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| << | < | > | >> |IndiceLibri in cattività VII 1. La biblioteca 3 2. «Timeo hominem unius libri» 17 3. Bibliomania 29 4. Il libro-biblioteca 39 5. Libro e libertà 49 6. «Liber» 75 Referenze bibliografiche 79 |
| << | < | > | >> |Pagina 3La bibliotecaCi sono romanzi nella cui vicenda la biblioteca è un luogo determinante. Essa è ad esempio la fonte della follia di Don Chisciotte. È il luogo dove Mathilde de la Mole visita impunemente Julien Sorel. È il luogo dove il Gattopardo illustra al suo interlocutore piemontese Chevalley la propria visione del mondo e il conseguente rifiuto del seggio senatoriale. È nella biblioteca che Nicolaj Bolkonskij si congeda dal principe Andrea, e quel colloquio racchiude, in germe, gli sviluppi ulteriori della vita dello sfortunato principe. L'autore approfitta di tali circostanze, dalla sua fantasia create, per dare corpo, non di rado, alla propria biblioteca ideale. [...] Dopo di che segue una scena nella quale si parla dei libri come di creature animate. Il curato dapprima rilutta e chiede al barbiere di passargli i libri «a uno a uno, perché poteva darsi che ce ne fossero di quelli che non meritavano il castigo del fuoco». Ma la nipote di Don Chisciotte è irremovibile: «Non bisogna risparmiarne nessuno, perché son stati tutti responsabili del male»; e la governante è immediatamente d'accordo: «tanta era la voglia che avevano entrambe di dar morte a quegli innocenti» Quando Don Chisciotte si desta, la sua prima cura è di correre dai suoi libri (capitolo settimo). Ma si scontra con il drastico provvedimento dei suoi «salvatori», i quali non solo gli hanno bruciato i libri ma gli hanno fatto murare la stanza dove quelli erano raccolti. Don Chisciotte si alzò e la prima cosa che fece fu di andare a vedere i suoi libri, e non trovando più la stanza dove l'aveva lasciata, l'andava cercando di qua e di là. Giunto dove soleva esserci la porta, toccava con le mani, poi girava e rigirava gli occhi per ogni dove, senza dir parola; ma alla fine, dopo un bel po' di tempo, domandò alla governante da che parte stava la stanza coi libri. La governante, che già sapeva quel che doveva rispondere, gli disse: — Che stanza? che cosa va trovando? Non c'è più né stanza né libri in questa casa, perché si è portato via ogni cosa il diavolo in persona. Interviene la nipote e tira in ballo un mago che, «arrivato su una nuvola» e «smontato da un serpente», avrebbe portato via stanza e libri «per l'inimicizia che portava al padrone di quei libri». Don Chisciotte si adatta a questo pensiero, conformandolo subito al suo mondo mentale: «Sì, è vero – disse – è un mago incantatore mio gran nemico, perché sa che con l'andar del tempo dovrò venire a battaglia con un cavaliere che lui protegge, e che debbo vincerlo, e lui non potrà farci niente, e per questo cerca di farmi tutti i dispetti che può». È il medesimo mago cui, al principio delle sue avventure, Don Chisciotte attribuirà (capitolo ottavo) la perfida trasformazione dei giganti – o meglio di quelli che tali a lui apparivano – in mulini a vento. Così, all'apparenza, Don Chisciotte s'acqueta. Per quindici giorni è 'normale', discorre col curato dell'opportunità di ripristinare la cavalleria errante. E medita freddamente la fuga. Si provvide di camicie e di quant'altro poté, secondo il consiglio che gli aveva dato il locandiere; e fatte tutte queste cose, senza che Sancio Panza si congedasse dalla moglie e dai figli, né Don Chisciotte dalla sua governante e dalla nipote, non veduti da nessuno uscirono dal paese, una notte, nel corso della quale camminarono tanto che quando albeggiò si considerarono ormai sicuri che non li avrebbero più trovati neanche se avessero cercato d'inseguirli.
Una scena seria, tragica, narrata con grande rispetto e adesione. Nell'animo
di ogni «pazzo di libri» è in agguato, in un angolo del cervello, la fuga di
Tolstoj.
Don Chisciotte – che, a furia di leggere, entra nel mondo dei suoi libri, ragiona come se fosse egli stesso un soggetto di quei libri e addirittura vive con quei personaggi – è una creazione inquietante, che incombe, per così dire, come esito possibile sul mondo dei lettori. Un esito ancor piu impressionante, ma con intento scherzoso, raffigura Luciano di Samosata ad illustrazione degli effetti del teatro.
Si narra che al tempo di Lisimaco [che fu sovrano di Macedonia intorno al
310 a.C.] scoppiasse ad Abdera un'epidemia, i cui sintomi erano questi: dapprima
tutti furono in preda alla febbre, e questa durò vigorosa per sei giorni; al
settimo giorno, ad alcuni una forte emorragia dal naso, ad altri il
sopraggiungere di un abbondante sudore scacciarono la febbre. Ma la malattia
ridusse i loro cervelli in una condizione ridicola: s'infatuarono tutti per la
tragedia e andavano gridando giambi a squarciagola, declamando soprattutto
monodie dall'
Andromeda
di Euripide e a turno recitavano la tirata di Perseo; e la città era piena di
tali tragici 'del settimo giorno', pallidi e smunti, che andavano gridando:
O tu Eros, tiranno degli dèi e degli uomini!,
con quel che segue. La cosa durò a lungo, finché il sopraggiungere dell'inverno
ed un gran gelo li fece smettere di delirare.
Ed ecco la spiegazione, come la suggerisce Luciano: Secondo me, l'occasione la fornì Archelao, l'attore tragico allora in voga, il quale nel pieno dell'estate con un caldo torrido mise in scena l'Andromeda: la conseguenza fu che i più uscirono dal teatro con la febbre, e il giorno dopo, quando si svegliarono, ripiombarono nella tragedia, perché avevano Andromeda fissa in capo, e Perseo con la Medusa assediava la mente di ciascuno (Come si scrive la storia, capitolo 1). Quello che la lettura individuale può sul singolo, qui diventa «epidemia». | << | < | > | >> |Pagina 26Ma la biblioteca può trasformarsi in un inferno, in un luogo di scontro tra i libri, come accade nella Battaglia combattuta venerdì scorso trar libri antichi e quelli moderni nella biblioteca di St. James, frutto della invenzione di Swift (1720). I libri di Swift sono animati – gli autori continuano a vivere dentro di loro – e pugnaci.Quando uscirono le opere di Scotus, esse furono portate ad una certa grande biblioteca dove fu loro assegnato un alloggio; ma non appena si fu sistemato, questo autore andò a far visita al suo maestro Aristotele, e tutti e due si misero a complottare per prendere Platone con la forza e buttarlo fuori dal suo antico posto tra i teologi, dove aveva dimorato in pace quasi ottocento anni. Questo il remoto avvio di una vicenda che si fa sempre più drammatica fino all'intervento di autori moderni e modernissimi, come Temple e Bentley, disarmato in extremis da Pallade che rende di piombo la punta della sua lancia! È una invenzione, quella dei libri viventi, di cui si è ricordato Bernard Pivot nella sua brillante presentazione della Bibliothèque idéale (Albin Michel, Paris 1988), là dove descrive la lotta da lui quotidianamente condotta, nella solo apparente bontà di rapporti che regna tra lui e i suoi libri, contro í libri che diventano man mano i padroni della sua casa e del suo spazio («Les livres sont des envahisseurs, ils se rendent maitres des lieux»). E ne raffigura l'invasione irresistibile con l'immagine dell'invasione di lumache narrata nei romanzi di Patricia Highsmith. Ma l'antecedente del libro vivente è molto più remoto: risale – come vedremo – al poeta latino Ovidio al tempo dell'imperatore Augusto. Vano è riguardare i libri con spirito di dominio, con l'intento di sopraffarli. Nell' Uomo senza qualità, capitolo 100 della prima parte, Musil fa «penetrare» il generale Stumm nella Oesterreichische Nationalbibliothek come tra «linee nemiche». Tutta la tormentosa (per lui) vicenda della visita alla biblioteca viene vissuta e ripensata da Stumm in termini militari: le file di scaffali zeppe di volumi gli sembrano «linee nemiche», e leggere i libri è per lui come, in guerra, uccidere i soldati nemici. (Talora Musil gli attribuisce considerazioni geniali: come quando, introdotto nell'ufficio del Catalogo, il generale immagina di «essere entrato nell'interno di un cervello»). Il generale, il quale è entrato in biblioteca per trovarvi, in un libro, la «grande idea» per dar vita alla «azione parallela», si rende conto ben presto che i paragoni che gli vengono in mente sono inadeguati. Ma percepisce anche che c'è qualcosa di insensato e allarmante insieme in quell'incremento infinito dei libri. Quando vedo che la passeggiata [tra gli scaffali] non finisce e chiedo spiegazioni al bibliotecario, sai quanti volumi contiene quella dannata biblioteca? Tre milioni e mezzo m'ha risposto! Siamo circa al settecentomillesimo, dice lui [...]. In quel momento mi sono fermato su due piedi e tutto l'universo mi è sembrato un grande imbroglio. Anche adesso che mi sono calmato, ti dico e ti ripeto: qui c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato! | << | < | > | >> |Pagina 36Dopo di che il grande matematico co-fondatore dell' Encyclopédie passa ad una aneddotica sul tema della «bibliomania». «Ho sentito dire da uno dei più begli spiriti del nostro tempo ch'egli era pervenuto a farsi una bibliotheque très choisie in un modo singolarissimo». Una biblioteca che occupava pochissimo spazio. Se comprava, lo stravagante, un'opera in dodici volumi dove «non c'erano che sei pagine che meritavano di esser lette, lui le estraeva e gettava via il resto». E D'Alembert commenta: questo modo di mettere insieme una biblioteca mi andrebbe bene! Quindi ricorda la 'malattia' di quel tale che collezionava fanaticamente libri di astronomia pur ignorando completamente la disciplina. E infine il caso grottesco – degno di un personaggio di Molière – di quel maniaco che faceva rilegare splendidamente i libri suoi, dopo di che, per non sciuparli, quando gliene serviva uno, lo andava a chiedere in prestito altrove! Quindi conclude con un motto lapidario: entrando in una biblioteca, un filosofo potrebbe ben dire Quam multis non indigeo!, «Que de choses dont je n'ai que faire...».
Il caso estremo di questa patologia è il crimine. Johann Georg Tinius
(1764-1846), pastore a Poserna in Sassonia, autore di vari omicidi a scopo di
rapina, commessi al fine di poter disporre di danaro: danaro che si convertiva
immediatamente in libri. Dotato di una memoria prodigiosa, coniugava qualunque
altra attività con la lettura; era giunto a riconoscere i diversi luoghi di
stampa dei volumi già solo all'odore. Scoperto, alfine, per una sua imprudenza
nel 1813, fu condannato, dopo un lungo processo indiziario, a dodici anni di
reclusione (attenuanti l'età, la malattia). Non confessò mai i suoi crimini. Una
volta in carcere, lontano dalle decine di migliaia di volumi che aveva
accumulato, scrisse in modo torrenziale: una lunga autobiografia, intitolata
Vita straordinaria e istruttiva del Magister Johann Georg Tinius,
un trattato di esegesi biblica (apparso nel 1820 e ripubblicato in seconda
edizione nel 1845) mirante a dimostrare «Che Gesù, dopo la Resurrezione, visse
ancora 27 giorni sulla terra», un commento al Vangelo di Giovanni, e altro
ancora. La sua storia ha suscitato, di recente, un racconto:
Der Buchtrinker (Il bevitore di libri),
di Klaas Huizing (1994). Narra di un altro bibliomane che si invaghisce del
'modello' Tinius, sprofonda con la fantasia nel mondo patologico di Tinius e si
persuade del profondo parallelismo tra la vita del suo eroe e la vita di Gesù.
Alla fine si persuade di aver scoperto la chiave per entrare nel segreto di
Tinius: Tinius scriveva
per lui,
per il suo lettore, e per avvertirci dell'imminente pericolo del mondo
civilizzato.
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