Copertina
Autore Luca Canali
Titolo La resistenza impura
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010 [1965], Società narrata , pag. 128, cop.fle., dim. 14,5x21x0,8 cm , Isbn 978-88-7285-624-6
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe biografie , narrativa italiana , paesi: Italia: 1960 , filosofia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Una lettera a Luca Canali                        7
di Eugenio Montale

Premessa                                         9

Dalle memorie di un quarantenne                 11

La morte divisa in classi                       41

L'arte del suicidio                             47

La resistenza impura                            57

Il silenzio delle pulci                         77

Contro i filosofi                              103

Ecclesiaste '65                                115


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Premessa
Luca Canali



L'impuro è il risultato della tensione verso la purezza. Senza questa tensione quel che risulta è il bruto.

Non voglio qui ora fare un discorso politico sul valore dell'espressione "scacco della Resistenza", solo constatare che non è per questa Italia che tanti uomini hanno affrontato la morte. Il problema che mi pongo è se essi, prevedendo questo esito del loro sacrificio, lo avrebbero ugualmente compiuto. Ma è forse una legge storica che i periodi di tensione, nei quali le concezioni divergono al massimo e sanguinosamente si combattono, siano introduzioni a durevoli contaminazioni reciproche. Per esempio il capitalismo tende a concedere oggi margini di profitto ai suoi salariati di ogni livello, applicando inoltre forme sempre più vaste di pianificazione inserite in un contesto almeno parastatale; e d'altra parte il socialismo introduce l'incentivo del profitto e la legge del mercato nel meccanismo della produzione pianificata, rinunciando al suo mito originario di un uomo rinnovato e migliore che da tali leggi si fosse per sempre affrancato.

Abbiamo scoperto tutto questo, lo abbiamo scoperto, intendo, non nei libri, ma nel vivo della nostra esperienza. Cioè siamo stati una delle punte della forbice al momento della sua massima divaricazione, e ora siamo nel mezzo dei processi di osmosi. Sentiamo che più nulla c'incanta. E pensiamo talvolta malgrado tutte le asserzioni ufficiali, che i ribelli sono morti invano, che la Resistenza è stata tradita, e che nessuno potrebbe indurci, oggi, a compiere atti nobili e rischiosi di cui il futuro traviserebbe lo scopo.

L'efficienza e la vitalità, rispettivamente nella sfera del lavoro e in quella della vita privata e del tempo libero, sono i due ideali etici antropologici della civiltà industriale nella sua fase più avanzata. Ma la cosa strana da constatare, se si giudica fuori da storicismi e determinismi e con un briciolo di distacco a rischio di essere tacciati di metastorici, è che efficienza e vitalità sono doti selvagge, cioè, meglio, espessioni ultracivilizzate di attitudini sostanzialmente ferine. Niente è più efficiente di una formica, di un'ape; e niente più trionfalmente vitale di una belva nella foresta. Mentre nulla è più umano della meditazione, del dubbio, e persino dell'ozio perplesso.

Significa dunque ciò che la storia è il fallimento dell'uomo? O meglio della sua illusione e presunzione, e la vittoria sotto altre forme della sua natura di bruto?

Una delle cause, non la maggiore ma neanche la minore, dell'attuale disfatta civile e morale e di conseguenza intellettuale dell'uomo, è il fatto che nessun membro influente della società, cioè nessuno che sia superiore al sospetto di personale insoddisfazione o malanimo, ha il coraggio di uscire dal gioco, di ribellarsi all'omertà, di offrirsi come bandiera, come esempio, o quantomeno come interprete e vittima innocente, all'impotente ribellione di tutti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

Dalle memorie di un quarantenne



Prologo semiserio

Giunto alle soglie dei quarant'anni, considerevole età nella gran fretta dei tempi, e volgendomi spesso al passato per trovare nelle passioni di allora momentaneo sollievo all'aridità del presente, sono giunto quasi senza avvedermene a ricomporre in un corso continuo i diversi momenti della mia vita e a scoprire in lunghi anni di essa sempre la stessa vocazione all'errore, per esempio da ragazzo innamorarmi d'ogni fraschetta che mi guardasse solo un poco più a lungo del normale, e profanare in solitudine virtuose immagini di donna, cercare di redimere prostitute, difendere il fascismo quando non c'era quasi più nessuno che lo facesse, a parte naturalmente i luoghi pubblici e le circostanze ufficiali.

Vorrei poter dire che in ciò si manifestavano i primi segni di uno spirito anticonformista e ribelle: ma so bene che in realtà si trattava solo del guazzabuglio di esaltazione e impotenza, umanitarismo e astratto eroismo che è la psicologia di ogni esemplare piccolo-borghese giovane, preferibilmente di sesso maschile e non sprovvisto di qualche dote nativa che lo distingua dall'ottusità del suo ceto. Perciò sono stato a lungo indeciso se fare di questa attitudine, e delle amarezze che personalmente ne ho tratto, oggetto di un qualsiasi racconto; tanto più che al compiacimento di essa attribuisco la povertà e il vaniloquio di tanta parte della letteratura recente.

Ma si dà il caso che a tale mia ovvia vicenda si siano intrecciati fatti di un qualche rilievo reale, e che dunque essa possa prestarsi, oltre che a uno sfogo privato, anche a qualche utile considerazione obiettiva.

D'altra parte l'indulgenza e il distacco, preziosi doni della maturità (ammesso che io l'abbia raggiunta), possono portare un lume di ragione anche nella storia più confusa e banale, e svelare in essa qualche frammento di verità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 77

Il silenzio delle pulci



                            Noi sentiamo che, anche una volta
                            che tutte le "possibili" domande scientifiche
                            hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali
                            non sono ancora neppur toccati.
                            Certo allora non resta più domanda alcuna;
                            e appunto questa è la risposta.

                            L. Wittgenstein,
                            Tractatus logico-philosophicus (6.52)



È stato più volte asserito che i morbi del corpo e dell'anima fanno velo alle facoltà razionali, e che non di rado i loro fantasmi sono scambiati dai medesimi infermi pensanti per ferrate costruzioni logiche, laddove invece essi divergono al massimo nella loro allucinata certezza dalla realtà delle condizioni oggettive. Così, secondo tale proposizione, le neurosi e i deliri, per non parlare di più tangibili guasti organici, sublimando in concezione del mondo possono tutt'al più costituire la base di una poetica, o comunque un'immaginazione privata, ma non l'avvio ad un processo conoscitivo.

Al contrario io mi chiedo se la salute, cioè il perfetto equilibrio corporeo, l'inavvertito ciclo delle funzioni e il fluire dei processi mentali negli argini di una realtà convenuta, non eliminino quell'attrito col mondo, quel continuo arrovellarsi in se stessi, quell'aberrare dai pensieri comuni da cui discende in ultima analisi la capacità di intravedere oltre i limiti della relatività funzionale qualche barlume di verità più diffusa.

[...]


Il fatto si è che il male, a differenza delle evasioni festive che pure comportano anch'esse una sospensione del lavoro, è un primario stimolo alla meditazione perché costringe l'uomo a volgersi in sé non potendo estraniarsi in null'altro.

Il lavoro è infatti íl più bel passatempo per dimenticare la morte. Prendete uomini in ozio, essi soffriranno non già della mancanza di lavoro, ma della mancanza di oblio, cioè dell'obbligo di sentirsi vivere e vivendo approssimarsi alla morte. Perciò cercano di riempire i vuoti in mille modi sciocchi ma efficacemente elusivi, rinviando sempre il momento in cui l' horror vacui e la morte si presenteranno senza possibilità di evasione. E il grande problema del futuro dell'umanità (del quale non si vuol qui parlare se non in quanto già si profila nel presente) sarà l'utilizzazione del tempo libero, che solo gli stolti o gli ingenui ritengono potrà comunque risolversi in bene oggettivo, cioè in edificazione di spirito e corroboranti esercizi del corpo, e che invece sarà probabilmente la più grande epidemia neurotica della storia, mettendo masse sterminate e impreparate d'uomini a tu per tu con gli interrogativi essenziali.

Naturalmente si vorrà obiettare che questo della morte è un problema mal posto, facendo magari ricorso all'antico argomento epicureo che la morte non esiste perché essa è quando noi non siamo, o al neo-immanentismo volgare che considera appunto falsi problemi quei problemi che esso nei suoi limiti angusti non riesce a risolvere.

Altra obiezione a questo ragionamento, esorcizzato come astratto e addirittura alinguistico dai pensatori che dicevo, è che esso rappresenterebbe un abbaglio ideologico semplicemente e volgarmente rifratto dalla paura della morte e delle sofferenze che il suo verificarsi comporta (ed è pur vero che non solo al sentimento ma anche alla ragione di ciascuno ripugna d'immaginarsi in quel frangente che quasi si immagina inevitabile per gli altri ma probabilmente risparmiato a noi stessi).

Al semplicismo di tali obiettori vorrei contrapporre alcune riflessioni. In primo luogo non può eludersi, fuori dell'egoismo che può rassicurar ciascuno che la morte non riguarda lui morto, la domanda che nasce dall'osservazione obiettiva delle vicende naturali e sociali: è soverchiante la vita o la morte nel mondo? E di conseguenza: si nasce per vivere o si nasce per morire?

È ovvio che la questione non riguarda il cosmo o gli infiniti mondi nel loro complesso (pulsanti o in continua espansione che siano), così come il tempo e lo spazio sono nozioni relative a una certa dimensione, umana solo non vorrei dire, ma certamente terrestre. È evidente che l'universo o la somma degli universi non hanno tempo né luogo, o forse hanno tempi e luoghi immensamente più astratti dei nostri, quindi non hanno vicenda di vita e di morte (per lo meno nei termini nei quali noi la intendiamo) ma semplicemente eternamente e infinitamente sono; ma nel loro seno, nell'infinitesimo seno di un loro microscopico seno quella durata e estensione, e dunque quella vita e morte hanno una loro relativa realtà, e quindi dei loro relativi problemi. Ora ecco precisata la domanda: al livello degli individui terrestri che hanno coscienza per quanto oscura dell'esistere di altri mondi e durate e quindi anche della brevità della loro esistenza, è soverchiante la vita o la morte? La risposta non può essere dubbia (potrebbe esserlo solo per individui convinti che la loro condizione è assoluta e senza possibilità di confronto, cioè senza coscienza della morte): in quegli individui è soverchiante la morte. Essi appaiono un attimo privi di senso intrinseco e con funzionalità estrinseca di breve momento o qualcosaltro di misterioso e probabilmente insensato esso stesso ("qual è il senso del fiore?" dice Calvero alla suicida mancata "schiudersi e volgersi al sole; e quale il senso della pietra? Starsene chiusa e gravare; e il senso della vita? Viverla", ma sono solo belle parole, il mistero resta) poi spariscono nelle tenebre di altre mille alchimie naturali. In secondo luogo bisogna esaminare il rapporto fra morte e coscienza della morte nell'uomo. Anche gli animali "sentono" la morte con una sorta di preveggenza istintiva nella quale superano di gran lunga l'uomo, ma non giungono come lui a concepirne l'assurdo e il mistero. È vero, per l'uomo la morte non esiste dopo, esiste prima, nella vita, come coscienza e certezza sia pure elusa della fine, nel sentirsi vivere e insieme sapere che ogni attimo di vita è un passo verso la morte. Un barlume, un lampo, poi nulla. Altri barlumi, altri lampi, ma non più, mai più quelli.

Il rapporto fra vita e morte anche negli individui più longevi (risibile cosa in confronto non dico all'eterno, ma alla data di solidificazione di un magma) è in enorme sfavore della vita. Si nasce dunque per morire. La morte domina la sfera degli individui, e la coscienza di ciò si esprime come sconforto e timore, o come estrema indifferenza al vertice qualitativo di tale sfera, cioè al livello dell'uomo meditante. L'esistenza domina la sfera degli aggregati cosmici; ma da questa è probabilmente esclusa ogni coscienza, se è vero come forse è vero che l'universo è una sorta di preistoria fisica dell'intelletto pur così monco ed incerto. Sembra dunque evidente che la pura sfera fisica ha con sé l'esistenza e l'inconsapevolezza, e la sfera biologica, o animale, o psichica, o umana ha con sé la morte, il dolore, la coscienza del mistero e l'incapacità di risolverlo.

Le antinomie morte-esistenza, coscienza-incoscienza, dolore-indifferenza, e le equazioni coscienza-dolore-morte e incoscienza-indifferenza-esistenza proprie rispettivamente agli individui e al cosmo, potrebbero essere armonizzate unicamente nella nozione di dio, cioè di un ente che riproponesse al livello della totalità dell'universo o degli universi fisici immortali le dolorose e tuttavia superiori peculiarità degli individui mortali. Ma tale nozione antropomorfa sul piano propriamente speculativo ripropone in forma mitica l'aspirazione dell'uomo, creatura disarmonica e oscura ma consapevole di esserlo, a un'armonia e a una chiarezza che non può avere; e sul piano sentimentale e morale essa è semplicemente assurda: basta veder soffrire un animale, creatura cui quel dio non ha accordato né una protezione dalla perfidia dell'uomo né un'anima, o solo pensare che l'equilibrio biologico è garantito dallo sterminio degli esemplari eccedenti (ed è strano che i deisti anche su queste prove mostruose pongano le basi della provvidenza divina), per irridere a tutte le teorie del dio giusto e desumere, proprio dalla irrimediabile necessità di quei fatti, l'assoluta e brutale casualità della vita.

Il dramma dell'uomo affrancato dalle preoccupazioni pratiche, dalle ambizioni volgari e dalle banalità del senso comune, cioè dell'uomo cui con maggiore o minore coerenza tendono filosofie e concezioni politiche, è desiderare di risolvere i problemi centrali, quelli riguardanti il senso stesso della vita e della morte, e nello stesso tempo sapere con certezza che essi rimarranno per sempre insoluti.

Di qui la forza delle religioni, cioè la sublimazione dell'ignoranza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 105

Il fallimento dei filosofi, e più in generale degli intellettuali contemporanei, è dato dalla loro impotenza a fornire alle masse, o quanto meno a una élite di loro seguaci, una umana concezione e prospettiva di vita, cioè a rappresentare la loro coscienza. Per così dire essi che hanno per ufficio essere il cervello della società, hanno lasciato la società senza cervello, professori avviliti dall'intrigo accademico, mediocri arrivisti, filologi ed esegeti del pensiero altrui anziché pensatori in proprio e ricercatori di nuovi sistemi, che sembrava dovessero essere surrogati dalla scienza e invece la scienza stessa richiede per potervisi umanamente inquadrare.

Non si tratta qui ovviamente del confronto con i problemi più arretrati del mondo moderno, quelli che questo mondo collegano con un passato purtroppo ancor vivo, il colonialismo il razzismo l'ingiustizia sociale la corruzione pubblica (nessuno contesterà, credo, il carattere anche filosofico di questi fenomeni civili): la risposta a questi problemi è in generale abbastanza chiara, e v'è un numero sufficiente di persone disposte a impegnarsi per risolutamente affermarla. Si tratta bensì dei problemi della nostra civiltà nei suoi punti più avanzati, cioè nei luoghi e nei momenti in cui quelle sopravvivenze siano state in gran parte eliminate e gli elementi di crisi si prospettino a un superiore livello.

Comprendo bene che tali problemi, riguardanti non più la conquista dell'indipendenza, della giustizia, della libertà intellettuale e morale, ma più precisamente il contenuto storico e il senso attuale di esse, possano a prima vista sembrare astratti in una realtà come la nostra in cui antico e moderno, barbarie e progresso sono così profondamente intrecciati da mettere continuamente in primo piano l'impegno operativo rispetto a quello teorico; ma tuttavia credo ugualmente che la loro soluzione, cioè il loro mutarsi in prospettiva, o almeno la loro formulazione in termini di perentoria chiarezza, costituisca il mezzo più efficace, per non dire necessario, per risolvere anche i problemi più arretrati, quelli che la perplessità sul senso stesso del progresso rischia di prolungare per la neutralità o l'apatia di certuni. Insomma tra oppresso e oppressore, tra affamato e affamatore è relativamente facile la scelta; e certo la scelta deve essere fatta. Ma forse pensando alla sorte dell'uomo libero e dell'uomo sazio, e più propriamente ai contenuti ideali della sua libertà e della sua vita, si avrebbero nuove armi, e nuovi alleati, nella lotta contro l'oppressione e la fame. Prefigurare nei suoi valori un mondo libero dai paras accelererebbe la scomparsa dei paras, se è vero come affermano i medici che per tornare in buona salute è necessario non solo guarire dalla malattia ma anche desiderare di vivere.

Del resto, compito più appropriato all'uomo, e soprattutto all'uomo pensante, è vivere nel presente senza spezzare i legami con il passato e nello stesso tempo guardando al futuro. Ma dei tre termini l'ultimo è l'essenziale, la necessità del progetto, distinto dall'utopia perché le sue premesse sono già nel presente, sia pure in forma embrionale: solo chi guarda a un futuro siffatto può conservare ciò che è davvero valido del passato, cioè vivere pienamente nel presente.


Vi sono varie questioni, alcune antiche e permanenti ma proposte in termini nuovi da recenti èsiti della ricerca, altre strettamente legate alla realtà del nostro tempo:

a) Se la razionalità umana, non solo come logica formale ma come norma e sostanza di vita, abbia trovato le sue premesse e una conferma nelle leggi di natura sempre più a fondo scandagliate dalla scienza (perché nessuno, spero, vorrà prendere sul serio l'idea che l'uomo sia il dominatore della natura e non un suo discreto prodotto); o se essa non sia piuttosto un'utopia, un puro simbolo sentimentale e fantastico che con quelle leggi imperturbabili contrasti: riduzione a misura d'uomo, ideologica e per ciò stesso essenzialmente falsata, d'una realtà fisica che di tanto la trascende, ribellione all'irrazionalità dei pur logici processi di natura, che tuttavia tornano sempre ineluttabilmente a riproporsi, come foia egoismo violenza, alle radici della coscienza dell'uomo (ad esempio: può l'individuo messo al mondo senza sua volontà, vivere poi secondo volontà? Cioè, se la fonte stessa della vita è involontaria, come può essere volontario il suo decorso?).

b) Se l'uomo possa vivere senza ideologia, cioè senza "falsa coscienza" o senza "coscienza parziale", e se la demistificazione d'ogni ideologia, dovunque in atto nel pensiero moderno, e la consapevolezza del relativo tratto dalla sfera dei mondi giú in quella degli individui, non sia in realtà una nuova forma d'ideologia, l'ideologia dei disincanto egoista e dell'assenza di persuasioni fondate. Se dunque tale processo di pensiero non si risolva in realtà in un'impasse, che ha come dilemma l'illusione d'un nuovo nodo assoluto, cioè d'una falsa coscienza incosciente di sé e della propria natura di visuale angolata, o l'angoscia della coscienza perplessa che si oblia nei piaceri animali.

c) Se sia possibile la libertà stessa in una società in cui l'ipotesi (o il sottoprodotto) culturale si trasforma subito in pragma per la vastità potenza capillarità dei mezzi d'irradiazione, senza fasi intermedie di riflessione, senza margini di contestazione o di scelta che non siano quelli del rifiuto schizoide, e persino senza facoltà d'ignoranza da parte dell'individuo investito. Se dunque l'omogeneità culturale in tal modo ottenuta non debba essere considerata un supporto della schiavitù, e se non occorra quindi riesaminare tutti i problemi della comunicazione di massa, fino al limite della confutazione totale.

d) Di conseguenza, se non sia necessario procedere a un riesame anche semantico di alcune espressioni quali ad esempio "progresso tecnico" "democrazia" "parlamentarismo", per vedere se la loro vulgata, anche ove appaia in un contesto programmaticamente innovatore, non sia fortemente preclusiva di concetti rivali o collaterali comunque degni di nota, e quindi se essa non finisca per risolversi in una trappola logica, in un'operazione ideologica conformista, e in quanto tale sostanzialmente reazionaria nonostante le buone intenzioni.

e) Quali siano le sedi e il limite dei punti d'incontro (istituzionali) fra elementare coscienza di base ed evoluta coscienza di vertice in ogni forma di progettazione e di esercizio del potere; cioè, al di fuori della demagogia di partito e anche della nozione di classe (perché anzi il problema riguarda soprattutto le società senza classi), come s'intenda la democrazia moderna, tendenzialmente o praticamente socialista, coi suoi problemi di libertà e direzione.

f) Come si concili la dominante tendenza moderna alla concezione amministrativo-burocratica dello Stato con la necessità di scelte rivoluzionarie di fondo, cioè dell'impegno etico-politico anche a quel livello.

g) Quale sia la funzione dell'uomo liberato dalle sue esigenze brute, il cibo la dimora l'assistenza l'allevamento della prole, cioè uscito dalla sua preistoria e posto di fronte, senza più diversivi, all'impiego del suo pensiero e della sua vita. In cosa consista tale funzione, al di fuori delle frasi generiche (quali "nuovo umanesimo" "attività culturali" "ricchezza spirituale") di cui abbondano gli scritti dei pensatori di cui dicevo.


Su tali questioni per lo più i filosofi tacciono, e quel che è peggio tace la società nel suo complesso, resa come ottusa da tale silenzio, e tacciono gli intellettuali, e i partiti tendono a confondersi, molti ormai divisi fra loro solo sui tempi e sui dosaggi, e la classe politica a inaridirsi, esperta solo di tecniche del potere, lontana come non mai, forse, dalla inquietudine della cultura e del grande disegno ideale.

| << |  <  |