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| << | < | > | >> |IndiceDoppiezza IX 1. «Attinenze cospicue» 3 2. Una anomalia italiana 5 3. Programma «rei publicae constituendae» 9 4. «Mi notano di più se non ci sono?» 15 5. «Stile» e governo 19 6. Il superpartito. Declino dei partiti 23 7. Morti sul lavoro e sinistra di «governo» 33 8. Il prezzo dell'investitura 41 9. La giornata dell'orgoglio 45 10. Rifondazione? 49 11. «Per la contradizion che nol consente» 53 12. Governismo al capolinea 57 13. Il ritorno del suffragio ristretto 65 14. Bilancio 69 |
| << | < | > | >> |Pagina IXAll'inizio del Novecento la maggiore enciclopedia francese, alla voce Suffrage, dava del suffragio universale questa perplessa definizione: «È entrato a far parte dei nostri costumi nonostante le obiezioni di principio che si ha ben il diritto di rivolgere a tale pratica e nonostante l'esperienza che se ne è fatta». Riconosceva però che tale pratica «semplificatoria» ha «prevenuto o deviato íl fenomeno della sommossa e l'ha rimpiazzata con la scheda elettorale messa nelle mani di ciascun cittadino, fosse anche il più umile». Riflettendo sull'esito deludente del suffragio universale, Gramsci coniò (seconda metà del 1933) il termine «elezionismo». È lecito chiedersi se un tale neologismo implicasse in lui l'intuizione del carattere transitorio di tale «pratica». Ad ogni modo, avvertiva che «la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall'influsso della ricchezza». Nessuno di questi due autori avrebbe potuto prevedere che, a lungo andare, la cultura politica che si autodefinisce 'democratica' avrebbe preso a parlare del 'popolo' con disappunto e financo con sussiegoso disdegno. Ovviamente si può senz'altro demonizzare la nozione e la parola «popolo». Nihil obstat. Vi è una lunga tradizione anti-popolare, talora aristocratica, talora oligarchica, talora elitistica, che affonda le proprie radici nel pensiero classico, da Platone a Tocqueville («disprezzo e temo la folla» scrisse quest'ultimo in un appunto privato). Ma una tale tradizione, discutibile quanto si voglia, aveva la limpidezza di non mascherarsi, di parlar chiaro e senza funambolismi lessicali: diversamente dagli odierni democratici, fustigatori di ciò che nebulosamente bollano come 'populismo' non avendo l'onestà di interrogarsi sul nesso tra le proprie scelte e il conseguente successo del torbido fenomeno, snobisticamente definito 'populista', che da anni ormai li tiene in scacco. Ed è, sia detto senza ironia, certamente lecito mostrar fastidio, e forse ormai repugnanza, verso il dettame da cui prende avvio la nostra Costituzione («la sovranità appartiene al popolo»): a condizione però che non si pretenda, barricati dietro lo spregiativo neologismo «sovranismo», di avallare codesta repugnanza come la modalità odierna dell'esser democratici. Seguitare a proclamarsi tali agendo, nella prassi, secondo una prospettiva elitistica, questa sì che è vera 'doppiezza'. | << | < | > | >> |Pagina 3L'Italia di oggi non rassomiglia quasi per nulla a quella scaturita dall'azione convergente del primo (vero) centro-sinistra, fortemente voluto da Pietro Nenni, e del sindacato italiano nel momento della sua maggiore unità e del suo maggior prestigio. A quella, remota, stagione riformatrice tennero dietro crisi, tensioni, colpi di mano, strategia della tensione, declino, suicidio delle principali forze politiche. Ma, per tenerci soprattutto all'ultimo tempo della nostra vicenda, possiamo ragionevolmente affermare che, tra i fattori che più hanno pesato, un posto di rilievo spetta al «fattore UE». Che, proprio perciò, non riguarda soltanto il nostro paese. Tra l'invenzione del governo Monti e quella del governo Draghi, circa alla metà del decennio, si colloca la crisi greca del 2015. Ricordiamo la violenza, non solo verbale, e il capovolgimento della verità che caratterizzarono, nella stampa europea e nei luoghi decisionali dell'Unione, la repressione anti-greca. La decisione del governo Tsipras di procedere, nel proprio paese, ad un referendum fu definita «schiaffo all'Europa». E tutto il seguito fu in questo stile. Soltanto tre anni più tardi ci fu l'inutile palinodia di juncker (2 giugno 2018): «Abbiamo calpestato la dignità del popolo greco!». Era vero, ma dirlo tre anni dopo lo schiacciamento della Grecia e l'instaurazione di un governo pronto ad obbedire era offensivo. Il caso italiano è ben più complicato. L'Italia è pur sempre uno dei paesi fondatori dell'UE (tutto partì con i Trattati di Roma del 1957), ed è quindi un pezzo al venir meno del quale crolla tutto il 'domino'. Perciò non si poteva che far ricorso ad un autorevole intervento dall'interno e da molto in alto. Sia nel 2011 che nel 2021 si è capito che l'ingranaggio su cui fare leva per cambiare il governo dell'Italia era la Presidenza della Repubblica. Chi ha messo in moto l'operazione ha ben studiato gli spazi di manovra offerti dal nostro ordinamento, pervenendo alla conclusione che una interpretazione estensiva dei poteri e del ruolo del presidente consentiva di procedere al 'cambio' e alla nascita di governi 'consentanei'. La premessa era, ovviamente, che ci fossero, nell'ingranaggio decisivo, figure disposte ad assecondare una siffatta procedura. E non furono delusi. | << | < | > | >> |Pagina 5Da oltre trent'anni l'Italia vede attuarsi periodicamente soluzioni 'irregolari' delle crisi politiche. Ciampi, Monti, Draghi. Da tempo i presidenti della Repubblica si regolano come se fosse in vigore da noi la Costituzione della Quinta Repubblica francese, o forse pensano che sia ritornato lo Statuto Albertino: convocano 'qualcuno' che metta le cose a posto. A ben vedere però il 28 ottobre 1922, vigente quello Statuto, il convocato era pur sempre un membro del Parlamento, esponente, certo, di una minuscola formazione politica. Nel 'caso' Monti, di cui Alan Friedman, in un noto libro, parlò come di un «colpo di Stato», Napolitano fece comunque ricorso alla nomina a senatore a vita del convocato il giorno prima di convocarlo. (Enorme passo in avanti rispetto al modus operandi di Caligola.) Ciampi era pur sempre il governatore della Banca d'Italia (e a pochi anni di distanza fu la volta anche dí Lamberto Dini). Il presidente dell'epoca aveva in mente il precedente di Luigi Einaudi? Il quale ad ogni modo, prima di essere portato al Quirinale da un voto parlamentare, era stato eletto alla Costituente e poi designato senatore di diritto nella prima legislatura repubblicana. Il caso-limite, privo di possibili richiami ad un 'precedente', è invece quello di Mario Draghi. Anche Erdogan, definito proprio da Draghi «un dittatore» (per ripicca allo «sgarbo della sedia»), è stato eletto. Anche Putin, quantunque ciò dia noia ai nostri opinionisti, che fatuamente lo chiamano «zar», è stato eletto e rieletto. E persino l'impresentabile Bolsonaro! Ma, se vogliamo dirla tutta, anche i capi sovietici venivano fuori da una severa selezione nell'ambito di un corpo sociale decisivo e, per decenni, effettivamente rappresentativo quale «il Partito». Non venivano calati dall'alto da qualcuno convinto di avere il potere di farlo. Insomma, questa anomalia tutta italiana, quasi retaggio di pratiche «ancien régime» (il re convoca Necker, ma, se del caso, lo congeda ecc.), è uno dei fattori del crescente discredito del Parlamento e dei partiti politici. | << | < | > | >> |Pagina 53Comunque, in questa situazione sospesa e carica di incertezze la posta in gioco è, più che mai, la sopravvivenza di ciò che ancora resta dello «Stato sociale». Dalle forze prevalenti al vertice UE esso è visto come un ingombro e come il fossile di un'altra era geologica. Visione largamente condivisa dal mondo imprenditoriale. Stentano a resistere contro una tale spinta le forze sindacali, prive ormai di una sponda politica nel mondo dei partiti, piantate in asso dal presidente del Consiglio nell'incontro-scontro sulle pensioni dello scorso 26 ottobre. E paralizzate dal fatto che il conflitto sociale diviene asimmetrico quando fuoriesce dal contesto nazionale, dove invece l'azione sindacale può ancora risultare incisiva. Ora si tende sempre più a proiettarlo verso una controparte lontana e di fatto inattingibile, le cui direttive, proprio in ragione di tale asimmetricità, risultano irresistibili. Solo modificando in radice i cardini su cui fu costruita l'UE, messi in quarantena sol perché il contagioso malanno ha colpito anche i paesi direttivi, si potrà venir fuori dalla tenaglia. Il presupposto, quasi esplicito, su cui sorse l'UE fu che i paesi 'peccatori' (Italia e Grecia in particolare) avevano vissuto fino ad allora al di sopra delle loro possibilità, eccedendo in spesa pubblica ovviamente non immediatamente redditizia. Ricordiamo le prediche in proposito. Certo, ogni tanto ci viene detto che basterebbe l'importo dell'italica evasione fiscale per risanare il debito che ci strangola e ci rende sorvegliati speciali all'interno della UE. Ogni volta però si conclude, con un sospiro, che si tratta di un male incurabile. E allora, ancora una volta, non resta che «pestare» quelli che «stanno sotto». E anche, forse soprattutto, a tal fine, si provvede ad instaurare, di volta in volta, un esecutivo «europeista». Il teorema non fa una grinza. Salvo che in un punto fondamentale, che vorremmo qui brevemente tratteggiare: alle vere e ataviche carenze italiane potrebbe porre rimedio un gigantesco investimento che incrementi proprio la pubblica amministrazione, ma questo è l'esatto contrario di ciò che «chiede l'Europa». È lamento quotidiano, e ben fondato e largamente condiviso, che da noi manchi adeguato e sufficiente personale in tanti settori vitali: magistratura (giudici e cancellieri: il commissario UE alla giustizia ce lo rimproverava cifre alla mano esattamente il 9 luglio scorso), ispettori del lavoro (le morti bianche sono íl nostro flagello quotidiano), scuola (abbiamo ancora le vergognose classi-pollaio di gelminiana memoria particolarmente pericolose sotto ogni rispetto), guardie carcerarie (le vicende e i pestaggi recenti sono una macchia), sistema sanitario nazionale (il lamento in proposito fu molto forte quando l'epidemia sembrò soverchiante). E si potrebbe seguitare. Ci ordinano contemporaneamente di ridurre la spesa pubblica, di far funzionare il nostro paese (e di saldare prima o poi il debito). Arduo: «né pentère e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente» ( Inferno, XXVII, 119-120). | << | < | > | >> |Pagina 60Abbiamo considerato sin qui, nei capitoli che precedono, soprattutto gli aspetti di decadimento politico e impoverimento culturale: scadimento che ha investito sia la capacità di analisi che la prassi. Sappiamo però che, al di là dell'inadeguatezza soggettiva, ci sono cause più profonde di cui è necessario tener conto. È infatti la compagine sociale che è venuta trasformandosi. Ciò che solo in parte celiando chiamiamo «ex sinistra» ha arrancato, anche volenterosamente, dietro queste mutazioni strutturali (che hanno reso obsolete alcune sue antiche certezze) finendo per scegliere la 'scorciatoia' del governismo, nella convinzione di poter svolgere solo così un ruolo positivo-incisivo di validità 'generale' e non in funzione di alcuni spezzoni della società. Ora sappiamo che è stata in larga parte una illusione: le forze direttive della società (che ritengono, o mostrano di ritenere, che l'esplicazione dei loro privilegi sortisca di per sé effetti positivi anche sull'intero corpo sociale) hanno ripreso in pieno le redini. La «visione generale di governo» della ex sinistra è finita su di un binario morto. E, soprattutto, il modificarsi e frantumarsi delle «classi» non implicava affatto che «il popolo» fosse scomparso; era diventato altro, e aveva preso altre strade: talora inquietanti. Nella inconsapevolezza di ripetere vecchi errori, frutto di vecchi e già sperimentati abbagli.Questo è il cimento arduo a fronte del quale paiono inadeguati sia i «governisti di sinistra» che i cultori puri delle passate certezze, sempre più scollegate dalla realtà effettuale. Ad entrambi manca (e manca purtroppo anche oltre i confini di ciò che fu «la sinistra» nelle sue varie declinazioni) una conoscenza analitica, scientifica, dell'assetto, dei conflitti, delle prospettive, di una realtà economico-sociale sempre più vasta geograficamente e sempre più interconnessa, sempre meno dicotomica, e quindi sempre più refrattaria a visioni, a diagnosi e a soluzioni manichee. Il tutto in un ambiente quasi irreparabilmente inquinato, mentre ognuno sa che lo standard di vita di una minoranza agguerrita (e gelosa della conquistata «democrazia dei signori») sarebbe insostenibile ove anche «gli altri» lo pretendessero per sé. Certo, la «ex sinistra» non può d'improvviso «sollevare il mondo con una leva»: ma di sicuro trarrebbe vantaggio se adottasse un orientamento opposto a quello su cui ha puntato negli ultimi decenni. Dovrebbe re-imparare a guardare verso il «basso», prima che sia troppo tardi e prima che, in blocco, chi sta «in basso» si identifichi con le pulsioni malsane e seduttrici della «destra popolare». La ex sinistra si condanna all'irrilevanza se continua a stare a fianco di quella parte della società che se la passa bene e che ingiunge all'altra parte di rassegnarsi «patriotticamente» alla perdita dei capitali diritti così faticosamente conquistati.
Non crediamo, ovviamente, che l'orticello nazionale
basti, o che funzioni come una monade, e che si tratti
ormai unicamente di rincorrere il «popolo di destra»
scivolato in braccio alla «destra popolare». Non possiamo però nasconderci che
va riconquistato. E riconquistarlo almeno in parte si può, facendo chiaro, ad
esempio, che la grande migrazione di popoli è un fatto
planetario e strutturale, frutto delle politiche imperialistiche dei potentati
economici (oggi indisturbati) ed eredità del vecchio imperialismo. E chiarendo
che, se è vero che í migranti non sono una classe sociale, è però
vero che essi costituiscono oggi il problema: che non si
risolve con le cannonate.
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