Copertina
Autore Luciano Canfora
Titolo La democrazia
SottotitoloStoria di un'ideologia
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2004, Fare l'Europa , pag. 424, cop.ril.sov., dim. 135x210x25 mm , Isbn 978-88-420-7298-0
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe storia , storia: Europa , politica
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Indice

Prefazione di Jacques Le Goff                 V

Prologo                                       3

 1. Una costituzione rivestita di grecità:
    Grecia, Europa, Occidente                11

 2. L'atto di nascita:
    la democrazia nell'antica Grecia         31

 3. Come ritornò in gioco e come alla fine
    uscì di scena la democrazia greca        52

 4. La prima vittoria del liberalismo        80

 5. Suffragio universale: atto primo         96

 6. Suffragio universale: atto secondo      120

 7. Gli imbarazzi della «vecchia talpa»     131

 8. L'Europa «in marcia»                    139

 9. Dall'ecatombe dei comunardi
    alle «unioni sacre»                     152

10. La Terza Repubblica                     176

11. Il secondo fallimento
    del suffragio universale                191

12. La «guerra civile europea»              222

13. Democrazie, democrazie progressive,
    democrazie popolari                     254

14. Guerra fredda
    e arretramento della democrazia         288

15. Verso il «sistema misto»                311

16. Fu «novella storia»?                    339

Epilogo                                     361

Note                                        369

Bibliografia                                391

Indice dei nomi                             413

 

 

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Pagina 11

l.
Una costituzione
rivestita di grecità:
Grecia, Europa, Occidente



    Platone nella Repubblica, lib. V (vedilo) dice: «i Greci
    non distruggeranno certo i Greci, non li faranno schiavi,
    non desoleranno le campagne, né bruceranno le case loro;
    ma in quella vece faranno tutto questo ai Barbari». E le
    orazioni d'Isocrate, tutte piene di misericordia verso i
    mali de' Greci, sono spietate verso i Barbari, o Persiani,
    ed esortano continuamente la nazione, e Filippo, a
    sterminarli.

    Giacomo Leopardi
    Zibaldone


    Si può permettere a un filosofo di ampliare la propria
    visione e di considerare l'Europa come una grande
    repubblica, i vari abitanti della quale sono giunti quasi
    allo stesso livello di civiltà e di cultura [...].
    I popoli selvaggi della terra sono i nemici comuni della
    società civile, e possiamo indagare con ansiosa curiosità
    se l'Europa sia ancora minacciata da un ripetersi di
    quelle calamità.

    Edward Gibbon
    Storia della decadenza e caduta dell'impero romano



Che la democrazia sia un'invenzione greca è opinione piuttosto radicata. Un effetto di tale nozione approssimativa si è visto quando è stata elaborata la bozza del preambolo della Costituzione europea (diffusa il 28 maggio del 2003). Coloro che, dopo molte alchimie, hanno elaborato quel testo - tra i più autorevoli, l'ex presidente francese Giscard d'Estaing - hanno pensato di imprimere il marchio greco-classico alla nascente Costituzione anteponendo al preambolo una citazione tratta dall'epitafio che Tucidide attribuisce a Pericle (430 a.C.). Nel preambolo della Costituzione europea le parole del Pericle tucidideo si presentano in questa forma: «La nostra Costituzione è chiamata democrazia perché il potere è nelle mani non di una minoranza ma del popolo intero». È una falsificazione di quello che Tucidide fa dire a Pericle. E non è per nulla trascurabile cercar di capire perché si sia fatto ricorso ad una tale «bassezza» filologica.

Dice Pericle, nel discorso assai impegnativo che Tucidide gli attribuisce: «La parola che adoperiamo per definire il nostro sistema politico [ovviamente è modernistico e sbagliato rendere la parola politèia con «costituzione»] è democrazia per il fatto che, nell'amministrazione [la parola adoperata è appunto oikèin], esso si qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto alla maggioranza [dunque non c'entra il «potere», e men che meno «il popolo intero»]». Pericle prosegue: «Però nelle controversie private attribuiamo a ciascuno ugual peso e comunque nella nostra vita pubblica vige la libertà» (II, 37). Si può sofisticare quanto si vuole, ma la sostanza è che Pericle pone in antitesi «democrazia» e «libertà».

Pericle fu il maggior leader politico nell'Atene della seconda metà del V secolo a.C. Non ha conseguito successi militari, semmai ha collezionato sconfitte in politica estera, ad esempio nella disastrosa spedizione in Egitto, dove Atene perse una flotta immensa. Però fu talmente abile nel conseguire e consolidare il consenso, da riuscire a guidare quasi ininterrottamente per un trentennio (462-430) la città di Atene retta a «democrazia». Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo «popolare» definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l'appunto la forza nel suo violento esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotante intorno all'assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida. Ecco perché Pericle, nel discorso ufficiale e solenne che Tucidide gli attribuisce, ridimensiona la portata del termine, ne prende le distanze, ben sapendo peraltro che non è parola gradita alla parte popolare, la quale usa senz'altro popolo (dèmos) per indicare il sistema in cui si riconosce. Prende le distanze, il Pericle tucidideo, e dice: si usa democrazia per definire il nostro sistema politico semplicemente perché siamo soliti far capo al criterio della «maggioranza», nondimeno da noi c'è libertà.

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Pagina 26

Certo, un evento incombente a buon diritto da due secoli sulla storia non solo d'Europa, la Rivoluzione francese, aveva, nel momento più alto del suo sviluppo, spezzato il cerchio del pregiudizio razzista. Ed è appunto questa sua radicalità, che è l'altra faccia della sua «durezza», ad aver costituito, ed a costituire tuttora, lo scandalo e la pietra di paragone della storia d'Europa. In certo senso, il percorso accidentato della sua ricezione corrisponde, e scorre di pari passo, col cammino e lo sviluppo del movimento democratico, volto per due secoli, e tuttora impegnato, a rendere effettive conquiste i princìpi che la Rivoluzione sancì (e nella cui attuazione si arenò e fu sconfitta). Questa ricezione varia da paese a paese. Nell'Inghilterra liberale dell'intero secolo decimonono la Rivoluzione parigina è rimasta sotto il colpo delle Reflections on the Revolution in France (1790) di Burke (il quale non era certo il peggiore!). Mai fu accettata; rimase costantemente il disvalore per eccellenza. Solo lo scossone novecentesco, la nuova e ancor più scandalosa Rivoluzione russa, ha riequilibrato le menti e affinato il giudizio storiografico (ma solo in parte). In Italia si potrà ricordare la persecuzione giornalistica e perbenistica scatenata contro il povero Giosuè Carducci per aver inneggiato alla Rivoluzione coi suoi scultorei sonetti intitolati Ça ira. Per non parlare delle lezioni universitarie di Bonghi (ispiratore di quella campagna) sull' Europa nell'età della Rivoluzione francese. Titolo che richiama la Geschichte der Revolutionszeit: von 1789 bis 1795 di von Sybel, il cui bilancio è più ricco ma non meno negativo.

Eppure, dietro il paravento del raccapriccio per il «Terrore», è l'affermazione dell'uguaglianza oltre i confini d'Europa il vero scandalo degli uomini del 1793. In un delizioso pamphlet pubblicato nella «Revue des deux mondes» nel 1889 (primo centenario), un cattolico-liberale ma non conformista quale Anatole Leroy-Beaulieu ha immaginato una serie di «brindisi» alla Rivoluzione, da parte delle più diverse figure; ed è la questione dell'uguaglianza delle razze e della liberazione dei neri, nonché dell'emancipazione degli Ebrei quello che gli appare come il problema centrale di quella vicenda ormai secolare. Egli dà la parola all'ebreo, al nero laureato, all'antisemita austriaco, al gentleman indiano e così via, e a ciascuno attribuisce un immaginario ma verisimile discorso. Quello dell'antisemita austriaco merita di essere riferito, per meglio intendere il succo serio e progressivo del libretto al di là del velo dell'ironia. Dice l'antisemita austriaco: «Il negro e l'ebreo acclamino pure la Rivoluzione: ci hanno guadagnato tutto! Ma per noi cristiani di razza bianca, di ceppo indo-germanico, è un altro discorso. Ciò che il negro e l'ebreo le riconoscono come merito è appunto quello che me la rende sospetta. L'uguaglianza delle razze e delle nazioni è stata l'errore della Rivoluzione». Leroy-Beaulieu era anche un grande conoscitore della realtà russa (a lui si deve una trilogia su L'empire des tsars che si ristampa ancora). Ed è sintomatico che il giovane russo, il quale interviene subito dopo l'indiano, in questa catena di brindisi, preannunci una rivoluzione, in Russia, di gran lunga più vasta come portata: «Dalle nere isbe dei nostri contadini analfabeti verrà la rivoluzione più vasta e umana di tutte quante le rivoluzioni delle vostre assemblee borghesi». Siamo nel 1889.

Persino in Marx l'eurocentrismo farà capolino. La sua valutazione della colonizzazione inglese dell'India come «l'unica rivoluzione sociale finora avvenuta in Asia» si rivela in pieno figlia del suo tempo.


Il celebre e celebrato libro di Alexis de Tocqueville De la démocratie en Amérique, pubblicato tra il 1835 e il 1840, contiene, com'è noto, una «profezia» sul futuro dell'Europa: diventeremo come l'America; saremo «democratici». Il libro si propone di descrivere una realtà ancora lontana geograficamente, ma, nei suoi tratti essenziali, in espansione. La previsione non è entusiastica, semmai è rassegnata. Che cosa pensasse Tocqueville della democrazia lo dice egli stesso chiaramente in una nota preparatoria di un discorso parlamentare del novembre 1841:

Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia. Questo il fondo dell'anima. Odio la demagogia. [...] Non sono né del partito rivoluzionario né del partito conservatore. Ma tuttavia e dopotutto tengo più al secondo che al primo. Infatti dal secondo differisco nei mezzi piuttosto che nel fine, mentre dal primo differisco, insieme, nei mezzi e nel fine. La libertà è la prima delle mie passioni. Questa è la verità.

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Pagina 212

Il caso tedesco e quello italiano costituiscono due esempi capitali della «fabbricazione» della vittoria elettorale.

Uno studio recente dello storico della Yale University, Henry Ashby Turner jr., Hitler's Thirty Days to Power (London 1996), ha portato convincenti prove documentarie a sostegno di una diagnosi storiografica anti-deterministica a proposito dell'avvento di Hitler al potere. Con le elezioni del novembre 1932 il partito nazista aveva subìto un secco arretramento, perdendo 35 seggi e quasi il 5% del suo elettorato. Era, certo, col suo 33%, il partito di maggioranza relativa, ma l'isolamento parlamentare poteva risultargli letale, soprattutto in concomitanza con una acuta crisi interna. È grazie alla pressione fortissima dell'esponente di centro, ma legato a Hitler a filo doppio, Franz von Papen, sul presidente della Repubblica Hindenburg ormai quasi novantenne, che, contro ogni aspettativa, e contro l'aritmetica parlamentare, Hitler si vide affidare il 30 gennaio 1933, dopo una crisi lunghissima e oscura, l'incarico di Cancelliere. Contrariamente a quel che di norma si ripete, i poteri del presidente della Repubblica erano - secondo la costituzione weimariana - assai ampi: ben superiori a quelli dei monarchi rimasti sul trono dopo la ecatombe di teste coronate prodotta dalla guerra. Era il capo effettivo delle forze armate; poteva ridurre i diritti civili a sua discrezione (se da lui reputato necessario), promulgare leggi per decreto; ed il governo, responsabile certo di fronte al Parlamento, poteva però essere destituito dal presidente, se necessario, con immediato scioglimento del Parlamento. In breve: l'insperato approdo alla Cancelleria alla fine di gennaio del '33 (e l'immediata indizione di nuove elezioni) permise a Hitler di costruire, con la complicità della grande industria (basti pensare all'alleanza familiare tra Goebbels e la più potente dinastia industriale, quella dei Quandt, nonché all'appoggio di Hugenberg) e dell'apparato militare legale e para-legale, e grazie alla violenza sistematica delle «camicie brune» protette dallo Stato, la grande vittoria elettorale del 5 marzo 1933: quel 44% dei voti che gli consentì di governare attorniato da esponenti centristi e liberali, e con von Papen vice-cancelliere, fino alla completa trasformazione della Repubblica in «Führerstaat». La marcia decennale verso il potere era incominciata col misero Putsch di Monaco, circa dieci anni prima. Il 6 marzo '33, all'indomani del «trionfo» elettorale giungevano a Hitler, da Doorn, in Olanda, luogo di «esilio», le felicitazioni di Guglielmo II, ex imperatore. Un gesto che simboleggia perfettamente la continuità tra imperialismo alldeutsch e nazismo.

In Italia l'analoga operazione avvenne in tempi molto più rapidi. Il movimento repubblicano-anarcoide di Mussolini, fondato nel 1919, vegeta elettoralmente fino alle elezioni del 1921 (circa 30 deputati, nel coacervo dei «Blocchi nazionali» ), ma già alla fine di ottobre 1922 il re Vittorio Emanuele III gli affida la formazione del governo: che sarà di coalizione, con popolari e liberali. Certo il Savoia era un modesto fellone rispetto al vecchio Junker, e per lui non ci vollero trenta giorni di trame, pressioni, ricatti. Il Savoia, istericamente impaurito dalla decimazione di teste coronate, completamente scettico sulla possibilità del parlamentarismo di sopravvivere alla ventata rivoluzionaria che s'era levata nel '17 e ancora continuava (ma egli la ingigantiva nel suo reazionarismo), si spinse fino a compiere lui stesso, scavalcando il governo, un «colpo di Stato silenzioso». La maggioranza del governo in carica (presieduto da Luigi Facta) al momento della manifestazione pomposamente definita «marcia su Roma» era per la proclamazione dello stato d'assedio, il re rifiutò e convocò Mussolini al Quirinale per affidargli l'incarico di formare il governo. Che infatti sorse, e puntualmente, due anni dopo, stravinse - grazie alla legge elettorale ultramaggioritaria, grazie alla violenza squadrista appoggiata e protetta dalle «forze dell'ordine», grazie al finanziamento di parti importanti dell'alta borghesia (agraria, industriale e finanziaria) - le elezioni del 1924.

Anche nel caso italiano è interessante seguire la traiettoria elettorale e l'intreccio tra progresso o regresso dei partiti e delle leggi elettorali. La legge del 16.12.1918 finalmente instaurava il suffragio universale (maschile) senza limitazioni, e sostituiva allo screditato maggioritario-uninominale il sistema proporzionale a scrutinio di lista. I socialisti triplicarono i loro eletti (156), i popolari balzarono a 100 seggi. Era la maggioranza aritmetica dei 508 seggi della Camera. I liberali, onnipresenti e onnitrionfanti col vecchio sistema, crollarono da 300 a 200 seggi. Fu una vittoria dei movimenti democratici, ma non l'immaginato trionfo. Alle elezioni del maggio 1921, appare, dopo la scissione di Livorno (gennaio), la sparuta pattuglia dei 15 deputati comunisti, i socialisti calano, i popolari crescono di una decina di deputati, i «Blocchi nazionali» (comprendenti anche i fascisti) «tengono», e sono di fatto gli eletti dalle vecchie sacche di consenso liberali. La Camera senza chiara maggioranza eletta nel 1921, dopo il colpo di mano del re e l'affidamento a Mussolini della presidenza del Consiglio, approverà la nuova legge elettorale ultra-maggioritaria (la famigerata legge Acerbo, preparata da una intensissima campagna fascista in favore di un sistema elettorale maggioritario, scattata già subito dopo la «marcia su Roma») e si avranno, così, le condizioni per il trionfo del listone fascista (imbottito di notabili liberali) alle elezioni del 1924. Insomma il bilancio è, in entrambi i casi, analogo e univoco. Le forze socialiste, soprattutto grazie al sistema «proporzionale», ottengono il riconoscimento del loro imponente insediamento nella società, ma non sono maggioranza neanche nei momenti e nelle congiunture più «favorevoli», giacché non hanno dalla propria parte il potere dello Stato (e tanto meno quello delle grandi forze economiche). Le formazioni fasciste, anche se minoranza, sono messe in condizione, dall'appoggio dei poteri statali, di pilotare le elezioni e vincerle.

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Pagina 216

Qualche considerazione a margine. Hitler, neocancelliere a fine gennaio '33, non cambia la legge elettorale. Fabbrica la vittoria elettorale ma non raggiunge la maggioranza. Per «prendere tutto» dovrà organizzare la messinscena dell'incendio del Reichstag, l'estromissione dei deputati comunisti, e aspettare la morte di Hindenburg (agosto 1934) per unificare i ruoli di presidente e cancelliere. Mussolini, invece, capo di una pattuglia di appena 30 deputati, ma presidente del Consiglio imposto dal re, con la legge Acerbo stravince le elezioni con una maggioranza più che assoluta, gonfiata appunto dalla truffa maggioritaria. Il «consenso» intorno a Hitler c'è (un elettore su tre nel 1932) - o meglio un forte radicamento, costruito crescendo come pianta malsana dentro la crisi di Weimar. Il consenso intorno a Mussolini non c'è affatto al momento del colpo di mano regio che gli affida la guida del governo. Lo si è venuto costruendo dopo; e certo l'avallo del re e della Chiesa cattolica (ben prima del Concordato) ha contribuito non poco. Nei successivi due anni (1924-26) fu compiuto l'ulteriore passo: la formazione di un «regime» (leggi eccezionali del novembre 1926, arresto dei deputati comunisti, invenzione del «complotto» comunista, che sta alla base del «processone» contro i dirigenti catturati, scioglimento degli altri partiti). Ma anche per giungere a questo approdo, alle leggi del novembre 1926 ed alla loro attuazione immediata, ci volle altro tempo, e fu fatto ricorso anche alla violenza di Stato (delitto Matteotti: un'altra occasione in cui la Corona ha salvato il fascismo da un passo che poteva risultargli fatale), a provocazioni e attentati di dubbia matrice. Ma ormai la classe dirigente italiana era passata dalla parte del fascismo. Persino una personalità come Croce, che incarnerà, negli anni Trenta e fino alla prima caduta di Mussolini, il ruolo di simbolo intellettuale dell'antifascismo, all'indomani del delitto Matteotti andrà in Senato a votare la fiducia al governo Mussolini e definirà tale voto, in un'intervista al «Giornale d'Italia» del luglio 1924, «prudente e patriottico».

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Pagina 222

12.
La «guerra civile europea»



    Tutto ciò che io intraprendo è rivolto contro la Russia.
    Se in Occidente sono troppo stupidi e troppo ciechi per
    capirlo, sarò costretto a raggiunere un'intesa con i
    Russi per battere l'Occidente, per poi lanciare tutta la
    mia forza contro l'Unione Sovietica.

    Hitler a Carl Burckhardt
    Commissaria della Società delle Nazioni



Non è notissimo che Churchill e De Gaulle, due figure centrali del Novecento europeo, nati rispettivamente nel 1874 e nel 1890, ebbero entrambi una parte di rilievo nell'attacco degli Alleati alla repubblica russa, conseguente alla denuncia (conferenza di Londra del 18 marzo 1918) della pace di Brest-Litovsk tra la Russia e gli Imperi centrali. La loro partecipazione a quell'attacco ha un suo valore emblematico. Era una procedura interventista già il deliberato della conferenza londinese. La Russia aveva mutato regime, a seguito di un colpo di mano rivoluzionario; il nuovo governo teneva testa, non senza serie difficoltà e a prezzo di una guerra civile di imprevedibile durata, alla lotta armata delle truppe «bianche» ribelli ai quattro angoli del paese, dall'estremo Nord all'estremo Oriente, al confine polacco, al Baltico. Rifiutare la scelta armistiziale del nuovo governo, considerata come un «tradimento» dei patti militari del precedente governo, è, sul piano del diritto internazionale, ancora più grave della scelta nazista di invadere l'Italia a seguito della decisione del governo Badoglio di firmare, separatamente, l'armistizio dell'8 settembre 1943. Era un intervento diretto nella guerra civile in atto in Russia. Nel 1871, tutto sommato, i Prussiani accampati vicino Parigi erano «rimasti a guardare» mentre si svolgeva, tra marzo e maggio, la guerra civile tra governo Thiers e Comune parigina. Ma nel 1918 i tempi erano cambiati in peggio, dal punto di vista delle «buone maniere»: la guerra in atto ormai da anni «inutile carneficina», secondo la icastica ma impotente definizione del papa) aveva accresciuto i comportamenti criminali dei governi. La guerra fu la matrice di tutto quello che il secolo portò: dall'accantonamento della «democrazia» al genocidio.

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Pagina 231

Si considera sgarbato dire che - nel primo dopoguerra le «liberal-democrazie» hanno via via «passato la mano» ai fascismi al fine di sbarrare la strada alle sinistre. Ma, eventualmente, la cosa si può dire in modo più elegante e certamente più puntuale. I ceti che sorreggevano i partiti che sino ad allora avevano governato (liberali, radicali, ecc.) hanno tolto loro man mano ogni credito, hanno perso fiducia nella «democrazia parlamentare», e hanno optato per il fascismo. Le tensioni sociali, la «paura», il discredito dei sistemi parlamentari hanno spostato l'opinione centrista-moderata verso un tale sbocco. L'appoggio di settori del grande capitale ai movimenti fascisti è stato, ovviamente, vitale, e gli apparati di «ordine pubblico», orientati da quelle decisive forze «retrosceniche» che sono i gradi alti delle burocrazie degli apparati statali, hanno offerto la necessaria copertura logistica e «militare». Quando l'opinione pubblica resta, in maggioranza, estranea a questo smottamento in direziope del fascismo, interviene il golpe pilotato dall'esterno. È il caso dell'Austria, dove alle elezioni generali del 9 novembre 1930 il partito socialista ha oltre il 42% dei voti, ma il 4 marzo 1933 Dollfuss sospende il parlamento, e già il 12 febbraio '34 il partito socialista e i sindacati sono messi fuori legge: Schuschnigg instaura un regime fascista con lo sguardo rivolto a Mussolini, promotore dei «Protocolli di Roma»; l' Anschluss ci sarà solo quattro anni più tardi. In Ungheria Horthy e in Ispagna Primo de Rivera assolvono ad analoga funzione.

Socialisti profondamente sensibili ai valori della democrazia, come Bruno Bauer, hanno vissuto direttamente questa grande delusione: il rapido deteriorarsi della liberal-democrazia nei paesi in cui essa era venuta affermandosi dopo il terremoto del 1918. Uomini come Bauer avevano via via, nel vivo della lotta politica di quegli anni, polemizzato col settarismo dei comunisti specie in riferimento alla insanabile lacerazione della sinistra weimariana. Ma quello che, a cose fatte, parve loro prevalente sul piano delle responsabilità storiche e, quindi, della diagnosi intorno all'intero processo storico di cui erano stati testimoni, fu il fatto incontrovertibile della scelta operata dai ceti borghesi in favore del fascismo.

Scelta di cui fu aspetto complementare l'accettazione del fascismo come «normalità» e l'apprezzamento per esso da parte delle «grandi» nazioni rimaste a regime parlamentare: la Francia (finché lo fu, e che almeno dal febbraio 1934 cominciò ad essere teatro di un allarmante attivismo di destre eversive, alla fine «sfociate» a Vichy) e l'Inghilterra.

Si suole citare un celebre passaggio del discorso di Winston Churchill alla Lega antisocialista britannica (18 febbraio 1933):

Il genio romano impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente, ha mostrato a molte nazioni come si può resistere all'incalzare del socialismo e ha indicato la strada che una nazione può seguire quando sia coraggiosamente condotta. Col regime fascista, Mussolini ha stabilito un centro di orientamento dal quale i paesi che sono impegnati nella lotta corpo a corpo col socialismo non devono esitare ad essere guidati.

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Pagina 365

Quella che invece, alla fine - o meglio allo stato attuale delle cose - ha avuto la meglio è la «libertà». Essa sta sconfiggendo la democrazia. La libertà beninteso non di tutti, ma quella di coloro che, nella gara, riescono più «forti» (nazioni, regioni, individui): la libertà rivendicata da Benjamin Constant con il significativo apologo della «ricchezza» che è «più forte dei governi»; o forse anche quella per la quale ritengono di battersi gli adepti dell'associazione neonazista newyorkese dei «Cavalieri della libertà». Né potrebbe essere altrimenti, perché la libertà ha questo di inquietante, che o è totale - in tutti i campi, ivi compreso quello della condotta individuale - o non è; ed ogni vincolo in favore dei meno «forti» sarebbe appunto limitazione della libertà degli altri. È dunque in questo senso rispondente al vero la diagnosi leopardiana sul nesso indissolubile, ineludibile, tra libertà e schiavitù. Leopardi crede di ricavare questa sua intuizione dagli scritti di Linguet e di Rousseau: ma è in realtà quello un esito, un apice della sua filosofia. Linguet e Rousseau dicono meno. È un punto d'approdo, inverato compiutamente soltanto nel nostro presente, dopo il fallimento delle linee d'azione e degli esperimenti originati da Marx. La schiavitù è, beninteso, geograficamente distribuita e sapientemente dispersa e mediaticamente occultata.

Scrive Leopardi nello Zibaldone:

È cosa osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social, liv. III, ch. 15, ed altri. Puoi vedere anche l' Essai sur l'indifférence en matière de religion, ch. X, nel passo dove cita in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore). Dal che deducono che l'abolizione della libertà è derivata dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi, questo accade perché non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è falsa, perché la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e che ho toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che l'abolizione della schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o vogliamo, che tutte due sono provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto. La conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità della schiavitù ne' popoli precisamente liberi, è verissimo.


Per ritornare dunque al punto da cui siamo partiti, i bravi costituenti di Strasburgo, i quali si dedicano all'esercizio di scrittura di una «costituzione europea», una sorta di mansionario per un condominio di privilegiati del mondo, mentre pensavano, tirando in ballo il Pericle dell'epitafio, di compiere non più che un esercizio retorico, hanno invece, senza volerlo, visto giusto. Quel Pericle infatti adopera con molto disagio la parola democrazia e punta tutto sul valore della libertà. Hanno fatto ricorso - senza saperlo - al testo più nobile che si potesse utilizzare per dire non già quello che doveva servire come retorica edificante, bensì quello che effettivamente si sarebbe dovuto dire. Che cioè ha vinto la libertà - nel mondo ricco - con tutte le terribili conseguenze che ciò comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche, e sarà pensata, daccapo, da altri uomini. Forse non più europei.

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