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| << | < | > | >> |Indice1. Lo spettro torna a sorridere 9 2. Generazione Porto Alegre 35 3. Genova, la nuova Polis 49 4. Un'altra strada per l'umanità 63 5. Identità in movimento 77 6. I figli di Genova 95 7. Argentinazo, la parola al popolo 125 8. L'Internazionale, antidoto alla guerra 141 9. Le idee di Porto Alegre 157 10. I protagonisti 169 11. Da Porto Alegre a Porto Alegre 185 (cronologia) Bibliografia 201 Note 208 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Chi potrebbe dire oggi quali saranno le rivoluzioni del nuovo secolo? E chi potrebbe predire, nel mondo che si frammenta proprio mentre si globalizza, come le rivoluzioni locali o nazionali potranno trascrescere in una rivoluzione mondializzata o in un divenire rivoluzionario mondiale? Chi potrebbe pretendere di detenere la chiave e le forme delle liberazioni future? E chi potrebbe prevedere, per premunirsene, le vecchie e nuove oppressioni che possono ancora spuntare sui rifiuti marci del vecchio mondo? Eppure la vecchia talpa scava ancora. Eppure, lo spettro sorride ancora Perché la storia non è finita e l'eternità non è di questo mondo.
[Daniel Bensaid]
Una nuova fase politica e storica sembra si sia dischiusa con l'avvento del nuovo secolo e del terzo millennio. Di fronte alla proclamata fine della storia, rappresentata dalla chiusura del «secolo breve», un nuovo «spettro» agita i sonni e i vertici dei grandi potenti della terra, siano essi le grandi corporation multinazionali o i governi che ne gestiscono i principali interessi. Uno spettro vitale, giovanile, capace di incunearsi ovunque, fatto di nuove speranze e di una nuova partecipazione politica. La sua nascita non è stata improvvisa, anche se improvviso è stato il suo apparire, in quel novembre del 1999 a Seattle. Da allora il ritmo della contestazione globale è stato incessante e crescente, fino ad arrivare alle meravigliose, agghiaccianti, giornate di Genova. I tasselli che hanno composto e che compongono questo flusso ininterrotto dì iniziative e mobilitazioni sono molteplici, plurali, spesso indefinibili, eppure la traiettoria delle lotte è stata finora lineare, condivisa, consensuale. Man mano che il movimento è cresciuto di forza e di intensità i tentativi di imbrigliarlo e deviarlo sono stati diversi: la repressione, cieca e di proporzioni mai viste; la prospettiva di rimedi contingenti, veri e propri palliativi per aggirare le istanze del movimento e provare ad attrarre i suoi settori più moderati; infine, la guerra globale e planetaria con l'obiettivo di dividere il mondo, nuovamente, in due blocchi contrapposti: il «bene» e il «male». Nessuna di queste trappole ha potuto contenere la piena. Al contrario, di fronte all'asprezza della repressione e di fronte alla palese ammissione di non avere nulla da offrire alle nuove generazioni, queste hanno radicalizzato la propria lotta e le proprie rivendicazioni, dando corpo a un salto di qualità del proprio agire ben evidenziato dalle manifestazioni di Genova, nel luglio 2001, e dall'incontestabile successo del secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre, nel febbraio 2002. Lo «spettro» quindi ritorna, ride e fa sorridere. A dargli forza e sostanza contribuiscono la natura diseguale dello sviluppo capitalistico internazionale, che nella sua crescita progressiva ingloba all'interno delle sue leggi e delle sue regole qualsiasi aspetto del vivere umano, sociale e culturale. La legge del valore non riguarda più solo le merci e coloro che le producono, ma, in forme parossistiche, l'ambiente, la terra, le foreste, l'acqua, la salute, la cultura, la comunicazione, il pensiero, la vita umana, i geni. Questa estensione impetuosa e imprevista del capitale a tutto lo scibile umano si accompagna a un potere inedito della finanza che contribuisce a veicolare un'unica dottrina politica ed economica e una realtà sempre più omogenea su scala mondiale, così che ciò che le politiche neoliberiste, sempre più aggressive e bisognose di profitto, destrutturano e frammentano, viene unificato dalle loro conseguenze. L'intero pianeta lanciato verso la postmodernità allo stesso tempo si «proletarizza» e compone un'intera schiera di genti sfruttate, oppresse, escluse, schiacciate dal dominio del mercato mondiale e cacciate dal palcoscenico necessario alla sua rappresentazione, la grande «zona rossa globale». La distruzione della terra unisce i contadini di ogni parte del mondo e fa sì che questi si alleino alle forze ambientaliste; lo sfruttamento del lavoro minorile lega i sindacati del sud alle associazioni che negli Stati Uniti, il paese maggiormente responsabile della devastazione ambientale e sociale del pianeta, si battono a difesa dei diritti dell'infanzia e che organizzano il boicottaggio delle grandi multinazionali; l'estendersi della disoccupazione favorisce la creazione di reti mondiali dei precari e disoccupati e lo stesso avviene per le donne che tentano di liberarsi dal patriarcato, di difendersi dalla povertà e dalla violenza che le colpisce anche per il diffondersi del liberismo. Il flusso ininterrotto della globalizzazione capitalistica crea esso stesso le proprie resistenze, i proletari postmoderni, che sono naturalmente molteplici e disseminati ovunque, così come molteplici e diffusi sono gli interessi del capitale mondiale. I proletari postmoderni scoprono così che l'avversario non è invincibile come sembra e che, anzi, soffre di una evidente crisi di consenso e di legittimità. Fallisce nel tentativo di dare vita all'Ami, l'accordo multilaterale sugli investimenti; rimane in ginocchio a Seattle, si schianta a Buenos Aires, manda in rovina una sinistra stanca di lottare e bisognosa di una legittimazione padronale. Questo declino, se da un lato offre il viatico alle componenti conservatrici più reazionarie, populiste e militariste, a cominciare dagli Usa di Bush jr., allo stesso tempo apre una falla nel pensiero unico in cui un esercito di ribelli e di «sognatori» è riuscito a penetrare. I proletari postmoderni chiedono la più semplice e la più difficile delle rivendicazione: la democrazia, contraddetta spregiudicatamente dagli istituti finanziari internazionali, dalla contestuale erosione del potere degli Stati (quelli più deboli, evidentemente, mentre i più forti si rafforzano), dall'omologazione delle forze politiche attorno ai dogmi del liberismo e, infine, dalla corruzione e dalla commissione illecita tra economia e politica. La grande giostra del mercato globale vive e si mantiene grazie all'assenza di democrazia, espellendola ininterrottamente. Smentire questa impalcatura, rivendicare che «questo mondo non gli appartiene» e che le sue sentinelle sovranazionali, il Fondo monetario o l'Omc, non hanno alcuna legittimità, sembra non solo giusto, ma anche naturale. Così come naturale è l'incontro con il municipio di Porto Alegre, sede del bilancio partecipativo, in breve tempo la bandiera internazionale di chi intende «riappropriarsi del proprio mondo». I proletari postmoderni, infine, si presentano con un volto nuovo, forti dell'irruzione sulla scena politica di una nuova generazione, immemore della storia del Novecento, ma anche delle sue sconfitte e delle sue tragedie; inconsapevole delle macerie prodotte dalla fine delle illusioni e delle ideologie, non costretta a dividersi tra due blocchi contrapposti e speculari e quindi più libera e leggera di aspirare a un «altro mondo possibile». Una generazione che si è saputa collegare alle migliori esperienze di quella precedente, cresciuta sull'onda del'68 e del ciclo di lotte sociali che hanno mantenuto vigore fino alla fine degli anni 70. Una generazione che ha cominciato a spendersi non solo per migliorare la propria condizione materiale, ma per esigere un cambiamento radicale, esplicitando così una carica anticapitalistica, per quanto latente e inconsapevole. E che ha scoperto, a Porto Alegre, l'internazionalismo nella sua forma più genuina e generosa. | << | < | > | >> |Pagina 35Dopo il giro di boa rappresentato dalle tragiche e splendide giornate di Genova, il secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre apre una nuova fase nel movimento antiglobalizzazione. Previsto un anno prima, al termine del primo forum mondiale, prima che ci fossero Genova, l'l1 settembre e l'avvio della guerra globale, il secondo forum si è caricato di una valenza decisiva, un passaggio fondamentale per il futuro del movimento, chiamato a dimostrare la propria consistenza, la propria capacità di proposta, ad affrontare la sfida imposta da un clima di guerra permanente in gran parte scagliata contro di esso. Che si trattasse di un successo politico e insieme mediatico, era chiaro già da tempo. Da quando il pallottoliere della partecipazione non la smetteva di gonfiarsi mandando in tilt le previsioni del comitato organizzatore brasiliano. Prima diecimila, poi venti, infine cinquantamila: la partecipazione al Forum sociale mondiale stava superando, come poi ha fatto, le migliori attese. Alla fine saranno circa quindicimila i delegati, cinquemila le organizzazioni, oltre cinquantamila i partecipanti. Ma i numeri segnalano solo l'aspetto più visibile del fenomeno, anche se in questo caso il dato quantitativo è direttamente connesso a quello qualitativo. Il forum è in realtà la consacrazione del movimento, la dimostrazione del suo radicamento, del suo essere parte attiva della scena mondiale e della sua capacità di influire sugli eventi. La prova più evidente si avrà al momento dell'inaugurazione del World Economic Forum di New York, ex Davos. Se negli scorsi anni, fino al 2000 per la precisione, l'appuntamento che riunisce il gotha della politica, della finanza e dell'intellettualità economica internazionale dominava la scena mediatica, nel giro di due anni la situazione si rovescia: nel 2001 l'avvenimento di Davos e quello di Porto Alegre hanno la stessa visibilità e la stessa «copertura» giornalistica nel 2002, nonostante il vertice economico venga spostato a New York, e quindi benefici della retorica post-attentati, il confronto si rivela perdente: l'avvenimento di Porto Alegre catalizza le speranze di molti e le preoccupazioni di pochi, costituendo una vera e propria vittoria simbolica. In tempi di parossismo della simbologia non è poco. FINE DI UN INCUBO Ma il Forum rappresenta soprattutto la fine di un incubo, quello della guerra. Se dopo gli attacchi dell'll settembre il movimento è stato sottoposto a una pressione formidabile (vedi capitolo 5) con il tentativo di equipararlo al terrorismo islamista - «colpire le Torri Gemelle non equivale in fondo a colpire un McDonald's?», si domandava Naomi Klein commentando lo shock newyorkese - e con il progetto di creare una situazione di guerra permanente tale da favorire un clima di emergenza, di cui la violenta repressione di Genova non rappresentava che un primo tassello, con Porto Alegre questa cappa è stata scoperchiata, il tappo fatto saltare, l'aria è ritornata a fluire nei pori del movimento internazionale, finalmente ritrovatosi insieme e unito. A partire dal rifiuto della guerra, oltre che dalla condanna del terrorismo. Il dato appare incredibile agli stessi organizzatori. Tra di loro nessuno riesce a credere che a pochi mesi dall'11 settembre oltre 5Omila persone siano in grado di partecipare a questo tipo di manifestazione, che siano disposte ad affollarsi per ascoltare Noam Chomsky secondo cui «i veri terroristi sono gli Stati Uniti», a dare vita a un documento dei movimenti sociali in cui il rifiuto della guerra e del liberismo sono le due coordinate fondamentali per descrivere il raggio d'azione del movimento internazionale. A contribuire a questa «liberazione» hanno concorso almeno tre elementi. Il primo è la capacità di proposta del movimento che ha fatto piazza pulita del mito della protesta violenta: circa 800, tra seminari, workshop e conferenze plenarie, costituiscono una piattaforma programmatica articolata e sterminata capace di far impallidire qualsiasi convegno scientifico internazionale. Di fronte a una simile quantità di dati, di idee, di progetti, l'immagine del «no-global spaccavetrine» viene incrinata per lasciare maggiore spazio a una figura più precisa e complessa che unisce contestazione e pensiero alternativo, protesta pacifica, seppure determinata, e articolazione del linguaggio; radicalità politica e capacità di sostenere un confronto a viso aperto. | << | < | > | >> |Pagina 157Porto Alegre è stato un grande cantiere di idee, di riflessioni e di progetti per un'alternativa al neoliberismo. Non c'è libro, pubblicazione, sintesi o documento in grado di offrirne una esauriente dimostrazione. Non si tratta solo di un problema tecnico, di una difficoltà di catalogazione o di reperimento dei dati. È il carattere sperimentale dell'elaborazione e l'approssimazione delle risposte che impone una frammentarietà e una diluizione dei temi, necessariamente giustapposti o sovrapposti, accennati o controversi. Eppure nel corso di un anno, da un Forum all'altro, si è percepito un salto di qualità, frutto di un diverso grado di maturazione del movimento, passato per il battesimo di diversi fuochi - Genova, Goteborg, Nizza - e più propenso a una visione d'insieme. Pur rimanendo ancorati alla necessità di fornire proposte concrete, misurandosi sempre con la loro fattibilità, le associazioni, gli intellettuali, le varie figure che hanno animato le centinaia di discussioni hanno il più delle volte rinunciato a una prospettiva di compatibilità con l'esistente, delineandone una di più largo respiro in cui il primato del pubblico, della democrazia e dell'aspirazione al socialismo hanno potuto trovare legittimità e cittadinanza. L'ipotesi di un tribunale popolare sul debito, ad esempio, è stata formulata con la seguente domanda: «Come uscire da una economia di indebitamento per finanziare uno sviluppo sostenibile e socialmente equo, garantendo la soddisfazione dei bisogni umani fondamentali?» La domanda parte dalla considerazione di base secondo cui la logica del mercato non può soddisfare i bisogni essenziali, che solo delle politiche pubbliche potrebbero garantire a tutti e tutte. Nell'ipotesi dell'annullamento incondizionato del debito e nella riparazione dei «debiti storici dell'occidente nei confronti del sud», nella preservazione pubblica dei settori strategici di una società - le riserve e la distribuzione di acqua, la produzione e la distribuzione di elettricità, le telecomunicazioni, la posta, le ferrovie, le imprese di estrazione e trasformazione di materie prime, il sistema creditizio, i settori dell'istruzione e della sanità - c'è quindi una ritrovata centralità dello spazio pubblico dopo decenni di presunto primato del privato e della libera concorrenza. Lo stesso spirito è riscontrabile nell'altra grande istanza del movimento, la richiesta della Tobin tax, cioè la tassa sulle grandi speculazioni finanziarie che costituisce la rivendicazione principale della rete Attac. La Tobin tax, se applicata con un'aliquota irrisoria, lo 0,1%, produrrebbe un gettito tra i 180 e i 300 miliardi di dollari, di per sé una cifra molto rilevante, ma che non costituisce il merito principale di questa misura. Quello che la caratterizza maggiormente è, infatti, la sua natura contraddittoria rispetto alla logica dominante del capitale finanziario, ovvero la sua pretesa di scorrere ininterrottamente e liberamente, occupando tutti i pori della vita sociale, impadronendosi di qualsiasi espressione vivente. La Tobin tax, se applicata, non risolverebbe nessuno dei mali del pianeta; ma se fosse applicata costituirebbe un simbolo inequivocabile di un altro orientamento e di un'altra strada per l'umanità. È la stessa Attac a motivare così questa parola d'ordine: «C'è bisogno di un approccio alternativo alla finanza internazionale. Essa deve poggiare su un'altra concezione della mondializzazione, basata sullo sviluppo stabile, vale a dire un'economia al servizio dell'uomo, rispettosa dell'ambiente e delle diversità dei popoli». Ritornano le suggestioni di poco fa: l'economia al servizio degli uomini e delle donne, fondata su parametri alternativi all'ideologia liberista. Nella stessa direzione va ovviamente la battaglia per la soppressione dei paradisi fiscali, vere e proprie isole finanziarie create ad arte per mettere al riparo capitali enormi da qualsiasi controllo fiscale e pubblico. In queste istanze c'è un recupero della funzione regolatrice dello Stato, tendenzialmente erosa dalla globalizzazione e a cui invece, sostengono in molti, occorre restituire sovranità e titolarità sulle proprie politiche. | << | < | > | >> |Pagina 164La globalizzazione esporta le diseguaglianze e permette al capitale di agire in diversi punti per l'ottimizzazione dei profitti. Questo obiettivo è perseguito con strategie mobili e con una durevole tendenza a considerare lo scacchiere mondiale come il teatro necessario alla propria valorizzazione. Rispondere a questa logica solo con le armi delle proprie cittadelle «liberate» costituirebbe una fantasia debole. Tuttavia, una democrazia mondiale è difficile da progettare. Nella conferenza sul «potere mondiale» si è svolto il dibattito forse più controverso: la proposta della «deglobalizzazione», avanzata da Walden Bello ha creato più di qualche perplessità, nonostante la sua forte carica simbolica e la sua determinazione a smantellare le istituzioni sovranazionali più importanti per sostituirle con forme democratiche originate dal basso. Più tradizionalmente sono state avanzate idee, piuttosto astratte, di un parlamento mondiale o, ancora più semplicisticamente, di riforma dell'Onu. Nel «decalogo per l'alternativa» stilato da un gruppo di intellettuali e studiosi, è stato utilizzato il termine di «sussidiarietà»: tutte le decisioni che possono essere prese localmente devono essere prese a questo livello. «Solo quando un'attività non può essere soddisfatta localmente, il potere e l'attività devono spostarsi a un livello più alto: regione, nazione e, infine, il mondo».Ma in un'epoca in cui la sovranità tende a sfuggire e ad assumere forme mutevoli non si può pensare di risolvere la questione con formule precostituite. Una democrazia sostanziale dovrà probabilmente declinarsi a vari livelli, su una «scala mobile» in cui i diversi piani si sovrappongono pur restando distinti. In uno scenario come quello europeo, non c'è dubbio che bisogna modulare una democrazia dal basso verso l'alto e viceversa, senza coltivare l'illusione che a un popolo corrisponda una nazione e quindi uno Stato, ma combinando democrazia e potere statuale con quello municipale e, infine, con uno spazio europeo, ridisegnato a misura dei soggetti sociali. Quello che si può ricavare dall'esperienza finora maturata è, appunto, un riferimento esemplare e un metodo. UN NUOVO SOCIALISMO Porto Alegre ha infine confermato che la storia non è finita nel 1989. Il socialismo reale, sepolto nelle vicinanze di Alexander Platz o sotto le mura austere del Cremlino, non è riuscito a trascinare nella tomba l'idea che una società nuova, fondata sul primato dei bisogni e non sul profitto del capitale, possa prima o poi avverarsi. La «lotta per il socialismo» ha attraversato gran parte del dibattito di Porto Alegre, continuando a fare capolino nelle tante assemblee e iniziative del movimento internazionale, riannodando un filo spezzato: quello del pluralismo e della democrazia, della partecipazione, della dimensione internazionale, del riconoscimento di un mondo duale, fatto di uomini e donne. L'intellettuale marxista Michale Lowy e il teologo della liberazione, Frei Betto, protagonista di una delle conferenze più affollate, quella sui «Valori di una nuova civiltà» così hanno espresso questo riferimento: «Come riassumere in una parola questo insieme di valori presenti, in una forma o nell'altra, nel movimento contro la giobalizzazione capitalista, nelle manifestazioni di Seattle e di Genova e nei dibattiti del Fsm? Crediamo che l'espressione 'civiltà solidale' sia una sintesi appropriata di questo progetto alternativo. E questo significa non solo una struttura economica e politica radicalmente diversa, ma soprattutto una società alternativa, che valorizzi gli ideali di bene comune, di interesse pubblico, di diritti universali, di gratuità. Proponiamo di definire questa società con un termine che riassume, da circa due secoli, le aspirazioni dell'umanità a un nuovo modo di vivere, più libero, più ugualitario, più democratico e più solidale. Un termine che - come tutti gli altri («libertà», «democrazia», «uguaglianza») - è stato manipolato da interessi profondamente antipopolari e autoritari, ma che non per questo ha perduto il suo valore originario ed autentico: «socialismo».
I valori di una «nuova civiltà solidale» sono oggi
inscritti nelle iniziative, molteplici e capillari, che il
nuovo movimento globale descrive e realizza ogni giorno,
nelle lotte che conduce, nelle esperienze esemplari che
realizza. Sono raffigurate nelle campagne popolari per il
diritto alla terra e a un'alimentazione sicura o per la
cancellazione del debito; nelle lotte per i diritti
sindacali là dove la parola diritto è una bestemmia; nelle
battaglie per la sopravvivenza di popoli indigeni ridotti a
una devastante miseria; nella rivolta di giovani bisognosi
di futuro. È una civiltà in movimento e fatta di movimento.
È la lezione più importante di questa recente ma densa
storia di lotte e di idee. Che permette allo spettro della
Rivoluzione di tornare a sorridere.
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