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| << | < | > | >> |Indice1956. L'anno spartiacque Sguardo retrospettivo 9 1 Come cominciò 11 2 Antefatto 19 3 Incomincia il dopo Stalin 27 4 «Non allineati» 35 5 L'Egitto nasseriano. Prodromi del XX congresso 42 6 Si apre il XX congresso 49 7 Il rapporto ufficiale 57 8 Le risoluzioni finali 64 9 Il rapporto segreto 72 10 Come il rapporto segreto giunse in Occidente 79 11 Gli effetti del rapporto segreto 86 12 Togliatti e l'intervista a «Nuovi Argomenti» 94 13 Scacco all'Islanda, i «sofismi» di Ulbricht 101 14 Il ritorno di Gomulka 109 15 Nasser e il canale 117 16 Dalla «sindrome di Stalingrado» alla rivolta ungherese 125 17 La rivoluzione ungherese 133 18 Suez e Budapest 140 19 Le conseguenze dei due conflitti 147 20 Epilogo non lieto 155 Appendice Come fu deciso l'intervento di Veljko Mičunovič 163 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Sul 1956 è stato detto di tutto e ancor più lo sarà, a causa dell'anniversario. Resteranno in ombra le «macchie», pur ben visibili, riscontrabili nel fronte dei rivoltosi ungheresi (antisemitismo, recupero dell'ultradestra agraria rappresentata dal cardinale Mindszenty che speriamo non venga beatificato per l'occasione). D'altra parte i recenti cinque anni di guerra civile siriana ci hanno insegnato che sdilinquire per i «ribelli» può rivelarsi una gigantesca cantonata. Non ci soffermeremo perciò su quel che sarà appannaggio della retorica dominante, effetto scontato dell'esito, rovinoso per il «socialismo reale», della Guerra Fredda. Un dettaglio storico invece val la pena di mettere in luce, emerso ben dopo i fatti: la proposta di Guy Mollet al governo conservatore inglese, allora diretto da Anthony Eden, di riunificazione politico-statale Francia-Inghilterra, sotto la corona britannica. Lo rivelò la BBC sulla base di documenti degli Archivi nazionali di Londra, da poco declassificati («Corriere della Sera», 7 febbraio 2007). Dunque, pur di vincere una guerra di tipo coloniale contro l'Egitto nasseriano, la République, fondata sul regicidio del gennaio 1793, accettava anzi auspicava di diventare parte di una monarchia. Fu il governo inglese a lasciar cadere la cosa e tutto poi andò come sappiamo e come è raccontato in questo libretto. A margine però la cronaca odierna ci offre la possibilità di una chiosa valida sui tempi lunghi della storia: evidentemente «Brexit» non è un sentimento effimero, ma profondo e durevole della politica inglese, quale che sia il governo, verso il sempre poco amato e talvolta disprezzato «continente». L. C. Ottobre 2016 | << | < | > | >> |Pagina 111956. Perché scegliere proprio questo anno? Perché lo giudichiamo così importante? Cosa significa nella storia, non soltanto europea, ma oserei dire umana? Si tratta di uno spartiacque tra i più importanti del Novecento. Nella storia del comunismo che fu un protagonista assai importante del secolo scorso, ma anche nella storia del colonialismo, un fenomeno che preesisteva al comunismo e che continuò anche dopo. Spieghiamo perché il 1956 va riconosciuto come uno spartiacque. Innanzitutto nella storia del comunismo, per il quale è senza dubbio l'anno-shock, che colpì tutti, i militanti, i simpatizzanti, gli avversari. In quell'anno si produssero due fatti memorabili, che nel seguito studieremo con precisione. Il primo fu la celebrazione a Mosca del XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, durante il quale fu demolita, in sostanza, la figura di Stalin. Questo accadeva nel mese di febbraio. Poi, tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, ci fu la rivoluzione ungherese, variamente giudicata e valutata dal punto di vista dei suoi fini e della sua dinamica, che comunque provocò la reazione militare, dopo una qualche esitazione, da parte dell'Unione Sovietica. Gli esiti immediati dell'invasione dell'Ungheria furono l'instaurazione di un governo diverso da quello che si era formato a seguito del processo interno al paese e la perdita, in tutto il mondo, del carisma del comunismo, per esser stata quella una vicenda di sopraffazione. Qualcheduno ritiene e sostiene che la decadenza del comunismo, come organizzazione e movimento politico, sia cominciata proprio in quell'anno. Questo forse non è del tutto esatto, ma certamente quella data è fondamentale. Mi riferisco innanzitutto al primo avvenimento, cioè la demolizione della figura di Stalin. Si tratta di un personaggio controverso, non continuativamente apprezzato o osannato, ma certamente nel 1943-1945, dalla battaglia di Stalingrado alla vittoria sulla Germania (il conflitto finì ufficialmente l'8 maggio del '45) Stalin era diventato l'uomo simbolo della vittoria della democrazia contro il nazismo e il fascismo, attraverso una guerra cruenta, l'uomo simbolo della riscossa nazionale del popolo russo contro gli invasori e quindi di ogni popolo aggredito, soverchiato dal nazismo. Questa immagine sommamente positiva, apprezzata in tutto il mondo - il settimanale «Time» dedicò la copertina a Stalin come «uomo dell'anno» nel 1944 -, venne distrutta dal XX congresso. L'altro avvenimento che segna uno spartiacque per quel che riguarda la storia del comunismo è stato l'invasione dell'Ungheria. Anche in quel caso si trattava della distruzione di un mito, che ci fosse cioè da una parte chi si batteva per l'indipendenza nazionale dei popoli contro i loro oppressori, e dall'altra le potenze imperialistiche. Una guerra combattuta sul suolo europeo contro i rivoltosi ungheresi e condotta senza lesinare i mezzi da una grande armata liberatrice, come era stata l'Armata Rossa, indicava che qualcosa era profondamente mutato e comunque inviava un messaggio di grande turbamento, in primo luogo per i militanti e in generale per tutti coloro che simpatizzavano per il mondo socialista. Questo per quel che riguarda la storia del comunismo. Ma quell'anno fu uno spartiacque anche da un altro punto di vista, da quello, detto sinteticamente, della storia del colonialismo. Perché nel 1956 si verificarono altri due eventi altrettanto importanti e significativi come quelli occorsi nell'ambito del mondo comunista. Innanzitutto ci fu la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell'Egitto, che si riprendeva così un pezzo del suo territorio nazionale, sottraendolo alla concessione franco-inglese che lo aveva governato e posseduto sin dal primo momento. Proprio in seguito a tale gesto unilaterale, molto discusso da parte delle due potenze occidentali, verso la fine dell'anno, in concomitanza, quasi in sincronia, con l'invasione dell'Ungheria, ci fu l'occupazione dell'Egitto, in particolare di Porto Said, organizzata dalle truppe dello stato di Israele e immediatamente dopo dai paracadutisti inglesi e francesi. La guerra coloniale che da molto tempo non era più praticata in modo ostentato dalle grandi potenze tradizionalmente colonialiste, come la Francia e l'Inghilterra, veniva utilizzata daccapo come strumento di sopraffazione. In quella circostanza l'imprevisto arrivò da parte dei loro alleati americani, oltre che ovviamente dai sovietici, dai quali venne un fermo monito a interrompere immediatamente questa guerra irresponsabile. Ne conseguì la umiliazione delle due potenze, Francia e Inghilterra, che non si risollevarono più da quella sconfitta, innanzitutto morale e di immagine, ma anche politica e militare. Era dunque finito il colonialismo? Questa è una domanda alla quale non si può rispondere in modo ottimistico, il declino del colonialismo ottocentesco è stato un processo molto lungo all'interno del quale sicuramente quel 1956 segnò una tappa memorabile. Il processo era incominciato ben prima, e aveva visto fenomeni apparentemente contraddittori, come per esempio il nazionalismo nel Nord Africa intrecciato con simpatie per il fascismo italiano soprattutto, ma poi anche tedesco, e, nell'immediato dopoguerra, il distacco dell'India dall'Inghilterra, coronamento della lunghissima lotta che Gandhi aveva condotto per affermare l'indipendenza del suo paese dal dominio coloniale inglese. L'episodio della conquista indiana della propria indipendenza venne avvelenato da un micidiale colpo di coda colonialistico. L'Inghilterra lasciò, certo mal volentieri, il suo dominio sulle Indie e in quel momento, facendo leva sui contrasti religiosi, creò le premesse per una divisione drammatica all'interno del nuovo immenso stato che stava nascendo sotto la guida dei capi della lotta per l'indipendenza. Affiora allora, per esempio, la figura del Pandit Nehru, che sarà un personaggio di primissimo piano alla metà del Novecento. Il Pakistan, che è musulmano, si distacca immediatamente dall'India e la rottura è traumatica, bellica, feroce. In tutto ciò la potenza ex coloniale, l'Inghilterra, ha avuto un ruolo, potendo far leva su fenomeni importanti, come appunto il contrasto religioso, oltre che su quegli interessi economici che spesso vivono celati dietro le contrapposizioni ideali. La nascita dell'India indipendente è avvelenata, vulnerata, da questa drammatica rottura, colpo di coda del colonialismo tradizionale. Ma anche dopo il 1956, dopo l'umiliazione della Francia e dell'Inghilterra nella guerra di Suez, il colonialismo classico ha continuato a manifestarsi dove poteva e come poteva. Basti pensare che pochi anni più tardi, nel luglio e agosto del 1960, il Belgio finalmente abbandona la sua più grande colonia, il Congo, ma ne avvelena l'indipendenza creando una situazione di caos, nella quale l'Union Minière, cioè la più grande forza multinazionale detentrice delle ricchezze minerarie del paese, riesce a rientrare servendosi di governanti fantoccio, mettendo in crisi il primo ministro Lumumba, facendolo arrestare e massacrare. Il Congo ripiomba nel caos, nonostante in apparenza il Belgio lo abbia lasciato libero; siamo quattro anni dopo l'episodio di Suez. La forma che il nuovo colonialismo assume nel secondo dopoguerra è soprattutto quella del dominio statunitense sui mondi che fino ad allora erano stati dipendenti dalle vecchie potenze coloniali. In un certo senso si può dire che con la crisi di Suez del 1956 si crea una situazione inedita, nella quale gli Stati Uniti ereditano il ruolo che era stato delle grandi potenze coloniali, e questo rappresenta un vero e proprio salto di qualità. Fino a quel momento gli Stati Uniti avevano avuto il loro mondo dipendente, quello che in ragione della dottrina di Monroe veniva chiamato il cortile di casa degli Stati Uniti d'America, cioè l'America Latina. Ancora nel '53 era stata sopraffatta l'indipendenza del Guatemala, semplicemente perché aveva cercato di liberarsi della United Fruits Company. Però dopo il '56 c'è qualcosa di più: ci sono gli ex imperi che scivolano in forma impalpabile nell'area di influenza della grande potenza statunitense. Lo si vedrà nel Vietnam, in Indonesia e in varie altre parti del mondo. Si tratta anche in questo caso di un fenomeno che viene da lontano, iniziato prima della fine dell'Ottocento con la guerra ispano-americana, al termine della quale gli Stati Uniti si erano sostituiti alla Spagna in tutti i suoi possedimenti caraibici, ma anche in quelli del Pacifico. Il quadro sommario che abbiamo voluto tracciare mira, come ho detto in principio, a spiegare perché mai il 1956 abbia un rilievo epocale. Direi che avendo compreso la sua importanza sia per il mondo che ruota intorno all'Unione Sovietica e al movimento comunista, sia per quello occidentale, che all'URSS si contrapponeva, abbiamo ben chiaro che si tratta davvero di una data memorabile nella storia del Novecento. | << | < | > | >> |Pagina 94Il consiglio nazionale del PCI si riunisce effettivamente il 3 aprile. Si è alla vigilia di una prova elettorale molto difficile perché, quantunque si tratti di consultazioni amministrative, i contraccolpi della politica generale di una consultazione nazionale sono sempre ben presenti, come è giusto che sia. Si tratta della prima prova elettorale dopo gli sconvolgimenti che ormai tutto il mondo conosce. Anche di questa vicenda c'è un resoconto nel bel libro memorialistico di Amendola , che rievoca la lunghissima relazione che Togliatti tenne al consiglio nazionale. Una relazione interminabile, ricchissima di dati riguardanti la vita economica, i problemi della campagna elettorale, l'organizzazione interna del partito, la capacità di affrontare la prova elettorale con argomenti che facciano leva sui problemi concreti, ma nulla sul rapporto segreto di Krusciov. Terminato il suo intervento Togliatti tornò a sedersi e, con fare alquanto provocatorio, chiese ad Amendola: «Come è andata?». Amendola rispose: «Malissimo! Ti eri impegnato a parlare del XX congresso». «Ah!» disse Togliatti «me ne sono dimenticato». La cosa naturalmente era poco credibile, ma era anche un modo piuttosto urtante e professorio di dimostrare ai compagni della direzione la propria superiorità, la propria posizione comunque egemone. In sostanza, Togliatti non riteneva che in quel momento si potesse parlare seriamente del contenuto del rapporto segreto, tra l'altro in assenza di un testo attendibile. [...] Per farci un'idea più precisa di questa amplissima intervista a «Nuovi Argomenti», converrà trascegliere alcune frasi, alcune formulazioni. In questo modo possiamo darne una sintesi. Direi che i concetti principali intorno ai quali si sviluppa il ragionamento, dove le domande diventano più specifiche su Stalin, il suo ruolo e il significato della critica rivoltagli dal rapporto segreto, sono: Primo: non può essere messo tra parentesi il fatto che Stalin avesse, a un certo punto della sua lunghissima carriera politica, potuto contare su un largo consenso all'interno del paese. Sappiamo che il problema del consenso ritorna ogni tanto nell'analisi degli storici; è stato sollevato come questione seria, per esempio, a proposito della fase centrale del fascismo italiano dagli storici nel solco di Renzo De Felice. Ma fu Togliatti medesimo, nelle famose Lezioni sul fascismo, a sollevare la questione che il fascismo non era un regime semplicemente dittatoriale, ma che, da un certo momento in avanti, aveva contato su un ampio consenso. Togliatti è uomo particolarmente sensibile al presupposto per cui le forme politiche, le forme concrete di gestione del potere, devono essere soppesate anche dal punto di vista della loro capacità di creare consenso. Quindi egli pone la questione: «Persino il compagno Krusciov», è molto sintomatico che dica «persino il compagno Krusciov», come a segnalare che si tratta di persona da cui lui sente di essere piuttosto lontano, «ha riconosciuto tale prestigio e tale consenso inerente ad ampia parte della lunga carriera politica di Stalin». Ergo, bisogna chiedersi perché Stalin, nonostante tutte le critiche, magari giuste, rivoltegli, avesse ottenuto tale consenso. Secondo punto, correlato al primo, è che gli attuali dirigenti a suo tempo erano stati parte strettissima, profondamente coinvolta, di un vertice dal quale oggi prendono le distanze, come se non vi avessero mai partecipato. «Oggi criticano, ed è il loro grande merito», dice Togliatti a un certo punto dell'intervista, «ma in questa critica un poco del loro prestigio va senza dubbio perduto». Formulazione molto feroce, oserei dire, nonostante l'eleganza del tratto, perché dire «un poco del loro prestigio va senza dubbio perduto», significa dire che l'immagine stessa di questo gruppo dirigente esce appannata dall'operazione rapporto segreto. Faccio notare la novità di queste frasi anche sul piano stilistico, sotto questo profilo si deve notare che in altri tempi mai sarebbe accaduto che un dirigente comunista, di un partito importante come quello italiano, dicesse che il prestigio del gruppo dirigente sovietico andava in parte perduto. In questa concreta circostanza, Togliatti parla del gruppo dirigente sovietico non solo da pari a pari, ma consentendosi anche una critica che colpisce in profondità. Per concludere è giusto evocare il nocciolo di tutta l'intervista, che è esattamente incastonato subito dopo quelle frasi pungenti che abbiamo ora ricordato. Ed è in realtà una breve ma intensa lezione di storia che Togliatti infligge a Krusciov, là dove dice che: «Sì, si critica il culto della personalità di Stalin. È stata adottata questa formula il culto della personalità dannoso, ha rovinato la democrazia socialista, ha creato arbitrio, eccetera. Però» egli dice «limitare la denuncia ai difetti personali di Stalin significa restare nell'ambito del culto della personalità: prima tutto il bene era dovuto a una persona, adesso tutti i disastri sono dovuti alla medesima persona, cosa evidentemente impossibile». Poi si permette anche un'altra frecciata: «Questo modo di ragionare non ha niente a che fare col marxismo»; quindi, rimprovera i dirigenti sovietici di essere poco marxisti. «Sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica poté giungere a forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità e persino di degenerazione». È qui il nocciolo storiografico: «Non si può limitare la riflessione ad un'analisi psicologica o psicopatologica di una personalità, c'è da andare in profondità, e chiedersi perché la società sovietica è andata degenerando. E» soggiunge con un commento che è giusto aspettarsi da lui «lo studio di questi fenomeni, delle tappe d'involuzione della società sovietica ai tempi di Stalin, deve essere fatto dagli stessi compagni sovietici perché essi conoscono meglio di noi, che possiamo anche sbagliare per parziale o errata conoscenza dei fatti». È certamente un testo che lascia il segno e perciò abbiamo dedicato spazio alla sua analisi. Un testo col quale in realtà la dirigenza sovietica non ha mai fatto i conti sul serio. Si potrebbe dire che da quando, nel '56, Togliatti si trova dinanzi a un così rilevante fenomeno di trasformazione al vertice sovietico, e di messa in discussione della storia passata dell'Unione Sovietica, diventa un critico che non fa sconti e si pone su un piano di parità con i suoi interlocutori. | << | < | > | >> |Pagina 121A questo punto conviene fare una riflessione di carattere più generale, visto che ci stiamo avviando al racconto della parte più drammatica della storia del 1956, che culmina nella rivoluzione ungherese, dal 23 ottobre al 4 novembre, ma ha la sua premessa negli incidenti polacchi di Poznan. Essa riguarda il ruolo dell'Unione Sovietica nell'Europa dell'Est, la contraddizione fondamentale della sua politica estera su scala mondiale e il nesso, tutt'altro che pacifico e indolore, tra la grande potenza e i suoi satelliti.Si potrebbe dire che la contraddizione principale della politica estera sovietica in questo tempo, e nell'anno '56 ciò si vede in modo particolarmente acuto, consiste nell'appoggiare da un lato le lotte nazionali di liberazione o di indipendenza nel mondo ex coloniale, il così detto terzo mondo, nel sostenere altresì, nello stesso spirito, il movimento dei non allineati, e dall'altro lato nel reprimere il nazionalismo nei paesi satellite, nelle democrazie popolari. Questa contraddizione è evidente da cento segnali. Naturalmente dal punto di vista della dirigenza sovietica viene fornita una spiegazione anche di tutto ciò. È chiaro che ogni leadership politica cerca di dare un senso, una coerenza a quello che fa, e dunque è interessante non solo notare la contraddizione, ma anche cercare di capire come veniva spiegata e giustificata dai protagonisti. La spiegazione che veniva data era che i paesi dell'Est, i paesi socialisti, appena o da poco costituitisi come tali, rappresentavano uno stadio più avanzato di marcia verso la società del futuro, cioè appunto quella socialista, mentre invece il mondo ex coloniale aveva dinanzi a sé il compito primario di ottenere la piena indipendenza nazionale dai vincoli di dipendenza di carattere direttamente politico o economico. Dunque il doppio binario o il doppio stile, appoggiare il nazionalismo nel terzo mondo, reprimere il nazionalismo nei paesi satellite, pareva alla dirigenza sovietica avere una coerenza e un senso. La contraddizione della politica estera, planetaria anch'essa, degli Stati Uniti e dei suoi alleati Inghilterra e Francia è in certo senso speculare a quella sovietica. Le grandi potenze occidentali, infatti, mentre direttamente o indirettamente reprimono i movimenti nazionalisti del terzo mondo, del proprio mondo ex coloniale, incitano invece alla ribellione nazionale i satelliti sovietici in Europa. Esiste una sorta di inversione speculare degli stessi ingredienti. Tutte e tre le grandi potenze occidentali si trovano in questa situazione, con diversi toni e stile talvolta non tanto diverso. Nel caso dell'Indocina, dove la Francia ha subìto una sconfitta militare e ha ceduto il passo, dopo la divisione del Vietnam in due stati, alla egemonia americana nel sud del paese, sono gli Stati Uniti che si trovano direttamente a contrastare il movimento nazionalista e indipendentista di Ho Chi Minh. In genere però gli Stati Uniti evitano di trovarsi impelagati fuori dell'area latino-americana in conflitti che potrebbero avere un aspetto o un sapore coloniale. Preferiscono che questo modo di gestione piuttosto brutale nei rapporti col mondo ex dipendente sia invece appannaggio di Francia e Inghilterra. Però tutti e tre, ma in particolare gli Stati Uniti, in modo estremamente organizzato ed efficace, sospingono le popolazioni dell'Est Europa, che sono in un evidente disagio sotto il controllo sovietico, alla ribellione, al distacco. Lo fanno attraverso le radio, in primis Radio Europa Libera, e con l'impiego di ogni forma di propaganda che riesca ad essere captata o ascoltata all'Est. Quello che sollecitano è proprio l'elemento nazionale che risulta conculcato all'interno dell'alleanza dell'Est costituitasi l'anno precedente, il «Patto di Varsavia». Questa considerazione di carattere generale sollecita una domanda intorno al rapporto, paritario all'origine, ma via via sempre più disuguale, tra la grande potenza egemone sovietica sull'Est Europa e i paesi satellite. Come nasce tale rapporto? Su che cosa si viene a saldare, su quali elementi si basa? Facendo una brachilogia, cioè cercando di essere brevi ed efficaci, si potrebbe dire: si tratta della «sindrome di Stalingrado». Appena pochi anni innanzi agli avvenimenti che stiamo narrando, ma il ricordo era ancora presente alla mente degli europei, l'Unione Sovietica affrontando il soverchiante esercito nazista nella lunghissima battaglia di Stalingrado, aveva invertito la tendenza della guerra che fino a quel momento Hitler aveva continuato a vincere. Come dire, da Stalingrado comincia la liberazione dell'Europa, e questa è la premessa remota degli equilibri che si vengono a stabilire nel dopoguerra. Questo tema ha un carattere storiografico e anche emotivo. | << | < | > | >> |Pagina 140Gli eventi si rincorrono dalla Polonia all'Ungheria, al Medio Oriente. Il 30 ottobre avvengono contemporaneamente due fatti di capitale importanza: a Budapest il nuovo governo Nagy annuncia l'abolizione del sistema a partito unico, «ritornano i partiti del 1947» titolerà «l'Unità», crea una coalizione di partiti diversi, tutti coinvolti nel governo, invita il comando sovietico a ritirare le truppe di stanza in Ungheria e libera il cardinale Mindszenty dal domicilio coatto. Contemporaneamente, nella notte fra il 30 e il 31, le truppe anglo-francesi vengono fatte sbarcare dal cielo sul Canale di Suez. I paracadutisti puntano alla conquista di Porto Said, mentre le truppe israeliane sono ormai a ridosso del canale. È evidente che la crisi internazionale sta raggiungendo a questo punto il suo limite estremo. Il governo ungherese il 31 mattina dichiara solennemente l'uscita dal Patto di Varsavia e proclama la neutralità dell'Ungheria. Il cardinale Mindszenty, appena libero, chiede addirittura il ritorno in Ungheria di Otto di Asburgo. Nel clima arroventato del paese parte la caccia agli uomini del passato regime, ai militanti comunisti, con o senza divisa; ed è un po' singolare che si sia insistito allora sul fatto che le vittime fossero unicamente agenti della polizia segreta. In realtà vengono massacrati, linciati in piazza e gettati dalle finestre, anche semplici militanti comunisti notoriamente tali. Gli eccidi sono stati filmati amatorialmente, sono conservate numerose immagini di quelle scene agghiaccianti. Questo clima determina da parte sovietica una scelta di segno opposto a quella che si era avuta in Polonia. Lungi dal ritirarsi, come Nagy chiede, i sovietici aprono delle ingannevoli trattative col nuovo governo. [...] Alle 19,40 del 1° novembre del '56, la radio di Budapest mette in onda l'intervento fuori programma del presidente del consiglio Imre Nagy, che annuncia la neutralità dell'Ungheria e l'uscita dal Patto di Varsavia. Alle 23,00 dello stesso giorno, János Kádár e Münnich, rispettivamente segretario del partito e ministro degli interni del governo ungherese, lasciano la sede del governo di Budapest e del partito, e si ritirano presso l'ambasciata sovietica. Il 2 novembre, alle ore 19,00, approda all'isola di Brioni un velivolo con a bordo una delegazione, composta da Krusciov e Malenkov, che chiede urgentemente di parlare con i massimi dirigenti jugoslavi. Il colloquio dura per tutta la notte, fino all'alba del 3 novembre. Dopo avere lungamente discusso con Liu Shao-chi, presidente della Repubblica popolare cinese, presente in quei giorni a Mosca, con i polacchi a Brest, con G. Dej a Bucarest e con Mao per telefono, Krusciov, prima di decidere l'intervento armato in Ungheria, ha voluto il consenso degli jugoslavi. Intanto il passo viene formalmente posto in una luce di «legalità», attraverso l'appello che Kádár e Münnich, dopo aver abbandonato il governo ungherese, lanciano ai sovietici perché intervengano. La copertura «legale» dell'invasione viene realizzata attraverso Kádár, un esponente del rinnovamento ungherese che però il 1° novembre ha preso le distanze dal governo Nagy proprio sul punto della fuoruscita dal Patto di Varsavia. Il colloquio, drammatico, lunghissimo, di Krusciov con gli jugoslavi è raccontato in un libro importante di un diplomatico jugoslavo, Veljko Mičunovič, Diario dal Cremlino. Un racconto appassionante che riguarda tutta la lunghissima permanenza di Mičunovič a Mosca come ambasciatore di Tito. Lì si trova il resoconto quasi stenografico di quel dialogo. Krusciov insiste moltissimo sul fatto che c'è un consenso da parte dei maggiori paesi, dalla Cina agli altri alleati europei, sulla necessità di intervenire perché ormai è in atto una caccia all'uomo, un massacro dei comunisti, in un paese che non è più effettivamente controllato dal governo Nagy, il quale si trova in balia degli eventi. Gli jugoslavi diedero il loro sì. I russi non volevano Kádár come nuovo leader in Ungheria, ma gli jugoslavi glielo imposero. Questo è il quadro in cui ha inizio, alle 4,00 del mattino del 4 novembre, la così detta Operazione Turbine, nome in codice dell'attacco concentrico sulla capitale con grandi colonne di carri armati, che porta assai rapidamente al disfacimento del governo in carica e alla fuga di Nagy e di Maléter, ministro della difesa, all'interno dell'edificio dell'ambasciata jugoslava a Budapest. Prima di procedere all'invasione dell'Ungheria su sollecitazione di una sorta di governo ombra, o fantasma, definito degli operai e dei contadini, costituito da Kádár sotto la protezione dei sovietici, il governo di Mosca manda un messaggio ai principali capi di stato dei paesi non allineati per stigmatizzare l'attacco all'Egitto da parte di Israele, Francia e Inghilterra. Il messaggio viene inviato al Pandit Nehru e al presidente indonesiano Sukarno. Oltre a questo passo squisitamente politico, il governo sovietico ne fa uno diplomatico: mobilita la propria delegazione alle Nazioni Unite per fermare l'intervento in Egitto. Inoltre il presidente sovietico Bulganin manda un messaggio personale al presidente degli Stati Uniti Eisenhower perché gli Stati Uniti contribuiscano a fermare l'invasione dell'Egitto. L'invasione dell'Egitto, o meglio della zona del canale e di tutta la penisola del Sinai, viene completata dalle truppe anglo-francesi e israeliane, che agiscono in perfetta sintonia e sotto un'unica direzione strategica, entro la giornata del 5 novembre. In quella medesima giornata il governo ungherese ha cessato di esistere e i suoi principali rappresentanti si sono rifugiati nell'ambasciata jugoslava a Budapest. I combattimenti non sono per ciò stesso cessati, anzi continuano ad esserci scontri nei vari quartieri, nelle strade di Budapest e anche altrove, per esempio, nella località mineraria di Pécs. Una vera e propria guerra, potremmo definirla, non soltanto una rivoluzione e una reazione, che si sviluppa per giorni e giorni nel cuore dell'Europa. Quali furono gli effetti dal punto di vista materiale? Effetti incalcolabili, si potrebbe dire. La ferita che si aprì allora fu durevole. Ci volle, come vedremo, tutta l'abilità di Kádár per cercare di risanarla. Ma poi c'è un problema più concreto: quante perdite umane? Ci sono varie cifre. A caldo ci fu una valutazione attribuita addirittura alla diplomazia indiana, secondo cui i morti a Budapest sarebbero stati quasi 20.000. In realtà oggi sappiamo, anche se la cifra resta dolorosissima, che si trattò di 2.400 morti all'incirca, fra la capitale e le altre località dell'Ungheria. Non era mai successo sul territorio d'Europa, dalla fine della Seconda guerra mondiale, che si svolgessero combattimenti così prolungati, con conseguenze così pesanti, con perdite così gravi; che si aggiungevano ai linciaggi, alle vendette, ai massacri, alla caccia all'uomo che si era svolta nei giorni immediatamente precedenti l'invasione. Insomma, mai forse nel dopoguerra la crisi sul suolo europeo raggiunse un livello così alto. La morale di questa vicenda è che l'Ungheria si è trovata sola. Dopo avere avuto da parte di potenze politiche, spirituali e mediatiche ammiccamenti, incitamenti, suggerimenti che lasciavano intendere la possibilità di un aiuto internazionale, di fatto l'Ungheria non ha avuto alcun sostegno. Non si è mosso nessuno, nonostante le parole dette da Nagy al momento in cui dichiarava l'uscita dal Patto di Varsavia suonassero evidentemente come un appello alle potenze occidentali. L'appello del resto era insito nel fatto stesso che l'Ungheria usciva dall'alleanza del Patto di Varsavia. Le responsabilità di chi alla leggera mandò allo sbaraglio un popolo sono enormi. | << | < | > | >> |Pagina 148La riflessione nella pubblicistica statunitense batte oggi su questo tasto delicato: perché lanciare un popolo in un'avventura se non si ha poi la volontà politica di sostenerlo? Anche da parte di esponenti in esilio del governo ungherese disfatto dall'invasione sovietica, questa formulazione di rammarico, e di rimprovero, è emersa più volte. Per esempio a Bologna, una decina d'anni fa, in occasione del quarantesimo anniversario dell'invasione dell'Ungheria, e della fallita rivoluzione ungherese, in un incontro tra storici e politici.C'erano tra gli altri Enzo Biagi, Montanelli, che fu giornalista presente sul teatro delle operazioni, lo storico Renato Zangheri, e, dei protagonisti, il portavoce di Nagy, Miklós Vasarely. Egli sintetizzò la situazione con una formula icastica, era ormai da anni e anni in esilio e rifletteva, come è giusto che ogni esule faccia, sulla vicenda di cui era stato protagonista: «I russi ci uccisero, l'America ci tradì». Questa che sembra una lapidaria sintesi è una formula che indubbiamente contiene elementi di verità.
Accanto a questo, che potrebbe sembrare un giudizio morale, si deve
aggiungere una valutazione più politica. Vi è sempre una ragione profonda nelle
dinamiche politiche: un filo continuò a collegare scelte sovietiche e scelte
americane. I sovietici poterono indisturbatamente agire a Budapest, e per
l'America questo era un dato che non poteva esser messo in discussione, i
sovietici ingiunsero agli anglo-francesi di ritirarsi da
Suez e gli americani diedero loro pieno appoggio, anzi fu la voce statunitense
la più autorevole per imporre loro di ritirarsi. Insomma, ancora una volta, quel
filo che ha sempre collegato Mosca e Washington ha avuto efficacia, in un
contesto dei più delicati e forse dei più decisivi.
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