani mattina, di disperdere il corteo fascista all'uscita del Supercinema - sarebbe stata domenica, lui avrebbe riposato fino a tardi, il pomeriggio sarebbe andato alla partita -, ma penso di sì, e che ci creda ancora nella sua rapida marcia indietro verso l'ombra da cui era emerso.

Da tipografo era diventato capo-zona del partito bruciando tutti con l'autorità della grinta, l'ordine del pensiero, il vigore della media statura, il tono pacato del discorso o il rombo della voce negli scoppi di collera resi ancora più temibili dalla pronunzia corretta. Aveva un piglio gladiatorio ma senza iattanza: le sue vittorie erano troppo numerose e indiscusse perché dovesse ostentarne la gloria. Era un'indole a blocchi, nessuno gli avrebbe fatto cambiare opinione, difatti non la cambiò e fu annientato. Ignorava i veri rovelli e i falsi pudori intellettuali.

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