Copertina
Autore Lorenzo Capellini
CoautoreRoland Recht
Titolo Giotto vis à vis
SottotitoloVolti e mani dalla Cappella degli Scrovegni
EdizioneAllemandi, Torino, 2003, , pag. 120, cop.ril.sov., dim. 295x285x18 mm , Isbn 978-88-422-1136-5
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe arte
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Indice


 11 Faccia a faccia con Giotto
    Roland Recht

 30 La Cappella degli Scrovegni: storia di un capolavoro
    Federica Bevilacqua

 35 Gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni

 43 Volti e mani dalla Cappella degli Scrovegni

117 Bibliografia


 

 

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Pagina 11

Faccia a faccia con Giotto

ROLAND RECHT


Entrare nella cappella di Padova è come tuffarsi in un mondo la cui potenza evocativa è talmente grande che ci afferra, anche se non ne cogliamo completamente il senso. Questo pittore, che Dante considerava suo pari tra i più grandi poeti, questo Giotto della cui carriera molto ignoriamo, ma la cui opera s'impone con tanta forza, ha concepito questo insieme che rappresenta, per la storia dell'arte, una sorta di prodigio. Per lo spettatore moderno le architetture, nelle quali si dispiega l'azione, sono indubbiamente soltanto un'espressione ancora incerta d'uno spazio che sarebbe stato pienamente padroneggiato soltanto dall'illusionismo tridimensionale; i corpi dal modellato già reso con cura, e con le ombre segnate, abitano lo spazio suggerito dalle architetture in un modo che pare tanto naturale; i gesti e la mimica scandiscono un racconto, conferendogli grande forza espressiva: tutto questo ci è divenuto familiare perché peculiare della pittura «classica». Tuttavia, all'inizio del Trecento, ciò che questa pittura offre di consueto a un occhio avvezzo alla storia dell'arte moderna era un'assoluta novità. Varcando la soglia di questa cappella, il fedele subiva uno choc la cui entità non siamo più in grado di valutare. Tutto, qui, parlava con un linguaggio inedito: lo spazio, il colore, l'espressività, il modo di condurre il racconto sacro.

La cosa che indubbiamente sorprende di più in quest'opera è la sua forza narrativa. In confronto con altri grandi narratori, come i maestri vetrai di Bourges, per esempio, o gli scultori di Chartres, Giotto ha ripensato a fondo il complesso del dispositivo narrativo: il ciclo raffigurato nell'insieme del suo svolgimento, l'economia propria di ogni scena, la caratterizzazione di ognuno dei personaggi, i segni mediante i quali comunicano tra loro e si manifestano agli astanti. Come nelle Meditationes vitae Christi (anteriori al 1270), il messaggio biblico è trasmesso da un'umanità viva, di cui si sente la voce, si notano i gesti e alla quale il narratore ci consente di unirci, con la quale possiamo mescolarci. Per Cicerone una storia efficace deve avere degli ingredienti, delle virtutes narrationis, che sono: brevità, chiarezza e verosimiglianza. Questa nuova capacità narrativa dell'autunno del Medioevo, probabilmente derivata dalla lettura di Cicerone, è già operante nei grandi cicli scultorei, come le opere di Nicola Pisano nell'ambone di Bourges o nel timpano di Notre Dame con Saint Etienne, a Parigi. Giotto però non è uno scultore, anche se il suo gusto per la scultura, in particolare per i rilievi antichi e gotici, pare incontestabile. Da questi ha imparato a costruire i corpi a partire da ampi movimenti dei panneggi, a scolpirli nel campo dell'immagine come bassorilievi.

Giotto è innanzi tutto un pittore, e vuol rinnovare il linguaggio figurativo mediante il mezzo pittorico. Egli è anche un narratore straordinario, poiché ha saputo ripensare i processi figurativi, come l'architettura fittizia, le ombre portate, i gesti e la mimica delle dramatis personae, in modo da ghermire lo spettatore, renderlo attento all'azione, fare nascere in lui la compassio.

Prima di Giotto, e forse nella sua partecipazione ancora non ben definita alla decorazione di Assisi, i primi tentativi di una nuova trattazione dello spazio plastico, consistente nel conferire maggior corporeità ai personaggi e più coerente definizione alle architetture raffigurate, erano stati numerosi, ma a Padova Giotto fa un passo da gigante: è come se si fosse inventato un nuovo linguaggio pittorico per meglio esprimere un programma teologico di ammirevole coerenza. Questo linguaggio è destinato a muovere gli affetti con mezzi squisitamente sensibili.


UN'OPERA D'ARTE COME GESTO ESPIATORIO

Quest'opera prodigiosa, segnata dalla sensibilità francescana, ha una funzione particolare: il più ricco abitante di Padova, Enrico Scrovegni, assegnando la commissione a Giotto volle salvare suo padre Reginaldo da quella dannazione eterna che la Chiesa riservava al peccato dell'usura.

Dante evoca la presenza di Reginaldo Scrovegni nel XVII canto dell'Inferno. Consacrata nel giorno dell'Annunciazione, il 25 maggio 1305 - i lavori per la decorazione interna s'erano svolti probabilmente tra il 1304 e il 1312-1313 - la cappella è dedicata a Santa Maria della Carità e parzialmente finanziata con i contributi dei Cavalieri Gaudenti, di cui Enrico forse faceva parte. L'ordine dei Cavalieri Gaudenti comprendeva, infatti, accanto ai conversi, ai chierici e ai conventuali, anche dei «coniugati», cioè dei laici sposati che dovevano fare voto di castità.

L'ordine perseguiva un duplice obiettivo: la devozione alla Vergine Maria e la lotta all'usura, che sono i temi dominanti di questo programma iconografico.

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Quando si osservano le varie teste si resta colpiti dalla straordinaria capacità di Giotto di ottenere l'effetto ricercato e di dotarsi di un così gran numero di possibilità diverse. Le teste dei vegliardi hanno la capigliatura trattata prima con colore scuro e poi lumeggiata di ciocche bianche. L'ultimo colore steso sui volti per indicare la freschezza giovanile, come nell'angelo in Gioacchino sacrificante, è applicato con un movimento curvilineo del pennello che segue la curva della mascella. Il «bianco sangiovanni» è utilizzato al fine di moltiplicare le risorse del bianco stesso. Come nessun pittore prima di lui, Giotto ottiene trapassi impercettibili di colore senza soluzione di continuità, il che crea un modellato di rara raffinatezza, preceduto, senza dubbio, da un lavoro preparatorio particolarmente intenso. Lo studio approfondito degli affreschi attesta una conoscenza notevolissima dei materiali, in particolare dell'impiego di pigmenti compatibili con la calce. È accertato in alcune scene l'impiego di fili battuti (raccomandato anche da Cennino Cennini) per indicare il tracciato da seguire, soprattutto per la quadrettatura della resurrezione di Lazzaro e del Noli me tangere. Il maestro ha quindi eseguito dei disegni preparatori, ma ha anche praticato lo schizzo diretto sull'intonaco fresco. L'immensa cultura visiva di Giotto, che certamente aveva assunto forma concreta in numerosi taccuini di disegni, è sempre al servizio della sua preoccupazione di ottenere la massima espressività.


LA STORIA E L'UMANIZZAZIONE DEL SACRO

L'espressività dei gesti, delle fisionomie, del colore non è mai un fine a sé stante, ma è posta al servizio della storia. È la storia che dobbiamo ancora evocare, la sua struttura narrativa, la sua logica, la sua messa in scena. In Giotto l'efficacia del racconto deriva dal rapporto che l'individuo ha con il gruppo oppure con un altro singolo individuo. Il personaggio giottesco trae sostanza e originalità da questa coscienza dell'individualità. Questa coscienza si manifesta essenzialmente nella trattazione dello sguardo. In ogni episodio, nella tenerezza dell'abbraccio di Anna e Gioacchino alla porta aurea o della Madonna che guarda il Bambino nella natività, oppure nello sguardo terribile che Giuda lancia al suo Maestro nella scena del bacio, la densità psicologica deriva dall'intensità dello sguardo.

Giotto ha creato, così, delle vere reti che legano un personaggio all'altro (come negli sguardi reciproci dei due uomini avvolti in panneggi nella presentazione di Maria al Tempio), ma ha anche usato questa trattazione dell'intensità dello sguardo al fine di conferire forte individualità a ognuno dei personaggi.


In numerose scene Giotto dispone dei gruppi legati assieme dall'attenzione comune a una certa azione (come per esempio nella resurrezione di Lazzaro). Egli dà loro una posizione nello spazio che gli consente di sottolineare, per contrasto, l'importanza dell'individuo isolato, ma la messa in scena di questi gruppi all'interno di uno stesso riquadro permette anche la resa di azioni simultanee: così, nelle nozze di Carla, il gruppo mediano non presta alcuna attenzione a quello a sinistra di Gesù, diversamente dal gruppo di destra. Anche in questo caso è la direzione degli sguardi e dei volti a creare i sottogruppi.

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