Copertina
Autore Elias Canetti
Titolo Party sotto le bombe
SottotitoloGli anni inglesi
EdizioneAdelphi, Milano, 2005, Biblioteca 484 , pag. 254, cop.fle., dim. 140x220x18 mm , Isbn 978-88-459-2018-9
OriginaleParty im Blitz, Die englischen Jahre
EdizioneCarl Hanser Verlag, Mόnchen, 2003
PrefazioneJeremy Adler
TraduttoreAda Vigliani
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe biografie , narrativa tedesca , narrativa bulgara
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Indice

Dall'Inghilterra                             13
Nessuno in Inghilterra ovvero
    Il silenzio dello spregio                25
Amersham                                     37
«Durries», in Stubbs Wood a Chesham Bois     44
Lo spazzino                                  60
Herbert Read                                 64
Vizi e virtù dei party inglesi               67
Hampstead: raduno di poeti                   69
Kathleen Raine                               73
Aymer e sua madre                            78
Visita a Mochrum                             80
Lord David Stewart                           84
Mrs Phillimore. Bertrand Russell             89
Arthur Waley                                103
Diana Spearman                              111
Enoch Powell                                115
Veronica Wedgwood                           119
Desolazione ai party                        121
Franz Steiner                               123
Downshire Hill                              131
J.D. Bernal                                 135
Geoffrey Pike                               138
Freddie Uhlman                              142
Ce poids! Ce poids!                         147
Henry Moore e Roland Penrose. Party sotto
    le bombe. La battaglia d'Inghilterra.
    Hampstead Heath                         149
Hampstead Church Row. Il cimitero           151
Party dai Penrose. I vigili del fuoco       154
«The Freemasons Arms». Friedl               157
La generosità di Friedl. La camicetta.
    Henri Smith                             159
Oskar Kokoschka                             161
Iris Murdoch                                168
Vaughan Williams                            184
Aymer                                       188
L'Inghilterra, un'isola                     193
Velocità                                    196
Le varianti della superbia                  198

Postfazione di Jeremy Adler                 203
Nota del curatore                           231
Note                                        235
Indice dei nomi e delle opere               243

 

 

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Pagina 13

DALL'INGHILTERRA



Parlare dell'Inghilterra suscita in me sentimenti contrastanti, si è trattato di una vita intera, inserita fra un prima e un dopo, ma in fondo già completa.

Devo riflettere, una volta superato il caos, su cosa si possa ricavare da quell'ordine apparente. E che ordine! C'era quasi da credere che sarebbe durato in eterno. La guerra era appena stata vinta – la vittoria festeggiata con i fuochi allo Heath –, e già tutto cominciava a disgregarsi. Per qualche tempo ancora la gente si attenne all'ordine imposto dalla guerra. Molti prodotti erano razionati, ma lo si sopportava con disciplina. Brontolare, in questo paese, non è mai pericoloso – così almeno pareva. Deve esserlo stato un tempo, allorché deflagrarono le controversie bibliche nel lontano XVII secolo. Non riesco, non sono mai riuscito a credere che quell'epoca sia davvero esistita. L'immagine che ne ho è di una storia assai turbolenta, costellata di racconti meravigliosi. Un linguaggio, ancora improntato alla traduzione della Bibbia o al grande dramma. Fino a che punto era davvero una, l'Inghilterra di quei tempi? La Scozia era ancora Scozia, e l'Irlanda conquistata solo in apparenza. Ma gli inglesi correvano già per tutti i mari, depredavano gli spagnoli, attaccavano gli olandesi e, a un anno dalla fine della guerra dei Trent'anni, tagliarono la testa al loro re. Quali rapporti esistevano fra tutte queste cose? La guerra si era forse spostata sull'Isola, dopo essersi finalmente conclusa sul Continente?

Penso ai grandi poeti che, a cominciare da Shakespeare, conobbero il XVII secolo: a Ben Jonson, John Donne, Milton, Dryden e al giovane Swift. Che prosa nel primo cinquantennio! Burton, Sir Thomas Browne, John Aubrey: di costoro non avrò mai letto abbastanza. Bunyan, George Fox, Hobbes, quest'ultimo, già da solo, incommensurabile. Che penuria, al confronto, in Germania! La Spagna è un po' più ricca, la Francia ha un buon livello, ma la letteratura più grande nel Seicento è l'inglese.

Anche nel secolo successivo la sua supremazia è incontrastata. E così pure nell'Ottocento. Che cosa non è mai accaduto, invece, in questo nostro secolo! Ho vissuto in Inghilterra negli anni in cui il suo spirito è andato disgregandosi. Sono stato testimone della fama di un Eliot. Qualcuno proverà mai vergogna a sufficienza per avergliela tributata? Un americano si porta appresso da Parigi un autore francese scomparso in giovane età (Laforgue), trasfonde in lui il suo disgusto per la vita, vive davvero da impiegato di banca qual è e, mentre soppesa con il bilancino e sminuisce tutto ciò che - venuto prima di lui - ha un respiro più ampio del suo, accetta doni dal suo compatriota, da quello scialacquatore che ha la grandiosità e la tensione di un folle - e alla fine cosa ne viene fuori? Un uomo che trasmette all'intera nazione la sua impotenza, che si piega a qualsiasi ordinamento, purché sia abbastanza vecchio, che cerca di tarpare il volo altrui: un libertino del nulla, un galoppino di Hegel, uno stupratore di Dante - in quale girone dell'inferno lo avrebbe rinchiuso quest'ultimo? —, labbra sottili, cuore gelido, precocemente invecchiato, indegno di Blake, così come di Goethe e di qualsiasi eruzione lavica, già freddo prima ancora di essere caldo; né gatto né uccello né rospo e meno che mai talpa, un bigotto spedito in Inghilterra (un po' come se io me ne fossi ritornato in Spagna), con aculei critici al posto dei denti, tormentato da una moglie ninfomane - la sua unica attenuante -, così tormentato che, se avesse avuto il coraggio di leggere Auto da fé, ci si sarebbe ritrovato in pieno, maniere da salotto a Bloomsbury, invitato e ben accetto dalla nobile Virginia, dopo essere riuscito a mettersi al riparo da tutti quelli che gli avevano rivolto le loro giuste critiche per ricevere, infine, un premio che né Virginia, né Pound, né Dylan - né chiunque altro lo meritasse, tranne Yeats - riuscì mai a ottenere.

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Pagina 32

Prossimità e distanza degli inglesi.

Mantenere le distanze è somma prassi degli inglesi. Non si avvicinano mai a qualcuno. Non vogliono, non si concedono di avvicinarsi a qualcuno. Per proteggersi, l'individuo si avvolge nel ghiaccio. Fuori è tutto un gioco di rimpallo. Dentro si gela.

La vita sociale è fatta di vani tentativi d'avvicinamento. Tanto più incerti, quanto più coraggiosa è la persona. E tale lo è davvero, perché sa di essere profondamente sola.

In effetti l'inglese si ritrae spaventato di fronte al nuovo venuto: da parte di costui si attende il peggio, che sia ad esempio intenzionato ad annullare le distanze. Anche se ha un'aria riservata, la gente non si fida e lo tiene alla larga con prudente cortesia. La domanda tacita, ma inquisitoria, con cui lo mettono sul bilancino è: «Quanto sta in alto? Quanto in basso?», ed è di importanza vitale e al tempo stesso spietata.

Secondo gli inglesi autocontrollo e calma sono gli unici mezzi legittimi per far fronte alla vita. Ciò che si raggiunge per altre vie deve procedere su vasta, assai vasta scala e al di fuori di ogni regola per ottenere riconoscimento. Il masnadiero è una figura temuta, ma popolare sin dall'infanzia. Quasi sempre si trova un qualche nobile motivo a sua giustificazione. Persino quando finisce sul patibolo, gode di grande favore. E importantissimo è il ruolo che svolge il patibolo nella storia della società inglese. Swift, nel diario epistolare dedicato a Stella, ne parla in termini indimenticabilmente perentori: «and swing he shall!» è scritto in una di queste lettere, in cui riferisce a ogni piè sospinto della crescente influenza che egli va ormai esercitando sul ministro. Il caso in questione non è del tutto chiaro, si tratta anzi di una vicenda che in seguito sarebbe stato ben difficile catalogare come reato di natura sessuale – per noi una trasgressione ridicola, per lui un tantino oscena, ma sollazzevole: «and swing he shall!» scrive alla fine divertito. Il piacere che si provava allora nel veder penzolare gli impiccati è paragonabile solo a quello che ci procurano oggi le contorsioni dei Beatles.

Era la dimensione spettacolare ciò che contava. Ma i casi modesti – il tizio che aveva rubato una pagnotta e l'altro magari dei calzini – non suscitavano grande entusiasmo: doveva trattarsi di un vero brigante, che avesse un bell'assortimento di vite spezzate sulla coscienza. L'essenziale era che, per rapinare, avesse ucciso con le sue stesse mani.

La protezione della persona, il saldo steccato che la cinge, non è questione priva di insidie. Quanta di quella distanza è rimasta nella vita inglese?

Posso stabilire un confronto soltanto fra il periodo bellico e il dopoguerra. Durante il conflitto quella volontà intesa a mantenere le distanze cedette, si stava più vicini, in treno si giungeva al punto – come definirlo, se non un miracolo! – di rivolgere la parola persino agli sconosciuti. I convenevoli sul tempo continuavano naturalmente a essere di gran lunga i più diffusi, e tuttavia capitava che alle considerazioni meteorologiche venisse ad aggiungersi qualcos'altro.

Più di tutto mi ha colpito il tragico periodo in cui l'Inghilterra, sola, teneva testa al nemico e le navi da guerra venivano affondate. Θ indubbio che al piano superiore di un autobus londinese si avvertisse un impalpabile sussulto quando giungeva la notizia di un affondamento. Molte bocche si aprivano e, pur non proferendo parola, non si chiudevano subito: restavano aperte per un istante, o poco meno. A volte ne uscivano anche delle frasi. Coraggiose, sprezzanti del pericolo. Mai, neanche una volta, mi capitò di intendere un moto di paura e men che meno un lamento. Quanto più la situazione era grave, tanto più la gente appariva risoluta. Forse erano in pochi a conoscere l'eccezionalità del pericolo. Ma nessuno lo prendeva con leggerezza, nessuno faceva finta di non vedere. Tutti erano pienamente consapevoli di quanto, in quei momenti, fossero asimmetriche le forze in campo. Al nemico si indirizzavano espressioni quasi tenere, quelle dei diminutivi: «little old...». Ciò non significava altro se non che si era consapevoli della sua esistenza, che si aveva familiarità con lui, che se ne conoscevano da tempo gli scherzi. Un nemico non era semplicemente un nemico: di lui bisognava anche prendere atto. C'era una sorta di riconoscimento del nemico, che solo così, una volta per tutte, diventava tale.

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Pagina 60

LO SPAZZINO



A Chesham Bois, in campagna dove vivevamo noi, lo spazzino - un uomo anziano, robusto, con una chierica tonda e rossa, incorniciata da capelli bianchi - aveva l'aspetto di un apostolo dipinto di fresco. Pareva uscito da un quadro, già visto mille volte, ma senza che lui sembrasse per questo un viso noto. Lo incontravamo sempre al solito incrocio, dove una strada pedonale si diramava dalla Chestnut Lane in direzione di Stubbs Wood. Usava la ramazza con tutta calma, come se di tempo ne avesse a iosa, e a quell'attrezzo si appoggiava, quando faceva una pausa, e teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Squadrava chiunque gli venisse incontro per la strada, ma soltanto ad alcuni rivolgeva un saluto. Con pochissimi poi si metteva a chiacchierare. Era lui che attaccava discorso: doverlo fare noi per primi ci sarebbe sembrato sconveniente perché, essendo lui uno spazzino, poteva avvertirvi come una sorta di condiscendenza. Ma quest'ultima - per l'appunto - era davvero impossibile nei confronti di un uomo che si sarebbe detto l'incarnazione di un apostolo. Personaggi del genere fanno talvolta da modello ai pittori, ma in quel caso sarebbe parso fuori luogo anche solo pensarla, una cosa simile. All'angolo della Chestnut Lane sorgeva un emporio, e per quanto allora, in tempo di guerra, ci fosse ben poco da comprare, arrivava sempre gente a ritirare la propria razione quotidiana. Per una località così piccola, gli incontri erano numerosi e, data la presenza del negozio, più frequenti che a qualsiasi altro incrocio.

Lo spazzino osservava bene chiunque sopraggiungesse: lui conosceva tutti. Da quelle parti era l'uomo di maggior esperienza, e non solo per via della sua età. Aveva un modo intenso di guardare, né si faceva scrupolo di tenere lo sguardo fisso su qualcuno, molto e molto a lungo. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di pensare si trattasse di curiosità. E invece, a modo suo, curioso lo era. Così, la prima volta che uscii dal negozio, ebbi la netta percezione del suo sguardo fisso su di me. Me lo sentii sulla schiena per tutto il tempo necessario a percorrere il marciapiede fino all'angolo. Che cosa mai vedeva, quando seguiva qualcuno con lo sguardo? Che lo squadrasse sembrava altrettanto naturale quanto la candida corona di capelli sulla sua testa. Ma poi seguiva, il più a lungo possibile, anche i movimenti della persona da lui fissata in volto. La sua presenza mi dava un costante senso di benessere. All'inizio pensavo dipendesse dal fatto che veniva da un mondo diverso, nel quale non si parlava mai di guerra. Ma mi sbagliavo in pieno. Infatti, dopo che già da un pezzo, conoscendolo di vista, mi struggevo - non saprei davvero quale altro verbo impiegare - dal desiderio di intrattenermi con lui, dopo che già parecchie volte gli ero passato davanti e non avevo mai osato attaccare discorso, il momento tanto atteso giunse nel modo più naturale e tuttavia affatto imprevedibile. Mi chiese se quella mattina avessi ascoltato il notiziario alla radio: voleva sapere la mia opinione. Parlava adagio, con frasi perfettamente articolate, facendo uso di un linguaggio che, in altre circostanze, avrei definito biblico. Ci soffermammo su argomenti di attualità: bombardieri, carri armati, navi da guerra. Era ben informato e sapeva più di quanto si potesse ricavare dal semplice ascolto dei notiziari. Più che con qualsiasi gesto di cortesia lo spazzino mi onorò con la sua domanda, perché con tale domanda sperava di apprendere qualcosa di me. Sapevo che di solito parlava d'altro: dei nipoti e dei bambini che erano stati trasferiti in campagna, delle notti tranquille, del taglio della faggeta lì vicino. Di me non poteva sapere nulla, giacché, tranne Mr e Mrs Milburn, in paese nessuno mi conosceva. Quel giorno mi disse in faccia: «So che lei legge. C'è qualcosa che non capisco», e poi arrivarono le sue domande. Molte erano così acute da lasciarmi senza risposta. Ma il mio silenzio non lo sconcertò, sentivo anzi che per questo gli stavo diventando simpatico. Fu la conversazione più trasparente che io abbia mai condotto in quel luogo dove ho abitato per alcuni anni. Ed essa si ripeté. Tutte le volte che passavo nei paraggi, lui mi salutava con estrema cordialità. Il nostro colloquio riprendeva, come se nel frattempo avessimo pensato a quanto ci eravamo detti la volta precedente e desiderassimo aggiungervi un particolare, un'osservazione. Dal suo modo di esprimersi si poteva dedurre che leggeva con assiduità la Bibbia, opera tradotta infatti in uno splendido inglese. Tuttavia non la citava mai, pur lasciando capire di aver letto il diario di George Fox, fondatore - nel XVII secolo - della comunità dei quaccheri. Conosceva anche altri libri di quell'epoca, la più movimentata nella storia dell'Inghilterra, epoca durante la quale erano sorte le principali sette. Non si trattava di una conversazione erudita, per questo - purtroppo - c'era già Mr Milburn. Avrà avuto un'ottantina d'anni, ma era gagliardo come un uomo di cinquanta. Di spirito poi era ancora più giovane, fermo a quell'età dei perché che per lui non sarebbe mai finita. Non parlava a lungo e soleva interrompere la conversazione all'improvviso, come se volesse riflettere ancora su qualche punto prima di continuare. A ogni successivo incontro non si ricollegava in modo pedissequo a quanto detto la volta precedente, pur lasciando capire che si ricordava di tutto, perfino del più piccolo dettaglio. Non vi era nulla di ridondante in quelle conversazioni. Né vi era alcunché di convenzionale, come invece è oggi consuetudine. Lo si capiva già dal fatto che mai si mise a parlare del tempo, anche se non gliene sarebbe di certo mancata l'occasione. Una volta lo vidi fermarsi esitante sotto un violento scroscio di pioggia. Io provavo un certo imbarazzo a offrire il mio ombrello a lui - che pure era un uomo tanto più vecchio di me -, e quando alla fine mi decisi e mi avviai nella sua direzione, egli si mise subito sotto, sicché nonostante la pioggia nemmeno allora sprecammo qualche parola sul tempo.

Nel corso di alcuni anni conobbi molte persone che vivevano da quelle parti. Lui era l'unico per il quale provassi vero affetto. Un giorno, quando si venne a sapere dell'orrore supremo - questa volta in ogni dettaglio e senza ombra di dubbio -, lo spazzino mosse due passi verso di me, cosa che non aveva mai fatto prima, e disse: «Mi spiace per quanto sta accadendo adesso alla sua gente», «your people», disse e aggiunse: «Θ anche la mia gente».

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Pagina 67

VIZI E VIRTΩ DEI PARTY INGLESI



Sui party inglesi ci sarebbe da scrivere un libro. Io non sono mai riuscito a farci l'abitudine. Mi sembrano privi in eguale misura di senso e di cuore, congeniali alla freddezza di questa gente. Avvicinarsi troppo al prossimo non era consentito. Appena una conversazione prendeva l'abbrivio – cosa che già di per sé non avveniva tanto facilmente –, bisognava tagliar corto e rivolgere la parola a qualcun altro. Parlare troppo a lungo con una sola persona era tabù, veniva ritenuto selfish, egoista. Si era per accostarsi rapidamente a qualcuno e, soprattutto, per fare altrettanto rapidamente marcia indietro. A volte non sapevi nemmeno con chi ti eri intrattenuto. Questo era, per così dire, il caso ideale in quelle feste senza alcun contatto.

Probabilmente esistono persone che ritengono esemplari i party inglesi, propedeutici alla tolleranza e a una mentalità rispettosa. Io non appartengo al novero di costoro, e non mi sono mai sentito così infelice come nel corso di tali serate. A contraddistinguerle è la presenza di molte persone - tutte insieme - in uno spazio piuttosto ristretto, persone che devono quasi accalcarsi e nondimeno riuscire a farsi largo, in modo da non sfiorarsi nemmeno. L'abilità consiste nello stare vicinissimi agli altri, senza tradire alcunché di rilevante in merito a se stessi. Nulla, in tali circostanze, deve richiamare l'attenzione. Sei un invitato in mezzo a tanti altri. E chi non è una persona qualunque, deve nasconderlo gelosamente. Il massimo dell'abilità consiste nel non rivelare nemmeno il proprio nome. Durante le presentazioni viene pronunciato il più indistintamente possibile. Tanto più gravoso, quindi, è il peso di un nome importante, che gli altri - senza farne mostra - comunque finiscono per scoprire. Chi è privo di un ubi consistam e non proviene dunque da nessuna parte - da nessuna parte in Inghilterra, voglio dire - non esiste; in compenso lo si tratta con somma cortesia, una cortesia tanto più squisita quanto più grande è il vuoto che si sospetta egli abbia alle spalle.

Ciò che vado tratteggiando in queste righe non riguarda i ricevimenti cui partecipano esclusivamente persone attive nel mondo accademico. In virtù della loro occupazione, ad esse è già accordato il privilegio della curiosità: la curiosità di cui è opportuno far mostra per l'ambito specialistico dell'interlocutore. Un uomo capace di passare da un erudito all'altro e di ascoltarne i vari sfoghi - così come gradirebbe che gli altri facessero con lui - diventerà giocoforza uno scrittore e acquisterà un certo qual prestigio.

Casi del genere, tipici di Oxford e Cambridge e tali da rivelarsi davvero interessanti, sono casi particolari, sicché in questo contesto è meglio non prenderli in considerazione.

Il party inglese muove dal presupposto che gli uomini appartengano sì a caste di differenti livelli ma che, ogni tanto, per ravvivare un certo ambiente sia opportuno ammettere anche individui i quali non rientrano nella medesima casta. A chi è di una casta inferiore non verrà mai fatta pesare la sua origine. Fintantoché, per aver partecipato a un ricevimento, costui non ne deduca affrettate conseguenze. Non dovrà farsi bello dei nomi altrui, e alle persone che avrà conosciuto in tale circostanza sarà risparmiato qualsiasi ulteriore contatto con lui.

Θ consentito sì fare domande - ma con prudenza -, purché si eviti qualsiasi forma di indiscrezione. Nel domandare, poi, non bisogna essere troppo insistenti né andare troppo per le lunghe; il che implica la perfetta conoscenza di quello strumento di potere che è la domanda. Individui che, sentendosi chiedere quale sia il loro lavoro, si dilungano a parlarne sono bollati come stranieri e, quand'anche abbiano grandi meriti, in società suscitano solo scherno.

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Pagina 135

J.D. BERNAL



La figura che si poteva incontrare con maggior regolarità era J.D. Bernal, il fisico; un uomo che, per preparazione scientifica, conoscenze universali e convinzioni politiche, stupiva il mondo intero. Veniva considerato uno di quegli scienziati che, a detta di tutti, meritavano il premio Nobel e che, se ancora non l'avevano ottenuto, era stato solo per una qualche circostanza casuale. Ogni cosa lo interessava, non soltanto il suo ambito specialistico o le altre discipline scientifiche. Era fellow della Royal Society, l'associazione scientifica più antica del mondo e ancor sempre la più prestigiosa. La Royal Society contava solo due membri appartenenti al piccolo partito comunista inglese. Lui era uno di loro e, oltre a tutto il resto, aveva studiato a fondo anche Marx. Irriducibile in queste sue convinzioni, non era però asservito come la maggior parte degli scienziati sovietici e non si sentiva, al pari di costoro, obbligato o addirittura disposto ad abbracciare l'opinione ufficiale. Restava di ampie vedute e manteneva intatta, in ogni campo, la sua sete di sapere. Non rifuggiva mai la discussione. Era sempre disponibile con chiunque incontrasse in quella casa. Non solo spiegava gli argomenti più complessi con quella chiarezza pedagogica che contraddistingue gli uomini di scienza inglesi, ma rispondeva anche pazientemente alle domande, senza mai perdere la calma o andare in collera, nemmeno quando aveva a che fare con degli stupidi. Ciò che più mi sorprendeva in lui era la completa assenza di superbia, qualcosa di talmente raro persino fra gli intellettuali inglesi – pur così tolleranti –, che sulle prime mi sembrava impossibile, sicché lo mettevo di continuo alla prova. Una volta ebbi con lui una conversazione sui simboli di massa, anzi addirittura sui simboli di massa della nazione. Nulla poteva essere più in antitesi con il suo modo di vedere, fondato criticamente sulla sperimentazione o sulla matematica. Mi ascoltava tranquillo e senza il minimo accenno di noia. Per lui io non ero un signor Nessuno, un esule qualsiasi arrivato da Vienna, al quale magari – viste le sue origini – si poteva concedere una sorta di diritto alle speculazioni psicologiche, benché non avesse nulla in comune con Freud, anzi spesso sostenesse addirittura l'opposto. Proprio Freud però, del quale Bernal conosceva bene libri e teorie (quasi altrettanto bene quanto le opere di Marx), godeva della massima considerazione in Inghilterra. Che cosa avevo da opporgli io? Non un solo libro di psicologia, bensì un romanzo, e anche questo non ancora tradotto (eravamo in tempo di guerra e la versione inglese di Auto da fé sarebbe apparsa solo nel 1946), eppure lui mi stette ad ascoltare, mi pose domande intelligenti, critiche ma costruttive; per comprendere meglio il mio pensiero stabilì dei paralleli con questa o quella concezione altrui e, pur non accettando nemmeno uno iota di ciò che gli proponevo io, non mi fece mai mancare il suo rispetto. Dopo quella conversazione, che era durata comunque un'ora e mezzo, non mi ritrovai umiliato, bensì con un gran numero di domande da rivolgere a me stesso. Era sicuramente solo un'avvisaglia del futuro scontro, in quanto le mie idee andavano proprio allora formandosi, ma quello scambio di battute non aveva chiuso nessuna strada, anzi era stato fecondo di sollecitazioni. Agli altri diceva di me, quasi con rispetto: «Θ ancora più pazzo del tal dei tali», dando così del pazzo a un altro «spirito speculativo» – per lui, insomma, un tipo di pensiero che muovesse da presupposti completamente diversi dai suoi era ammissibile. Provava curiosità per ogni stimolo intellettuale nato da vera convinzione, e se qualcuno si scagliava impietoso contro le idee altrui, Bernal, attingendo alla storia della scienza, raccontava teorie astruse che, seppur nate da grandi spiriti come Keplero o Newton, oggigiorno verrebbero considerate aberrazioni. E in questo modo attaccava di proposito la sterile arroganza di certe figure che si erano sempre attenute alla più rigorosa ortodossia senza mai produrre il benché minimo risultato.

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Pagina 168

IRIS MURDOCH



Ieri il voluminoso trattato filosofico di Iris Murdoch, il nome di lei in copertina a caratteri cubitali. Ho passato qualche ora immerso nella sua lettura, purtroppo. La mia avversione nei confronti di questa persona è cresciuta a tal punto che dovrò spiegarne le ragioni.

Il suo libro è molto mal scritto, sciatto come un corso di lezioni che non sia stato riveduto a sufficienza. Il tono è accademico nel senso deteriore del termine. E non sarebbe poi così grave, se l'autrice avesse qualcosa da dire, ma in realtà non fa altro che citare a man bassa Wittgenstein, riportandone passaggi e asserti, in quel modo servile che caratterizza – soprattutto a Oxford – il culto di Wittgenstein. E a ciò viene ad aggiungersi adesso il nuovo culto degli ultimi decenni: Derrida. Il primo della serie fu Sartre, al quale lei aveva dedicato un libriccino, la sua opera d'esordio. Freud, naturalmente, è immancabile, ormai è l'oggetto cultuale del secolo. Poi è venuto il turno di Heidegger, che a suo tempo aveva preso in lei il posto di Hegel. Del marxismo, invece, parla come di un fenomeno remoto, non proprio senza riguardi, ma con pochissima partecipazione. Non c'è nulla – credo – che mi lasci più indifferente dello spirito di questa donna. Θ una discepola appassionata, una di quelle che più di tutto amano imparare i sistemi. Sembra riconoscersi nel loro carattere coercitivo. Ed ecco, adesso è l'insegnante che spiega tali sistemi. A questo scopo deve evitare di falsarli. Dunque riferisce tutto fin nei minimi dettagli, nulla risulta falsato mentre lei ne parla; nella speculazione è una scrittrice, niente di meno, e ciò a beneficio del successivo sistema che lei adotterà di nuovo alla lettera e custodirà come una sorta d'oggetto di insegnamento. Ha settant'anni suonati, sicché dispone ormai d'una bella riserva di sistemi. Tutto è passato al vaglio della morale, e lei difende con vera passione – se è lecito impiegare questo termine per una scienza raccogliticcia del genere – la morale tradizionale.

Ma Iris Murdoch ha ben altro ancora da difendere: i suoi ventiquattro romanzi. La materia prima è costituita dalle ciance di Oxford, che lei ha collezionato nel corso di decenni, anzi ormai si può parlare di mezzo secolo. I suoi personaggi sono stati tutti concepiti e messi al mondo a Oxford. Ciò significa notevole cultura - una cultura, comunque, che per lei si è sempre incarnata in una serie di volti. Si innamorò di un'infinità di uomini (per tacere delle molte donne), ma erano uomini fuori dal comune, ciascuno di loro un'autorità nella propria disciplina; disciplina in cui lei voleva a ogni costo mettere il becco. C'era di tutto: un teologo, un economista, uno storico dell'antichità, un critico letterario, un antropologo, anche un filosofo e uno scrittore.

Sulla relazione che ebbe con lo scrittore, trattandosi di me, sono particolarmente ben informato.

[...]

Platone è il nucleo originario delle sue citazioni. Il perché è chiaro, il pensiero del filosofo si articola in dialoghi, l'aria stessa che lei respira. Anche Platone è diventato uno dei suoi modelli. Negli ultimi anni ella ha scritto dialoghi platonici.

Si potrebbe definire Iris Murdoch il ragù alla Oxford. Tutto ciò che detesto nella vita inglese ha messo radici in lei. Θ facile immaginarsela mentre parla ininterrottamente ai suoi allievi, in qualità di tutor, e mentre altrettanto ininterrottamente ascolta: al pub, a letto, conversando con amanti di ambo i sessi.

Non accoglie nulla interamente, non rifiuta nulla interamente; nell'insieme tutto resta sempre in uno stato di incompiutezza rassicurante e sopportabile (tolerable, si direbbe in inglese).

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