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| << | < | > | >> |IndiceAvvertenza 6 1. Notturno romano 7 «Immaginazione non significa menzogna» 9 La processione del 15 agosto dell'anno Mille 12 L'intervento dello storico 14 Spettatori 1. La città e gli uomini 19 I linguaggi degli uomini 21 La città di Roma 27 La plebe romana 33 Scene di cittadini in rivolta 37 Soluzioni delle rivolte 44 Il popolo 48 2. Gli uomini e il paesaggio 55 Paesaggi 57 L'incastellamento 62 Il dominio signorile 65 Liberi, non-liberi e cavalieri 67 Gli uomini e la terra 71 Paludi 80 Attori 1. Il sacro e lo spazio 85 Immagini 87 Reliquie 90 I proprietari delle reliquie 96 Spazi sacri 102 Gli spazi immaginari 110 2. Gli uomini e il sacro 115 I tre ordini 117 Alle origini del monachesimo 119 Il monachesimo occidentale 123 Nel 1000 128 Gli uomini della morte 134 Destinatari 1. Il papa 145 Alle origini 147 Vescovi di Roma 150 I vescovi, di nuovo 152 I papi e gli imperi 155 Il papato e la Chiesa del Regno 159 La grande mutazione 162 Gerberto d'Aurillac 166 Gerberto e il mito: dal favoliere di corte al maestro di stile 170 Gerberto nel X secolo 175 2. L'imperatore 181 L'Italia del Sud, confine dell'impero 183 L'impero in Occidente 188 Il regno d'Italia e il secondo impero 193 Bisanzio 199 Greci e Troiani 204 Il sole, il Cristo 207 Vesti e cerimoniali imperiali 213 Ottone III e Roma 220 La processione del 15 agosto dell'anno Mille, di nuovo 223 Mille! 1. Voci della fine dei tempi 229 Il millennio 231 Odone di Cluny (920 circa): una completa visione del mondo 233 Un altro mondo: l'Anonimo di Laon, verso il 960 243 Il mito: Adsone, in Lotaringia, metà del X secolo 247 Gli Ungari: l'Anonimo di Auxerre, verso la metà del secolo 253 La crisi 260 2. Il secolo lungo 263 Ademaro di Chabannes, in Aquitania, intorno al 1030 265 Rodolfo il Glabro, Borgogna, verso la metà dell'XI secolo 275 Pier Damiani, in Italia, alla metà dell'XI secolo 284 «Hic meta verbi» 287 Indice dei nomi propri 289 |
| << | < | > | >> |Pagina 1C'è grande agitazione, oggi, a Roma. I chierici corrono qua e là tutti affannati per sistemare gli ultimi dettagli, i greci di Santa Maria in Cosmedin provano i cori e le voci soliste, le voci sottili e melodiose degli adolescenti, le voci baritonali dei giovani e degli adulti, le voci profonde degli adulti più maturi, dei giovani più virili: non bisogna sbagliare nulla, oggi, né confondersi sul tempo o sul ritmo. Lungo il percorso vengono di nuovo ispezionati i luoghi dove prenderanno posto i portatori di torce, dove vanno collocati i grandi bracieri. Si sta preparando la grande processione. La Vergine passerà per le vie di Roma in mezzo a due ali di popolo. La Vergine incontrerà il popolo di Roma. Lo incontrerà nel nero delle grandi rovine, dei castelli e delle basiliche che la mano di un gigante sembra essersi divertita a spargere per gli immensi spazi della città dei Cesari. La sua processione attraverso Roma sarà come una cavalcata solenne e trionfale attraverso il tempo, unirà le origini all'età contemporanea. Ci sarà il papa. Ci sarà anche l'imperatore. Ha vent'anni. Viene nel centro del mondo da una missione ai confini del mondo, là dove si aprono gli spazi sterminati e pericolosi dai quali sono arrivati tutti i popoli, nati dall'Asia senza fine, la madre delle genti. Non può essere trascurato nemmeno un dettaglio. I preparativi fervono da giorni. Si lustrano e si lucidano le patene e i calici d'oro e d'argento, i turiboli d'oro e d'argento, le croci d'oro e d'argento incrostate di pietre preziose, le custodie d'argento e di smalti piene di reliquie dei santi e dei martiri, i candelabri scintillanti. Dovranno brillare di splendori. Saranno presenti l'imperatore, il papa... Dalle grandi casse sono stati tratti fuori i panni preziosi: i tappeti, i cuscini, le grandi pezze di seta, purpuree, auree, costosissime, talmente care che solo i re più potenti possono permettersele, talmente preziose che i re e gli imperatori se le scambiano con gesto reciproco di cortesia, come dono diplomatico. Le stoffe orientali, i celebri mantelli bizantini adorni di pesanti ricami. I balsami e gli aromi sono pronti. Ora tutto è pronto. Nel monastero di Santa Prassede, come sempre dai tempi di papa Pasquale, i monaci greci continuano a salmodiare notte e giorno, lodando il Signore e i suoi santi. Non resta che aspettare il calar della sera. Allora tutto si metterà in moto, sfilerà per la città. Oggi il tempo è migliore, non c'è neppure una nuvola in cielo. Nella notte accadrà tutto.
È il 15 agosto, nell'anno Mille.
A dire il vero non sappiamo se le cose andassero esattamente così, quel giorno. I protagonisti di quella giornata sono ridotti in terra, in fumo, in ombra, in polvere, in nulla, come scrisse il grande poeta del Seicento, don Luís de Góngora. E «le ombre delle ombre (...) hanno ben poco del calore umano che le ha generate». Abbiamo solo un testo, la forma della processione. Non illudiamoci che questo sia il limite della storia del passato. Forse che noi vediamo direttamente tutti quei volti e quegli eventi di cui siamo spettatori di qua dal televisore? O sono altri che li vedono per noi e ce li trasmettono, pretendendo di farci credere che ce li restituiscono così come sono o come sono avvenuti? Cosa sarebbe di quei volti o eventi virtuali se non entrassimo in rapporto simpatetico, emotivo, sentimentale con loro grazie alle informazioni altrui? Ma questo naturalmente non toglie che gli eventi accadano, infischiandosene della nostra partecipazione. Anche per la storia dobbiamo chiamare in soccorso la nostra capacità di immaginazione e di partecipazione simpatetica: in caso contrario tutta la storia si riduce a un elenco interminabile di sciagure (senza spessore, perché fortunatamente sono troppo lontane da noi) che si sono verificate comunque, prescindendo da noi e dalla nostra volontà di sapere e di comprendere. Va da sé che dobbiamo darci dei limiti, o rischiamo di fabbricare un cartoon, e il medioevo finisce per essere popolato di principesse dai cappelli a punta, da draghi atroci e cavalieri fierissimi, da santi piissimi, da asceti miracolosissimi pieni di tutta la saggezza di tutti i tempi. O si degrada in una serie di improbabili rievocazioni bellico-turistiche. Perché se scateniamo prematuramente l'immaginazione corriamo il rischio di ritrovarci bambini e indifesi, alla mercé di immagini fabbricate da altri adulti: Perrault, per esempio, o Luigi II di Baviera e i suoi castelli, per il tramite di Walt Disney o delle collezioni di figurine. È una lezione di grande stile quella del terribile professor Crastaing: «Immaginazione non significa menzogna». Quello che abbiamo raccontato si può dedurre, con l'aiuto di un po' di ragionamento e di intuizione, proprio dal testo di quella processione. Ma si può dedurre molto altro ancora, molto di più. Il racconto della storia è potenzialmente una fuga senza limiti. I suoi limiti, il discorso storico se li dà da sé; solo la volontà o la morte di chi lo compie potrebbe costringerlo a chiudersi. (Allora un altro storico ricomincia daccapo, e così via. La conoscenza della storia non può dirsi mai esaurita. Anche perché a ogni generazione è necessario rinnovare l'insegnamento del passato: è un'ovvietà, non parliamone più.) Dunque abbiamo un testo, l'inno di una processione. Una processione è un atto scenico. Presuppone attori (il clero) e spettatori (la plebe), prevede presenze invisibili (in questo caso Ottone III e il suo papa, Silvestro II, e i loro uomini, gli aristocratici eminenti di religione e di guerra). Presuppone un significato e uno scopo. Presuppone e indica un intero mondo. Attraverso le parole del suo inno si può dispiegare un intero mondo, come avviene ai giorni nostri lungo le colonne di un giornale. O anche, visto che si tratta di azione scenica, come per siparietti scanditi e progressivi: separati, ma si richiamano l'un l'altro. Perché quel mondo, come il nostro, anche se si rappresenta per atti, per scene e per quadri, è tutt'uno. Vediamo allora di che cosa si tratta. | << | < | > | >> |Pagina 67L'antico esercito del re era fatto di uomini che nella maggior parte dei casi non avrebbero potuto permettersi di mantenere un cavallo e di procurarsi l'equipaggiamento necessario (una cotta di scaglie di ferro, uno scudo di legno, una lancia, una spada, un coltellaccio a doppio taglio), che nell'VIII secolo costava quanto una ventina di vacche. Erano i liberi, e combattevano a piedi. I Longobardi li chiamavano «arimanni» (uomini dell'esercito: Heer, esercito, Mann, uomo), i Franchi «esercitali» (perché così li chiamano le fonti latine: exercitales, che è la traduzione perfetta della parola germanica). I liberi: quelli che con le armi sapevano conservare la propria libertà, sapevano difenderla e sapevano, anzi, strapparla ad altri. Del resto il nome stesso dei «Franci», sotto il quale almeno fino al V secolo si era riconosciuto non un popolo ma una federazione di distinte tribù germaniche, esprimeva quest'idea: «i coraggiosi»; solo in un secondo momento diventò significativamente «i liberi»: i liberi, i più animosi, i più forti, quelli che riescono a essere vincenti in quella «caccia all'uomo» che è la guerra e a rendere schiavi gli sconfitti. Allora si assiste a vere e proprie deportazioni di massa; buona parte dei Sassoni travolti da Carlo Magno, per esempio, furono trasferiti nelle province più interne dell'impero, più lontane dai luoghi d'origine. La libertà e la schiavitù sono due maglie della stessa catena della storia degli uomini. In Europa la schiavitù è permanente e diffusa almeno fino all'XI secolo. Gli schiavi sono come le bestie, valgono altrettanto e vengono puniti molto più severamente: con fustigazioni selvagge, mutilazioni che non arrechino danno alla capacità lavorativa (amputazione del naso, delle orecchie, delle labbra, dei testicoli). Non si tratta soltanto di sadismo, si tratta di ribadire che gli schiavi sono oggetti animati totalmente passivi, non abilitati ad agire se non su comando dei padroni. A parte alcuni periodi di crisi generalizzata (guerre che portavano disorganizzazione nei latifondi e possibilità di fuga per gli schiavi, rivolte, repressioni) questo sistema fu forte sino a quando una concomitanza di fattori (fine delle guerre di conquista, carenza di mano d'opera, introduzione di innovazioni tecnologiche come il mulino ad acqua o il giogo per i buoi e i cavalli, che consentivano di fare a meno degli schiavi: cioè di dover provvedere al loro pur povero sostentamento) non condusse quasi naturalmente alla sua estinzione. Gli ecclesiastici non vi trovarono nulla di riprovevole almeno fino al IX secolo; papa Gregorio I cercava gli schiavi in Sardegna e in Gallia, le quattro abbazie rette da Alcuino, il consigliere di Carlo Magno, all'inizio del secolo IX possedevano più di ventimila schiavi: anzi, in Spagna una chiesa che aveva soltanto dieci schiavi era detta «poverissima». Del resto che cosa aveva scritto sant'Agostino? La causa prima della schiavitù è il peccato che ha sottomesso l'uomo al giogo dell'uomo, e questo non è stato fatto senza la volontà di Dio che ignora l'iniquità e ha saputo ripartire le sue pene come salario dei colpevoli. Dunque non si poteva trovar nulla da ridire sul fatto che un essere schiavo di sesso maschile che avesse attentato alla libertà sessuale di una donna, indipendentemente dal fatto che fosse consenziente o no, dovesse essere torturato nei modi più tremendi (così recitava la legge franca dell'VIII secolo) e morire alla ruota. Gli schiavi, in verità, diventavano davvero uomini soltanto quando erano emancipati nelle chiese, all'angolo dell'altare, come se nascessero a nuova vita con il battesimo: per moltissimi, con un secondo battesimo. Ma, nonostante il fatto che lo stesso Gregorio I parlasse di «eguaglianza di condizione», prima dell'emancipazione gli schiavi erano nella sostanza anche per gli ecclesiastici nient'altro che «bestiame umano». Gli uomini veri e propri, invece, i liberi, si riunivano nelle assemblee generali che prendevano le grandi decisioni, come quella di eleggere un capo (in realtà acclamavano un capo designato dai capi dei clan principali): quelle assemblee definivano lo stato di libertà. In quelle assemblee, forse, si parlava la lingua theodisca, prima che la parola passasse a indicare l'insieme dei dialetti germanici parlati ad est del Reno. Loro era il diritto di portare le armi, loro era il diritto di andare alla guerra. Ma si trattava di un diritto gravoso. Nel maggio di ogni anno l'«oste» carolingia, l'armata generale dei Franchi, si mobilitava per le campagne militari. La guerra, lo vedremo, era necessaria per tenere a bada la grande aristocrazia, darle delle terre sempre nuove da controllare e da cui ricavare redditi grazie alle nuove acquisizioni di schiavi. C'era la possibilità di bottino. Ma il bottino non sempre riusciva a compensare la grande maggioranza dei piccoli e piccolissimi proprietari terrieri che in forza del diritto e della consuetudine vi prendevano parte. Un raccolto compromesso, ed era la fame: non dimentichiamo che questa è fondamentalmente un'economia di penuria nel migliore dei casi, di sussistenza nel caso più frequente, di sforzi per la sopravvivenza nel peggiore. E l'uso comune di terre, foreste o paludi, privilegio delle comunità di uomini liberi, non garantiva granché in questi casi. Otto anni di carestia generale e di fame, complessivamente, durante i quarantasei di regno di Carlo Magno. Andare a fare la guerra era un privilegio esaltante, ma poteva essere un peso intollerabile. Poteva tradursi nella necessità di parteciparvi per segnalare la propria condizione di libertà, indipendentemente dalla possibilità economica di farlo. E allora, quando non c'era la morte per fame, c'erano i debiti. Poteva diventare necessario vendersi per riscattare i debiti: al fondo della libertà si nascondeva la schiavitù, pur senza aver mai perso una battaglia. C'era anche un'altra possibilità, che almeno in Italia si istituì come nuova categoria giuridica, quella dei «cartolati». Si trattava di sottoscrivere (diciamo meglio, accettare) una cartula obbligationis, un documento con il quale ci si impegnava a essere sollevati dagli obblighi connessi con il troppo oneroso stato di libertà. I «cartolati» non perdevano il loro stato giuridico di liberi: di fatto, però, si ritrovavano in una condizione simile a quella degli schiavi: erano i «liberi non-liberi». Nel migliore dei casi divenivano coloni del grande proprietario perdendo per sempre la condizione di piccoli proprietari. In cambio dei loro servizi come contadini, questi uomini affidavano la loro protezione ai grandi aristocratici, che avevano terre e mezzi grazie ai quali potevano raccogliere attorno a sé dei guerrieri professionisti. | << | < | > | >> |Pagina 134La morte è un momento fondamentale. Siamo pure banali, e diciamolo: la morte è un corollario della vita. Per i cristiani è ancor di più. È il passaggio dal mondo della corruzione a quello della perfezione e della luce, dal mondo del peccato a quello dell'intaccata e, finalmente!, immutabile purezza; dal mondo del dubbio e dell'inganno a quello della più luminosa certezza, perché conduce all'incontro con Dio. Può condurre nella Gerusalemme celeste, «quella città celeste che fu detta "visione di pace"», come scrive Odone di Cluny, che si presenta simile al vetro e all'oro, Perché ogni cuore può vedere tutto nell'altro (...) Nulla ha di tetro la città, dunque nulla c'è che non sia prezioso, (...) Non manca dei raggi della luna né del lume del sole, L'Agnello è il suo unico giorno e la perpetua lucerna. Odone riprendeva il tema dell' Apocalisse: «la città era di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città erano adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento era di diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l'ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l'undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città era di oro, puro come vetro trasparente». Quali splendori inimmaginabili per l'uomo occidentale del X secolo, anche per l'uomo di cultura e per il ricco, che non avevano mai visto i capolavori degli opifici del lusso e dell'oreficeria antica e bizantina! La prima volta che i cluniacensi, gli eletti, gli appartenenti alle migliori famiglie del secolo e alla più eccelsa aristocrazia della preghiera, si trovarono a contatto con una coppa «preziosissima, di genere Alessandrino, fatta di colori triti», che apparteneva alla mensa imperiale, se la passarono di mano in mano perché apparteneva alle cose per loro «nuove e inconsuete», e finirono per farla cadere e mandarla in frantumi: dovette intervenire Odilone con un miracolo per restituirla alla sua integrità, alla sua prodigiosa bellezza. Odone parlava di una città fatta di pura luce, perché non poteva evocarla altrimenti. Ma c'è un altro terribile luogo, quello dei reprobi, dove regna Behemot, dove c'è «dolore e gemito, e tribolazione perenne», dove ci sono «le fiamme di Satana senza fine apprestate», «il pozzo fetido che vomita fiamme», il «fiume ribollente di fornaci di pece e di zolfo, pieno di grossi draghi, di scorpioni e di serpenti»: il luogo che si spalancherà dopo l'inevitabile Giudizio finale, quel Giudizio che è previsto sin dall'inizio del mondo. Eppure non basta. Il Purgatorio non è stato ancora inventato o perfezionato, non ci sono anime inquiete che si lamentano nelle brume e nella tempesta in attesa che si compia il tempo dell'espiazione, ancora o si è morti bene o si è morti male, null'altro. L'aldilà può essere anche un terribile aldiqua. L'aldiqua dove infuriano le orde dei condannati a non riposare mai, dannati a vagare in perpetuo su cavalli schiumanti nei crepuscoli di tempesta, dannati a preannunciare la morte a chiunque incontrano, l'aldiqua tutto terreno di coloro che non sono riusciti ad attraversare la soglia che li porterà lontano dal mondo e sono costretti a ripercorrerlo tutto per sempre senza mai poterne più fruire, di coloro che sono costretti a invidiare i vivi e a cercare di nuocergli: l'aldiqua dei morti viventi, i malmorti. Sono coloro che muoiono di morte violenta, all'improvviso, o anche nel travaglio del parto; sono le orde di Holda Perchta, di Herla, di Arlecchino. Ma sono anche le figure domestiche che sull'inizio dell'inverno riattraversano il confine della morte e si mescolano ai vivi, sono i morti che nelle dodici notti più lunghe, più buie, più fredde cercano un po' di calduccio presso i bracieri dei vivi, e che i vivi debbono ospitare, o potrebbero essere colpiti dalla loro collera. Le cavalcate perenni dei violenti e il ritorno dei morti in giorni stabiliti non sono, evidentemente, credenze cristiane. Appartengono al sostrato profondo delle religioni su cui i missionari hanno spalmato il cristianesimo: un sostrato che non era intervenuta a modificare la pluralistica e plurima e, caso mai, sincretistica religiosità dell'età romana. Il sostrato celtico, o profondamente indoeuropeo, ricompare nel medioevo non perché fosse stato cancellato, ma perché solo nel medioevo è costretto a misurarsi con una religione totalizzante, con un'intenzione integrale: ed è costretto a scontrarsi con essa non per sua propria scelta, ma perché è la nuova religione che impone lo scontro. Perché essa impone il censimento delle credenze diverse; la loro cancellazione; o la loro rimozione; o la loro criminalizzazione; o la loro assimilazione se proprio non c'era altra via. È da quanto segnalano o denunciano i sacerdoti della nuova religione, che sono consapevoli di avere il compito (la missione) di salvare gli uomini dalla dannazione eterna, che noi possiamo apprezzare la solidità e la continuità, la quotidianità delle religioni precristiane. Gli uomini del vero Dio sanno di avere il dovere di farlo: «costringi la gente a entrare, perché si riempia la mia casa», diceva la Parola del Signore (Lc 14, 23, e così verrà assicurata e giustificata la via per le conversioni forzate, per la repressione delle eresie). I seguaci di questa nuova religione trionfatrice di origine e di impianto ellenistico-orientale sono costretti a prendere atto della persistenza di credenze celtiche, germaniche, mediterranee, iraniche, e della impossibilità di sradicarle con atti di imperio: quanti alberi sacri avevano abbattuto, quante sorgenti sacre avevano profanato Martino di Tours e Paolino di Nola? Quanto sterminio era stato fatto dei Sassoni pagani da Carlo Magno, quanto severamente era stata condannata la loro religione? E con quali risultati profondi, se di alberi sacri e di sacre sorgenti risentiamo parlare nell'XI secolo? Lo sradicamento poteva avviarsi per un'altra strada, quella della traduzione. Le credenze antiche potevano essere tradotte in termini nuovi. | << | < | > | >> |Pagina 166Gerberto. Il mito. Era già famoso alla fine dell'XI secolo. Bennone, uno dei cardinali di Clemente III l'antipapa (Wiberto di Ravenna), lo vede come il capostipite di una Roma di necromanti, quella che poi è approdata a Gregorio VII e alle sue arti necromantiche (secondo Benzone d'Alba, un altro nemico di Roma), e scrive che era proverbiale dire: «Passò da R Gerberto a R poi papa vige in R». Un enigma: gli enigmi fanno parte della cultura medievale, stuzzicano l'ingegno. Un indovinello veronese del secolo VIII parla di buoi diretti a seminare un bianco prato con un bianco aratro, e il seme è nero: si ritrova nella cultura popolare siciliana, tradotto con «Bianca campagna, niura semenza / l'omu chi la fa sempri la penza»: si tratta del foglio, della penna d'oca, dell'inchiostro che traccia le lettere nere: la scrittura è sempre pensata. La Vita di Pasquale II racconta che il suo pontificato esordì proprio con un enigma che gli prediceva che avrebbe regnato diciannove anni: il vescovo di Alatri gli raccontò di aver ricevuto in visione la premonizione che sarebbe vissuto ancora Quater quaterni ternique («quattro per quattro più tre»: anni, s'intende). Donizone scrive che è attraverso un enigma (la storia di un orso che strazia un cervo ed è alla fine beffato da una volpe) che Adalberto Atto di Canossa viene convinto a smetterla di sfidare in singolar tenzone i campioni dell'esercito di Berengario che lo sta assediando. L'enigma è un indovinello che aiuta a far passare il tempo e si rivela un espediente narrativo singolarmente efficace; la sua forma concisa, poi, è perfetta per le predizioni, come sapevano le Sibille antiche: ricordiamo il famoso Ibis redibis non morieris in bello: «andrai; ritornerai; non morirai in guerra», oppure: «andrai; tornerai: no, morirai in guerra»... Vedremo subito qual è il significato dell'enigma per Gerberto. Era già un mito nel secolo XII. Walter Map gli dedicò una lunga favola del suo Svaghi di corte, un'opera di storie e di racconti politici cui non ebbe il tempo o la volontà di dare l'ultima mano e che è rimasta perciò disorganica da un certo punto in poi, frammentata. Ciononostante Map riesce a dare voce a un intero mondo, quello della vita curiale e politica di Enrico II Plantageneto (1154-1189). Dunque Map scrive per il suo squisito pubblico, quello dei cortigiani di Enrico: Chi non è al corrente della fantastica illusione del famoso Gerberto? Gerberto di Burgundia, giovane illustre per nascita, costumi e fama, a Reims si impegnava per superare in intelligenza ed eloquenza tutti gli studenti, indigeni o stranieri, e ci riuscì. Da questo esordio prende il via una lunga affabulazione. Gerberto si innamorò della figlia del prevosto, bella e desiderata da tutti gli uomini di Reims, ma tanto superba da condurre alla disperazione e alla rovina il povero studente che non riesce a ottenere da lei il minimo segno di considerazione. Mentre tutto stava andando in malora per Gerberto, compresi i suoi studi, ed egli vagava affamato per una foresta, gli comparve la fata Meridiana: una donna di straordinaria bellezza, seduta su un grande tappeto di seta, e che aveva davanti a sé un grosso mucchio di denaro. Meridiana è nobilissima e vergine, non si è mai concessa a nessuno: lo farà a lui, le sue ricchezze saranno le sue, le sue fortune rifioriranno, ma Gerberto deve impegnarsi a rifiutare quell'altra femmina, che oltretutto l'ha ingannato («ha velato Afrodite con il falso mantello di Minerva e, con l'alibi del rifiuto a te, altri sono approdati alla sua divaricazione». Oppure «si sono diretti nella sua fenditura»: un'espressione che non lascia nulla all'immaginazione, non c'è che dire). Gerberto che può fare? accetta, e tutto cambia. I debiti sono saldati, anzi la generosità di Gerberto lo rende una benedizione per i poveri. Persino la feroce figlia del prevosto cambia: ora è lei a cercarlo e a essere respinta; non trova niente di meglio che violentarlo in un pomeriggio di calore e di vino, ma quando Gerberto si rende conto di quel che ha fatto corre a implorare il perdono di Meridiana. Tutto è perfetto con lei: Ogni notte la donna, che aveva la piena conoscenza del passato, lo istruiva sul da farsi l'indomani (...) Gerberto progrediva in due scienze, quella dell'alcova e quella della scuola, e trionfava gloriosamente nei più alti propugnacoli della fama. Gerberto apprende tutto della vita, perché il passato è maestro e insegna tutto del futuro, secondo la definizione della storia che aveva dato Cicerone e che il medioevo aveva accolto dall'antichità, e perché diventa un esperto della carne. Ma di questo secondo aspetto nessuno sospetta nulla. Accadde frattanto che l'arcivescovo di Reims si spense e Gerberto, per merito della sua fama, fu posto su quella cattedra. In seguito (...) mentre soggiornava a Roma, fu nominato dal papa cardinale e arcivescovo di Ravenna; poco tempo dopo, morto il papa, ascese a coprirne il seggio. Ecco le tre R: Reims, Ravenna, Roma. Sono le tappe più importanti della sua carriera. Disegnano un percorso. Lo vedremo ancora. Ma torniamo alla lunga favola di Map. Gerberto è dunque approdato alla cattedra più alta: ha potuto farlo per la sua dottrina, che tuttavia ha acquisito grazie alla magia. Ne è consapevole: non si accosta mai all'eucaristia, ma poiché glielo impone il suo dovere di sacerdote finge di farlo. Infine gli appare Meridiana, che gli rivela che sarebbe vissuto fino a quando non avesse celebrato messa a Gerusalemme. Gerberto si sente al sicuro, ma un giorno, celebrando la messa, vede davanti a lui nuovamente Meridiana, e stavolta applaudiva: la chiesa in cui si trovava era quella di Santa Croce in Gerusalemme, la sua ora stava per giungere. Si confessò pubblicamente rivelando tutto della sua vita, si sottopose «a una assidua e severa penitenza, e rese l'anima dopo una buona confessione». L'enigma chiude la vita di Gerberto (un enigma simile chiuderà la vita di Enrico IV d'Inghilterra, secondo Shakespeare), segnata, se così si può dire, da una candida doppiezza: Gerberto non dimentica che deve tutto alle arti di una fata che, per il fatto di essere tale, di renderlo maestro dei maestri anche nelle arti erotiche, per il nome stesso che porta (quello del Demone Meridiano, che assale i religiosi quando il sole culmina nel mezzogiorno), è certamente una creatura diabolica; eppure Meridiana non lo trascina a smarrire il senso della perdizione, anzi, glielo mantiene sempre vigile, affilato. Meridiana è un diavolo che per quanto male faccia non riesce a non fare il bene (come Mefistofele: «Una parte di quella forza che costantemente vuole il Male, e costantemente opera il Bene»). Meridiana lo aspetta così com'è, lo attende purificato, lo ha scelto per le sue qualità e l'ha premiato per le sue qualità: lo ha restituito a se stesso. Gerberto non è ancora il dottor Faust o Adrian Leverkhün, semmai è come il Maestro di Bulgakov... | << | < | > | >> |Pagina 231Il Mille... Quanto inchiostro è stato sparso per dimostrare che nel Mille si aspettava con ansia la fine dei tempi, secondo i calcoli che Dionigi l'Aeropagita aveva fatto sulla base dell' Apocalisse (20, 7-10.12.15): e quando saranno consumati i mille anni sarà sciolto Satana dal suo carcere ed uscirà, e sedurrà le genti che sono ai quattro angoli della terra, Gog e Magog, e li radunerà a battaglia, e il loro numero è come la sabbia del mare, e si stenderanno per tutta la larghezza della terra, e circonderanno le fortificazioni dei santi e la città diletta, e scese il fuoco dal cielo, mandato da Dio, e li divorò, e il diavolo che li seduceva fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove la bestia e gli pseudoprofeti saranno tormentati giorno e notte nei secoli dei secoli (...) e furono aperti i libri, ed un altro libro fu aperto che è quello della vita, e furono giudicati i morti da ciò che era scritto nei libri (...) E chi non fu trovato iscritto nel libro della vita fu mandato nello stagno di fuoco (...) Quanto inchiostro è stato sparso, d'altro canto, per dimostrare che nessuno aspettava la fine. Che essa è «una tenace leggenda dei nostri tempi», del XIX secolo romantico o, più in generale, dell'età moderna: anche se una leggenda giustificata dalle testimonianze che abbiamo. E basata su un'invenzione storiografica dell'XI secolo, quella di Rodolfo il Glabro, cui andrebbe attribuita la creazione della categoria di «Anno Mille». Ma è stato anche scritto che noi non possiamo apprezzare la profondità di quei terrori perché gli uomini di quel tempo non potevano manifestarli in nessun modo, obbligati com'erano a un comportamento virile e mascolino che imponeva il disprezzo o almeno il disconoscimento della paura. Che bisognerebbe muoversi in un quadro diverso, sinora sfuggito alla ricerca e alla ricostruzione storiografica, che «giace nascosto sotto uno strato di incomprensioni»: quello del lato rituale ed emozionale, quello della «semiotica esistenziale». Insomma, è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Non resta che guardare più da vicino. Provare a leggere direttamente, una per una, le fonti del (primo) millennio, della (prima) fine dei tempi: le testimonianze principali, quelle più conosciute. Apriamo il laboratorio dello storico, quello nel quale sono sminuzzate e (nel migliore dei casi) decifrate le notizie che vengono dal passato. Non ci sorprenderemo troppo se certe notizie o osservazioni si ripetono con una qualche monotonia, come se rimbalzassero da una fonte all'altra. Quanto erano diversi da noi gli uomini che hanno scritto mille anni fa? Innanzitutto registriamo il primo e fondamentale elemento di lontananza, una premessa indispensabile: il pieno medioevo non conosce ancora l'idea della fine improvvisa del mondo e del Giudizio improvviso; essi arriveranno soltanto dopo un lungo periodo di prove nelle quali senza ambiguità verranno riconosciuti il giusto e l'empio. È un altro aspetto della diversa capacità del controllo delle coscienze. Se la fine sarà improvvisa e subitanea bisognerà sempre aderire perfettamente alle regole di comportamento e alle credenze prescritte, e questa adesione potrà essere verificata in qualunque momento e, se necessario, sanzionata; la fine di tutto condizionerà la condotta di vita di tutti. Nel pieno medioevo, invece, il quadro è molto meno rigido, molto meno meccanico, molto distante da quello dei manuali per i confessori o per gli inquisitori tardomedievali, che hanno forgiato le idee dell'età moderna. Bisogna tener conto anche di un altro aspetto. Quando si calcolava che la fine sarebbe iniziata mille anni dopo Cristo non si sapeva se si dovesse computare a partire dall'Incarnazione o dalla Passione, e quindi c'era un arco di tempo possibile di trentatré anni. Un lungo periodo possibile di disastri e tribolazioni, di temporanei trionfi della Bestia, dell'Anticristo, alla fine del quale sarebbe rifulsa, abbagliante, la gloria di Dio e dei giusti. Già: ma quanto si sarebbe dovuto aspettare? Su quali elementi si sarebbe potuto capire che la fine dei tempi si stava avvicinando? E chi sarebbe stato nelle condizioni di capirlo? Di questo discutono le nostre fonti, cioè quelle nelle quali la tradizione storiografica ha riconosciuto o voluto riconoscere l'attesa del Millennio.
Ma non tutte, e non sempre.
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